Un lieto girotondo, un triste girotondo
Recensione a Uccelli di Aristofane per la regia di Roberta Torre (XLVIII Ciclo di Rappresentazioni classiche, Teatro greco di Siracusa)
Stefania Rimini
English abstract
Il programma delle rappresentazioni classiche dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico offre quest’anno agli spettatori un’occasione in più rispetto alle passate edizioni: i lunedì della commedia. Tra gli alti lamenti di Prometeo (per la regia di Claudio Longhi) e le danze orgiastiche di Baccanti (affidate ad Antonio Calenda) si fa strada in cartellone – per un totale di otto repliche – la fervida utopia di Uccelli, fantasmagoricamente ‘abbigliata’ da Roberta Torre. Si tratta del primo, fortunato volo dello stormo aristofanesco sopra il cielo siracusano, dal momento che la versione precedente era stata allestita nel 1947 presso il Teatro Romano di Ostia Antica.
Oggi, come allora, le ‘armi del ridicolo’ consentono di “scuotere la nostra povera patria” (Leopardi, Zibaldone 1394), e di riscoprire intatta la teatralità del riso, per cui – come scrive a proposito di Leopardi Antonio Prete – “le maschere possono ridere, e possono ridere anche della disperazione di colui che le porta, quelle maschere. In questo senso c’è un potere del riso: potere di dominare se stessi e la scena”. Il richiamo alla lezione leopardiana è da prendere ‘al volo’ (!), innanzitutto per le arguzie filosofiche e linguistiche dell’Elogio degli uccelli:
Veramente molto conforto e diletto ci porge, e non meno, per mio parere, agli altri animali che agli uomini, l’udire il canto degli uccelli. E ciò credo io che nasca principalmente, non dalla soavità de’ suoni, quanta che ella si sia, né dalla loro varietà, né dalla convenienza scambievole; ma da quella significazione di allegrezza che è contenuta per natura, sì nel canto in genere, e sì nel canto degli uccelli in ispecie. Il quale è, come a dire, un riso, che l’uccello fa quando egli si sente star bene e piacevolmente. Onde si potrebbe dire in qualche modo, che gli uccelli partecipano del privilegio che ha l’uomo di ridere: il quale non hanno gli altri animali; e perciò pensarono alcuni che siccome l’uomo è definito per animale intellettivo o razionale, potesse non meno sufficientemente essere definito per animale risibile; parendo loro che il riso non fosse meno proprio e particolare all’uomo, che la ragione.
La definizione dell’uomo come “animale risibile” ben si adatta allo spirito della commedia antica, anche perché il riso all’altezza delle Operette morali diviene esercizio critico, funzione di un imprescindibile slancio politico. La radice di un rinnovato impegno nei confronti del proprio tempo, e contro ogni impostura, passa in Leopardi attraverso il riconoscimento di una linea fantastica, favolosa (la naturale gaiezza degli uccelli) che incarna l’utopia di un mondo migliore da cui l’uomo non pare del tutto escluso. È la lingua del riso a garantire una probabile analogia con le creature alate, modello di un ‘ridere alto’ che traduce in metafora un innato desiderio di potenza e di elevazione.
In fine il semplice rider alto vi dà una decisa superiorità sopra tutti gli astanti o circostanti, senza eccezione. Terribile ed awful è la potenza del riso: chi ha il coraggio di ridere, è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire (Leopardi, Zibaldone 4392).
La forma dell’ironia leopardiana non cancella il pulsare delle passioni, che si agitano sempre come sottotesto, disegnando traiettorie dense di implicazioni morali e letterarie. Perfino la morte si pone come soglia del desiderio, come antidoto alla vanità della storia, ma ciò che più conta è il delinearsi di una possibile via di fuga nei territori della fantasia, in quello strato/stato degli uccelli già compiutamente immaginato da Aristofane. L’invocazione finale dell’operetta leopardiana, che tanto somiglia al motto aristofanesco “Non c’è niente di più bello che farsi crescere le ali”, conferma allora la necessità di un corto circuito fra immaginazione comicità e utopia.
In fine, siccome Anacreonte desiderava potersi trasformare in ispecchio per esser mirato continuamente da quella che egli amava, o in gonnellino per coprirla, o in unguento per ungerla, o in acqua per lavarla, o in fascia, che ella se lo stringesse al seno, o in perla da portare al collo, o in calzare, che almeno ella lo premesse col piede; similmente io vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia della loro vita.
È un proposito di leggerezza quello di Amelio, alter ego dello scrittore, che attraversa in lungo e in largo l’immaginario poetico moderno giungendo poi a fare i conti con le regole del gioco teatrale – si pensi alla mirabile musicalità dei versi del Baudelaire di Élevation:
Heureux celui qui peut d’une aile vigoureuse
S’élancer vers les champs lumineux et sereins
Celui dont les pensers, comme des alouettes,
Vers les cieux le matin prennent un libre essor,
Qui plane sur la vie, et comprend sans effort
Le langage des fleurs et des choses muettes!
L’attualità del capolavoro di Aristofane, e la sua fortuna nella scena italiana novecentesca, si devono proprio alla capacità della trama e della lingua di assecondare la spinta metamorfica del teatro, l’illusione di un altrove possibile, la smanie e i paradossi dell’attore. Il testo infatti non solo offre la possibilità di mettere in scacco le tante maschere del potere ma consente anche di condurre la partita su un piano squisitamente metateatrale.
Tra gli adattamenti più interessanti della commedia si segnalano la versione del 1996 di Gabriele Vacis e Laboratorio Teatro Settimo, con la presenza in scena della Banda Osiris a mo’ di Coro e la irriverente comicità televisiva di Francesco Salvi (sostituto del ben più strutturato Eugenio Allegri); definito dallo stesso Vacis “postdemenziale“, lo spettacolo oscilla pericolosamente tra avanspettacolo e varietà Mediaset, toccando però delle vette di puro intrattenimento. Diversamente comico Gli Uccelli di Aristofane e altre utopie di Tonino Conte e il Teatro della Tosse messo in scena presso il porto di Genova nel 2000; la regia si concentra sul tema della polis e della vita collettiva, mentre le sculture fiabesche di Luzzati fanno brillare i colori del sogno. La Compagnia Lombardi-Tiezzi sceglie, invece, come cifra del proprio adattamento di Uccelli, andato in scena per la prima volta a Firenze presso il Teatro Goldoni nel 2005, una riflessione sugli ‘utopisti’ del teatro e sui loro linguaggi. Senza escludere l’orizzonte filosofico, peraltro congeniale alla poetica del gruppo, la performance si costruisce attraverso espliciti richiami a Brecht e Pasolini, a Chaplin e al Beckett di Aspettando Godot, in un collage di stili e forme recitative che esalta le doti degli attori e la intrinseca metateatralità di Aristofane.
È un cartoon esuberante e folle, invece, lo spettacolo diretto da Roberta Torre, una sarabanda vitalissima con accenti foschi, perché – come dichiara la regista – “la nostra è un’era di personaggi comici, con dentro di loro il senso della tragedia”. Abituata da sempre a stupire lo spettatore con singolari mix di farsa e mélo, qui Torre reinventa il milieu aristofanesco con un efficace procedimento di astrazione, proiettando uomini, uccelli e dei nel cono d’ombre e di luci di un Settecento pop. Mai come in questo caso, forse, è lecito parlare di ’commedia di costume’, nel senso che sono innanzitutto gli abiti a farsi segno e cifra della performance. La stretta collaborazione con il costumista Roberto Crea ha consentito a Torre di dar forma a una scena parossistica, in cui l’eleganza dei tessuti si combina con la ferocia e la fragilità dell’habitus morale dei personaggi. Lo stesso Crea ci offre un’interessante prospettiva di lettura delle atmosfere evocate:
… un mondo settecentesco che rappresenta la messinscena del Potere in chiave di minuetto, questi Uccelli sono creature contemporanee e antichissime, di ispirazione fiabesca, quasi una miscela di Alice e Maria Antonietta.
L’idea di distanziare lo spazio-tempo della commedia sembra ricalcare il “surrealismo delle favole” di Uccellacci e uccellini (Italia, 1965), film “ideo-comico” esplicitamente citato attraverso l’impronta attorale della coppia di protagonisti (Mauro Avogadro/Pisetero e Sergio Mancinelli/Evelpide) ed anche tramite alcune calibrate schegge sonore. Come Pasolini, Roberta Torre non crede al “comico della realtà” e preferisce sconfinare nei sentieri del fantastico e del cabaret. Al coté pasoliniano ci pare di poter abbinare i timbri cromatici e le geometrie eccentriche di certo cinema di Tim Burton (per esempio di Alice in Wonderland, Usa 2010), a cui si richiamano i tagli e le tinte delle parrucche, senza dimenticare però le acconciature kitsch e i capelli di zucchero filato de I Baci mai dati (Italia, 2010; sul film si veda la recensione in Engramma nr. 91). Un’ultima suggestione visiva ci viene in mente grazie alle indicazioni di Crea: il graffio rock della Maria Antonietta di Sofia Coppola, protagonista dell’omonimo film (Marie Antoinette, Usa, 2006). Al di là di evidenti analogie di pettinature e vestiti, quel che più sorprende è il generale effetto di straniamento prodotto dal rondò indiavolato degli Uccelli di Torre, che tanto ricorda certi momenti del film della Coppola e soprattutto la sorprendente carrellata sulle scarpe della regina, tra cui fa capolino un ‘mitico’ paio di Converse All Star.
Sebbene il coro non calzi sneakers, ogni personaggio è portatore di una felice anomalia capace di superare qualsiasi tentazione di verosimiglianza, così da lasciar posto a un eterno passato-presente-futuro. Basta un ciuffo, un nastro, un uccelletto impagliato a convincerci che l’eccezione è la regola dentro le sfere dell’arte.
La cornice atemporale dello spettacolo vibra, oltre che per la foggia dei costumi, anche per la direzione enfatica delle coreografie, affidate a Dario La Ferla. Assecondando l’intuizione registica, per cui tutto deve essere immerso in un Settecento di mostri, La Ferla imposta i movimenti del coro puntando sulla vitalità ma senza ricorrere all’“identificazione piumificante”. Gli allievi dell’Accademia dell’INDA sono trasformati da La Ferla in “pinocchi di cartone”, sognatori fragili e feroci, incapaci di reggersi sulle gambe, sempre pronti a lasciarsi illudere e abbagliare. Pur essendo mobili e reattivi in scena, questi personaggi vivono “in un gioco-sogno da cui crollano di continuo e si rialzano ancora e ancora”.
Stretti dentro maschere simil-uccello “da carnevale veneziano post barocco”, gli interpreti si trovano ingabbiati da tulle, merletti, stoffe e trasparenze e non possono che replicare gesti e pose di sgraziata leggerezza. Se all’inizio della performance li vediamo aggirarsi festosamente sulle gradinate, intenti a provocare gli spettatori con moine, scherzi, e qualche finta unghiata, man mano che l’Utopia dei due transfughi ateniesi prende corpo eccoli abbandonarsi a baruffe, lazzi, sguaiati faccia a faccia che in nulla somigliano all’armonioso regno delle nubi.
La carica grottesca dello spettacolo consiste proprio in questo esilarante contrappasso, per cui non bastano gorgheggi e cinguettii a far spiccare il volo a queste povere creature; ha ragione Crea: “questi uccelli non hanno ali…”.
Lo scacco fra bisogno di elevazione e corpi-gabbia produce sul palco sequenze di formidabile allegria, di divertimento puro, grazie anche all’efficace commento musicale di Enrico Melozzi.
Le scelte dell’artista tendono a ricreare sul piano sonoro il trend visivo dello spettacolo: l’euforia settecentesca viene restituita infatti attraverso insistite citazioni mozartiane (o di repertorio classico) condite in salsa pop, con ritmi trascinanti e continue variazioni tonali. Non mancano poi riproduzioni del canto reale degli uccelli, con soluzioni remix che ricordano il finale de Gli uccelli di Franco Battiato (La voce del padrone, 1981). La compresenza di melodie e tradizioni diverse in un’unica partitura contribuisce a sublimare l’astrazione temporale dello spettacolo, mentre l’inserzione di canzoni fa sì che a tratti prevalgano atmosfere da musical, già esplorate da Roberta Torre in Tano da morire (Italia, 1997) e Sud Side Story (Italia, 2000).
La cantabilità di fraseggi e battute si deve al sapiente lavoro drammaturgico di Alessandro Grilli, autore di una traduzione in grado di ‘far parlare’ il testo e di svelarne i dispositivi linguistici più riposti. Senza indugiare in facili effetti attualizzanti, Grilli fornisce agli attori un copione ricco di invenzioni, metafore, spumeggianti calembour che avvicinano lo spirito della lingua di Aristofane ai lampi grotteschi di Jarry, secondo cui “i giochi di parole non sono un gioco”. La spassosa vivacità della performance trae spunto proprio dalla felice riduzione di Grilli e poi si affida ai ben calibrati tempi comici degli interpreti. La coppia dei protagonisti è resa con grande sapienza da Avogadro e Mancinelli, capaci di incarnare rispettivamente la persuasiva determinazione di un aspirante tiranno e la arguta complicità del suo servo. Avogadro/Pisetero veste i panni di un clown pensoso e derelitto, luccicante di paillettes rosse un po’ sdrucite; la sua mimica traduce una certa fierezza, un rancore non del tutto sopito che pian piano si trasforma in gioia crudele, in sfrontata volontà di dominio. Mancinelli/Evelpide è un insolito concentrato di curiosità ed obbedienza, di malizia e candore; munito di macchina fotografica e telecamera, attraversa la scena come un turista per caso (o forse un avido paparazzo), in cerca di stranezze e amenità da catturare con l’obiettivo. Gli ingranaggi della coppia poggiano poi sulla diversa declinazione fisica e vocale dei due interpreti: alla robusta corporatura di Avogadro, sostenuta da una dizione severa, sardonica, con punte di poetica malinconia (si direbbe un mix di Totò, Chaplin e Riccardo III), fa da contraltare l’asciutta costituzione di Mancinelli, virata abilmente verso pose di effeminata gaiezza, mai volgare ma sempre piuttosto pungente.
Accanto al dinamico duo si muove la banda del Coro, interpretata dai giovani allievi dell’Accademia, con in testa l’acuta personalità della corifea Simonetta Cartia. Pur con qualche ingenuità, dovuta al carattere ancora acerbo di alcuni interpreti, la resa scenica del colorito gruppo appare convincente, soprattutto quando il ritmo delle musiche si fa indiavolato e possono abbandonarsi a forsennate scorribande e danze cadenzate. Una menzione speciale va a Rocco Castrocielo (Upupa eccitata, trascinante, ‘stonata’ ma in fondo musicale) e a Giacomo Palmarini (poeta stralunato, goffo, volitivo), per la loro naturale propensione al gioco delle parti. Azzeccata la scelta della nutrita schiera di avventori e divinità, le cui incursioni elevano al quadrato un tasso di comicità già molto alto.
La disincantata parabola della fondazione di ‘Castellinaria degli allocchi’ diviene nelle mani di Roberta Torre uno stravagante giro di valzer, qualcosa che assomiglia – per dirla con Gianna Nannini – “a un ridere nel pianto”. Sebbene il sorriso non abbandoni mai le bocche degli spettatori, l’apoteosi finale di Pisetero, con tanto di epurazioni crudeli e nozze regali, ci riporta con i piedi per terra e ci ammonisce a non abbassare mai la guardia di fronte alla truce benevolenza dei tiranni. Anche in questo caso vale la lezione di Leopardi: “Tutto è follia in questo mondo fuorché il folleggiare. Tutto è degno di riso fuorché il ridersi di tutto” (Zibaldone, 3390).
English abstract
The Birds is still a play rich in moral and political suggestions for the spectator of the XXI century. Roberta Torre staged, for the XLVIII Cycle of Classical Plays in Syracuse, a ‘sparkling’ performance. Thanks to lace-costumes, bright wigs and strong soundtrack, the characters were transformed into strange creatures while spectators are enveloped in a magical atmosphere. This paper tries to describe the main level of direction, with particular attention on the interactions between ancient and contemporary elements.
keywords | Theatre; Roberta Torre; Aristophanes’ Birds; Syracuse.
Per citare questo articolo / To cite this article: S. Rimini, Un lieto girotondo, un triste girotondo. Recensione a Uccelli di Aristofane per la regia di Roberta Torre (XLVIII Ciclo di Rappresentazioni classiche, Teatro greco di Siracusa), “La Rivista di Engramma” n. 98, maggio-giugno 2012, pp. 20-27 | PDF