"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

91 | luglio 2011

9788898260362

Storie che danno da pensare

Intervista a Marco Baliani

a cura di Anna Banfi

 English abstract

Il 29 giugno 2011 ha debuttato a Spoleto per il Festival dei Due Mondi il nuovo spettacolo di Marco Baliani, Terra promessa! Briganti e Migranti. Nell’anno delle celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario dell’unità nazionale, Marco Baliani e Felice Cappa hanno scelto di raccontare il processo di unificazione attraverso lo sguardo dei contadini dell’Italia meridionale che a quel progetto politico si opposero con le armi: questa forma di resistenza popolare, disperato tentativo di rivendicare i diritti dei contadini, è passata alla storia con il nome di brigantaggio. Una rivolta, quella dei briganti, destinata ad essere soffocata nel sangue, per volontà del neonato Regno d’Italia che schierò contro i contadini quasi la metà del suo esercito.

Terra promessa. Briganti e Migranti (2011) (foto di Valeria Palermo)

Nello spettacolo di Marco Baliani, la storia dei briganti diventa l’emblema di un’incomprensione, di una disfatta civile, di un’assenza di lungimiranza politica che ancora oggi grava pesantemente sulla vita del nostro Paese: un dissidio antico, quello tra nord e sud Italia, un dissidio non risolto che ha posto una seria ipoteca sul futuro di una comunità che sul nascere non ha saputo dare risposte a chi di quella comunità avrebbe voluto fare parte, ma ad altre condizioni, più giuste e più umane. Alla fine di quella che fu a tutti gli effetti una guerra civile, il numero delle vittime risultò più alto di quello di tutte le Guerre di Indipendenza messe insieme. Molti dei sopravvissuti scelsero poi di lasciare il Paese: otto milioni di contadini del nord e del sud Italia emigrarono, per non essere uccisi o per non morire di fame o di disperazione. C’è molto ‘presente’, dunque, in questa storia ‘passata’ che Marco Baliani racconterà a partire da giugno sui palcoscenici di diversi teatri italiani.

Abbiamo incontrato Marco Baliani e gli abbiamo rivolto alcune domande su questo spettacolo e sul ruolo che secondo lui dovrebbe avere oggi il teatro. E nel porgli le domande, non potevamo non partire dal tema della narrazione, perché proprio con Marco Baliani nasce in Italia il “teatro di narrazione”, un termine coniato da Renato Palazzi che così definì per primo il teatro di questo grande narratore, a cui bastano un palco e una sedia per cominciare a raccontare – per usare le parole di un altro maestro del racconto come Robert Walser – “storie che danno da pensare”.


Tracce (1996)

Anna Banfi | Nel suo saggio sulla narrazione, Walter Benjamin divide i narratori in due gruppi: al primo appartengono i narratori “nomadi”, quelli che viaggiano e raccontano storie che riguardano popoli lontani, al secondo appartengono invece i narratori “sedentari”, che raccontano le storie e le tradizioni dei propri paesi. A quale gruppo senti di appartenere?

Marco Baliani | La figura del narratore, così come la intendeva Benjamin, che già la leggeva al suo tramonto, non esiste più: questo è vero almeno per la cultura occidentale o, per meglio dire, per la declinazione economica dell’Occidente.
Oggi un narratore è un raccoglitore di esperienze: non è radicato in nessuna comunità, dal momento che le comunità dal punto di vista antropologico non esistono più. Il narratore deve essere capace di accogliere in sé la molteplicità di un mondo complesso: sedentario e insieme nomade, il narratore è un apolide, un viaggiatore incantato, che trasforma in racconto le esperienze, riuscendo a vedere e a toccare le cose al di là del manto uniforme e opaco delle comunicazioni abituali. 

AB | Benjamin scrive il suo saggio nel 1936: l’arte del narrare è al tramonto, sostiene, e la causa la trova nel fatto che “le quotazioni dell’esperienza sono crollate”: dopo la prima guerra mondiale, i soldati tornano dal fronte ammutoliti, “più poveri di esperienza comunicabile”. Questa incomunicabilità, questa impossibilità di dire diventa ancora più evidente dopo Auschwitz, quando il disagio nei confronti della realtà sembra inibire qualsiasi tipo di comunicazione – scritta e verbale. Il tuo teatro dimostra invece che è ancora possibile raccontare. Quanto è importante per te l’esperienza nel racconto?

MB | L’esperienza è tutto, è l’anima stessa del racconto e del narratore, ma bisogna essere capaci di cercare l’esperienza laddove nessuno si aspetta di trovarla. Il mondo occidentale è più povero di “mani che fanno”, e senza “il fare” le esperienze decadono. Quelle virtuali sono un altro tipo di esperienze: nel mondo virtuale non si verificano né incontri né scontri, perché la dialettica non esiste. Questo tipo di esperienze sono dunque tautologiche, superfici di esperienze che non producono dramma.
Ciò non vuol dire che non si possa raccontare, anzi: è il racconto che permette a un’azione di divenire esperibile ed è il linguaggio che la fa vivere e la rende memorabile. Non c’è bisogno di avventure magniloquenti per sentirsi degni di un’esperienza da tramandare, ma c’è bisogno di una costruzione artificiale di parole, suoni, corpo e voce per trasfigurare un accadimento in sé forse trascurabile o poco visibile.


Rem Kohlhaas (1987)

AB | Per il tuo spettacolo Kohlhaas, sei partito da un testo scritto, il libro omonimo di Kleist e da lì hai costruito il racconto teatrale. È più facile per te partire da un testo che nasce per essere letto o creare ex novo un testo destinato già nella sua gestazione alla rappresentazione e quindi a una comunicazione di tipo orale?  

MB | Non c’è una regola, vado avanti per passioni: posso incontrare un fumetto, un film, un romanzo, una scrittura diaristica, un racconto fatto da qualcuno, un evento. L’importante è che questa cosa entri in risonanza con me e che mi costringa ad occuparmene artisticamente, poi l’oralità, il teatro, il corpo, fanno il resto, trasformandola in qualcosa d’altro.

AB | Che ruolo ha l’improvvisazione nei tuoi spettacoli?

MB | Dipende dal tipo di spettacolo, se faccio regia per un gruppo o se sono da solo, dipende dai linguaggi messi in campo. Quando lavoro su spettacoli di narrazione l’improvvisazione è una meta da raggiungere, non è un fatto acquisito, non è una tecnica. Il narratore raggiunge la capacità di improvvisare quando è padrone della materia di cui tratta e quando il flusso del narrare diventa naturale: quando si verifica questa condizione, è come se accadesse una magia. Per lasciarsi andare all’improvvisazione occorre molta tecnica, ma l’improvvisazione non esaurisce mai da sola l’esplorazione del territorio del racconto.

AB | Il tuo è un teatro di narrazione, ma è anche un teatro civile: i temi che affronti nei tuoi spettacoli sono tutti declinati all’attualità. Oggi quale funzione dovrebbe avere il teatro secondo te? Può recuperare la sua funzione originaria – quella che aveva nell’Atene del V secolo a.C. – di riflessione della città sulla città? I cittadini possono trovare ancora nel teatro un luogo in cui confrontarsi e sentire così di partecipare a un rito – laico e politico – che non è avulso dalla realtà, ma parte integrante di essa? 

MB |  Non amo la definizione di teatro civile: la civiltà teatrale non è data dal contenuto più o meno impegnato di cui si tratta negli spettacoli. Ci può essere un contenuto altamente etico o politico, di memoria o di denuncia e il teatro che lo inscena è invece noioso, vecchio, reazionario nelle forme e negli assunti. Si può al contrario prendere una fiaba apparentemente lontana dalla realtà e farla divenire di sconcertante presenza contemporanea. È sempre e solo il linguaggio, l’artificio dell’arte che fa sì che uno spettacolo parli davvero alla polis, sia cioè politico. Tutto il resto non serve, neanche le buone intenzioni.


La pelle (2008)

AB | Ci racconti qualcosa del tuo nuovo spettacolo Terra promessa. Briganti e Migranti? Quali sono i cortocircuiti con l’attualità che può ingenerare questo spettacolo? 

MB | Anche sulla parola attualità ho grandi perplessità. La lascerei al giornalismo, che ha gli strumenti per informare e dibattere. Il teatro si muove in zone inquietanti, è lì che colpisce. Con questo nuovo spettacolo vado, come altre volte, a mettere il dito dove non si dovrebbe, nel bel mezzo della cosiddetta unità d’Italia, per raccontare, da più punti di vista, cosa è stato questo processo nel sud del nostro paese. Spero che sia davvero inquietante, che lasci dell’amaro in bocca. Se funzionerà, ci penseranno gli spettatori a confrontare quelle storie del passato prossimo col nostro presente. L’importante è non essere didascalici, didattici, professorali. E ancora una volta è solo attraverso l’arte del linguaggio e la sua composizione che ci si gioca la partita.


La notte delle lucciole (2007)

English abstract

An Interview with Marco Baliani, edited by Anna Banfi. Author, actor and director, Marco Baliani opened the season of  “teatro della narrazione” in Italy. On occasion of  the premiere of his new performance Terra promessa. Briganti e Migranti (Promised Land. Brigands and Migrants), we have asked him something about “civil” theatre and narration. “The story-teller is a collector of experiences – Baliani says – and he is an enchanted traveller, who changes the experiences into a tale, managing to see and touch things beyond the unvarying and veiled mantle of the usual communication”. Baliani thinks the theatre should always speak to the polis and the only author’s weapon fit for creating a “political” performance is to put the language out into service of the message he wants to communicate. This message has not to be didactic and instructive: it is the audience that should be able to ri-elaborate what it has listened in the theatre and to compare past histories with contemporary events.

keywords | Marco Baliani; Interview; “Storie che danno da pensare”; Political performance; Civil theatre; Narration theatre.

Per citare questo articolo / To cite this article: Anna Banfi (a cura di), Storie che danno da pensare. Intervista a Marco Baliani, “La Rivista di Engramma” n. 91, luglio 2011, pp. 8-13. | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2011.91.0004