“C’è una nuvola in un pezzo di carta”
Attualità del mito nel teatro di Peter Sellars
a cura di Daniela Sacco
English abstract
Abbiamo incontrato Peter Sellars lo scorso novembre al Teatro Palladium di Roma nel contesto del Romaeuropa Festival 2010. Qui il regista statunitense si trovava per la prima italiana di Kafka Fragments, la messa in scena dell’opera composta da György Kurtág per soprano e violino su una tessitura di frasi tratte dai diari, lettere e aforismi privati di Franz Kafka. I Kafka Fragmente, creati tra il 1985 e il 1986 dal compositore romeno naturalizzato ungherese, sono costituiti da quaranta frammenti, divisi in quattro parti, che musicati durano da una manciata di secondi a sette minuti; i temi a cui fanno riferimento i brani sono vari: l’amore, il sogno, il dolore, l’esilio, la musica... La sapiente regia riesce a esaltare l’accostamento ardito tra soprano e violino – gli ottimi Dawn Upshaw e Geoff Nuttal –, rendendo a tutti gli effetti voce e suono personaggi teatrali. Sellars mette la voce nei panni di una casalinga alle prese con le attività domestiche, e il suono in quelli di un musicista da strada, con l’effetto di catapultare a terra, nella brutale quotidianità, le altezze toccate dai frammenti. La scena che contorna i due è essenziale: i frammenti leggibili su schermi posti alle spalle degli artisti si alternano a un veloce susseguirsi di immagini suggestive e contestualizzanti realizzate da David Michalek.
Daniela Sacco
Ho letto alcune sue interviste in cui parla di ‘fare mitologia’, creare ‘sistemi mitologici’ in cui le ‘immagini risuonano’. Può spiegarmi esattamente cosa intende con queste espressioni? Come possiamo parlare di mitologia oggi? Che significato ha per noi oggi?
Peter Sellars
Penso che molto abbia a che fare con la prima infanzia: appena nati si è impressionabili, ci sono immagini che rimangono impresse molto fortemente. Poi, quando si è grandi, capitano delle esperienze che toccano quelle impressioni. La psicologia ci ha insegnato che queste sono le cose che ci formano, che formano la nostra sensibilità. Stiamo prendendo consapevolezza che la cosa più importante che possiamo fare è assicurarci che i bambini siano curati molto bene alla scuola materna, ossia che l’investimento più profondo dell’essere umano deve avvenire presto nella vita, in questi primissimi anni, e non più tardi. Questa prima fase è fondamentale perché al bambino possono essere dati gli strumenti per avere in mano il proprio destino. Le impressioni che si vivono in quel periodo creano una camera di risonanza e così, quando qualcosa tocca quelle prime impressioni, colpisce il centro del proprio essere e dei momenti formativi dell’essere umano: va a toccare, cioè, qualcosa che è al centro della propria identità e quel che si percepirà poi non saranno che delle semplici informazioni. Dunque, per sviluppare un tema caro a Platone, la nostra infanzia è fatta di tantissime infanzie precedenti, queste impressioni vanno indietro di tante vite e noi ci troviamo in mezzo a un’impressione che è stata creata cento vite fa. Poi, tutto d’un tratto, qualcosa tocca l’epicentro del nostro essere da una vita precedente: questa è la mitologia. È qualcosa che si conosce molto bene e che viene dai primi anni della propria esistenza.
Quindi esiste una specie di “camera di risonanza” che si è formata. La risonanza è una cosa davvero speciale, basti pensare ad esempio a quanto succede nella musica classica. Kafka Fragments, questa performance, risuona diversamente in una bellissima sala da concerti. A Londra l’abbiamo fatta in una sala del Barbican dove di solito suona la London Symphony Orchestra: la sala è fatta apposta per creare la risonanza, perché è tutta di legno, quindi quando Geoff Nuttall suona il violino la risonanza col legno crea un calore, una presenza, una risonanza speciale appunto. Qui a Roma, lo spazio del Palladium, è stato pensato per la musica rock: non c’è legno nell’architettura, e il violino è un po’ freddo e un po’ solo; le note sono “semplicemente” note. Invece la risonanza si ha quando l’ambiente risponde, e quindi un suono o un’impressione viaggia oltre se stesso perché è in un ambiente che lo riconosce, perché è in solidarietà, in un rapporto di simpatia: e l’impressione diventa più profonda, più ricca… A Los Angeles, per fare un altro esempio, c’è una meravigliosa sala da concerti disegnata da Frank O. Gehry, la “Walt Disney Concert Hall”, dove abbiamo portato Kafka Fragments. la sala è stata costruita da Yasuhisa Toyota che si è ispirato al teatro tradizionale giapponese Nō, che è interamente di legno, e sotto il palcoscenico dei teatri ci sono dei tamburi, quindi, quando gli attori lo calpestano si avverte una risonanza del suono, perché il palcoscenico stesso è un organo di risonanza. Quando c’è una percussione l’effetto è amplificato. La stessa cosa può dirsi per Epidauro. Quella dell’acustica è la questione più importante per l’estetica greca, proprio perché era basata sul suono e sulla maschera-persona, attraverso la quale si faceva arrivare il suono. Tutto è centrato sulla risonanza e per i greci era molto importante questo qualcosa che tocca il centro dell’essere, non solo la superficie. Come per la sala da concerti disegnata dal signor Toyota con i principi del teatro Nō – là dove la superficie sembra liscia ma in realtà sotto contiene questi giganteschi organi di risonanza, i risuonatori, che vibrano, che tengono il suono – così la curva degli anfiteatri greci tiene il suono: non è un’architettura di rettangoli, ma è l’architettura di un profondissimo risuonatore che tiene il suono. Questo ricettacolo è tanto importante perché tiene, ricrea, amplifica. Quindi non si tratta di portare qualcosa da “fuori” a “dentro”, ma il risuonatore è dentro ogni essere umano…
D.S.
Ciò di cui mi piacerebbe discutere con lei è la sua idea che il teatro “riveli l’invisibile”. Può dirmi cosa intende per invisibile? Che cosa viene reso visibile? C’è qualche connessione con l’espressione di Paul Klee per cui “l’arte non riproduce il visibile ma rende visibile”? Possiamo pensare all’arte teatrale in questi termini?
Peter Sellars
Molto semplicemente, l’arte sta intorno a noi ma è invisibile, non la puoi toccare: come l’amore, che è ovunque ma non lo vediamo. I maggiori sentimenti, i pensieri più importanti, i principi della vita sono tutti invisibili e il mondo visibile non ha quasi nulla a che fare con i sentimenti personali. Eppure, il mondo visibile è un miracolo: la luce sugli alberi verso la fine della giornata, ieri, qui a Roma, era incredibile, la luna piena che sale verso fine pomeriggio… Il mondo visibile è magnifico. Come dice il Corano, il mondo è anche fatto per essere letto, la bellezza non è semplicemente la luna o il tramonto o le rondini che scendono verso il fiume facendo dei disegni nel cielo, ma è anche un messaggio: si impara a leggere il cielo, la luna, il sole. Tutti questi sono anche dei testi, sono un messaggio di una creazione più immensa, di una durata di tempi più lunga di un ciclo di vita. Quindi il mondo visibile, come direbbe il Corano, è un segno che le persone possono decifrare, non l’oggetto in se stesso.
Allo stesso modo, la mia sensazione rispetto al testo musicale di Kurtág non è il punto di partenza, né il punto di arrivo: è il vascello, il viaggio, non è la destinazione. Il punto di partenza deve essere qualcosa dentro di te, quando per esempio stai avendo un’esperienza profonda e guardi il cielo, vedi tante cose diverse, e il cielo significa tutte queste cose. Il mondo visibile deve essere attivato dai tuoi sentimenti interni, dalla tua capacità di creazione, dalla tua vita interna. Quindi, anche al contrario, il mondo visibile è fatto per risvegliare le tue domande sulla vita, sul significato della vita. Ed è anche lì per ricordarti che hai un’altra giornata a disposizione, che il sole risorgerà e tu ci puoi riprovare, che questi sono tutti dei messaggi profondi e che quindi tutti i cerchi nel mondo e tutte le linee dritte sono, come diceva Platone, un’altra geometria, un altro tipo di ordine. Credo che questo sia il potere della scienza, così come credo che l’arte funzioni in parallelo alla scienza, e stia a guardare il mondo visibile cercando i suoi principi e non quello che il mondo visibile dice di se stesso. Il mondo visibile è un indicatore di realtà più vaste, oppure, è alla ricerca di disegni, motivi più specifici, o un ordine, l’ordine più profondo.
D.S.
Rispetto alla sua formazione artistica, ha fatto spesso dichiarazioni sulla precoce e importante esperienza formativa nello studio del cinema.. Potrebbe dirmi perché ha eletto il teatro a sua espressione artistica d’eccellenza rispetto a quella cinematografica?
Peter Sellars
Secondo me l’elemento più importante per il teatro è, socialmente, la condivisione di uno spazio e la domanda imponente del XX secolo è ‘come condividiamo questo pianeta?’. Possiamo condividere il pianeta con il resto del mondo? Con altre persone? La grande questione che ossessionava i Greci era di ricevere gli stranieri. Cosa condividiamo nella vita su questo pianeta? La cosa più importante non è costruire un muro fra la Palestina e Israele o fra gli Stati Uniti e il Messico, ma il contrario, chiedersi che cosa condividiamo, e la ricerca di quello che condividiamo oltre che la sua affermazione. Nel teatro tante persone si riuniscono in uno spazio che alla fine della serata non è né il “mio” spazio né il “tuo” spazio, ma uno spazio condiviso dove si ha un’esperienza condivisa, dove i confini sono dissolti. Per il cinema non è così: il film ha il proprio spazio e il pubblico, a sua volta, ha il suo; è uno spazio mentale perché lo spazio fisico non è lo stesso. Quindi per me la ragione per cui il teatro ha la priorità è proprio la condivisione. Ci sono i diritti alla terra, all’acqua; c’è la questione di come condividiamo la terra e come ne facciamo tesoro perché non è una cosa che dobbiamo dividere a parcelle e vendere, è sacra, dobbiamo riconoscere la sacralità della terra, del cibo, dell’aria, dell’acqua. Non puoi semplicemente comprare e vendere l’acqua, nell’acqua c’è qualcosa di sacro ed è di tutti: quando la Coca-Cola vorrà comprare tutta l’acqua del mondo – quello che stanno cercando davvero di fare – avremo la crisi. E quindi questo spazio condiviso fa ricordare a tutti che la terra è sacra, la luce è sacra, l’acqua è sacra nel senso che è condivisa e tutti ne hanno bisogno. Le piante, gli animali e la vita hanno una dimensione sacra e non alla maniera della religione organizzata ma nel senso del teatro, dove tutto ha una risonanza, un’aura, un insondabile, dove tocchiamo qualcosa di infinito: abbiamo una quantità d’acqua che è finibile ma abbiamo un livello di generosità infinito. Ci sono cose infinite, come amore, coraggio, generosità onestà e ci sono altre cose che sono limitate, come l’acqua o la terra: tutto sta nel capire come usare queste cose finibili, come trovare una correttezza nell’usare le cose finibili. Il teatro è un punto di incontro di questa infinitezza e di questa limitatezza sociale che è la condivisione.
Il cinema è certamente un grandissimo linguaggio, io adoro il cinema prima del cinema: penso alla pittura cinese, o al teatro cinese e indiano, al teatro d’ombre di Java, o alla pittura nelle caverne. C’è sempre stato il cinema prima del cinema: l’impulso cinematografico è molto profondo in noi, e non viene solo dal XIX o XX secolo, così il montaggio ...
D.S.
A questo proposito, vorrei proprio parlare specificatamente della tecnica del montaggio, del valore che ne dà e l’uso che ne fa, di come lo studio del montaggio nel cinema è stato formativo per la creazione del suo metodo teatrale.
Peter Sellars
Il montaggio è cruciale; ed è anche la tecnica con cui ha lavorato Sofocle. Sofocle creava sempre degli episodi che poi venivano tagliati e in cui inseriva il coro: in lui non vedi il dispiegarsi degli eventi nel tempo reale, c’è tantissimo che non mostra, anzi esclude. Sofocle presenta un momento molto specifico nel tempo, poi taglia in un altro momento e affianca questi due momenti nel tempo contigui: ciò ha un impatto emotivo straordinario, esattamente perché Sofocle lavora al montaggio di questi pezzi. Lo stesso si potrebbe dire per Aristofane, forse ancora di più. Da questi momenti distribuiti nel tempo che normalmente non vengono attaccati assieme, ma che vengono connessi grazie a questa tecnica, si ottengono dei contrasti molto intensi e molto estremi. Si crea una crisi, ma anche qualcosa di più profondo, ossia la consapevolezza che tutto è connesso. Il montaggio ci dice semplicemente che due cose qualsiasi nel mondo sono connesse: se le connettiamo attraverso una giuntura, questa interconnettività è poesia. Questa sedia non è semplicemente una sedia e questo teatro non è semplicemente questo teatro: niente è solo se stesso, tutto è se stesso in rapporto ad altro. Quindi la questione del rapporto è la ragione per cui il montaggio è così eccitante: perché aguzza, intensifica e rende più profondo questo senso del rapporto.
Quando ero all’Università la mia tesi era su Mejerchol'ded ero assorbito anche da Ejsenstejn e il cinema degli albori; ero molto attratto dal cinema muto, e mi sono specializzato in Griffith, ho studiato Hitchcock, Godard… Per ciò che concerne il cinema molto importante è il periodo che ho passato a Bruxelles dove tra i 20 e i 30 anni ho lavorato a molti progetti, e dove alla cineteca potevo vedere due film muti ogni sera, con le musiche dal vivo. Adoro l’idea del cinema con la musica dal vivo, al modo di Godard, dove hai due tracce – una video e una audio – che son diverse: quindi c’è sempre tensione fra il visivo e il sonoro. È una cosa molto soddisfacente, diversamente da quanto accade a Hollywood dove il sonoro è schiavo del visivo. Non amo avere questa modalità, in cui un elemento fa da padrone e l’altro da schiavo, preferisco un rapporto tra due adulti consenzienti che possono essere d’accordo o meno, che possono convergere o anche separarsi. Questo è eccitante del montaggio: separa il sonoro dall’immagine, dando la possibilità a tutti e due di avere un loro influsso narrativo e una loro dimensione narrativa, e di andare all’unisono producendo un’esperienza complessa.
D.S.
Sto indagando il rapporto tra mitopoiesi e montaggio. A me pare che sia il mito che il montaggio pongano la stessa relazione tra particolare e universale nel senso che entrambi tendono a rappresentare il “tipico”. Penso, a questo proposito, anche al concetto di immagine generalizzata e della pars pro toto nelle speculazioni di Ejsenstejn sul montaggio. Crede che si possa affermare questo rapporto?
Peter Sellars
Sì, e anche fra metafora e metonimia. Un esempio che mi capita spesso di fare è quello dell’immagine buddista del pezzo di carta e della nuvola; ossia l’idea che quando vedi una nuvola vedi anche un pezzo di carta o che quando vedi un pezzo di carta vedi anche una nuvola. Questo perché un pezzo di carta viene da un albero, e perché quell’albero sia diventato un foglio di carta c’è voluto un boscaiolo che ha tagliato l’albero, e deve esserci stata anche una fabbrica di carta, così come deve esserci stato anche il pranzo del boscaiolo. Doveva esserci tutto ciò perché questo diventasse un pezzo di carta. E perché l’albero esistesse nella foresta doveva esserci il sole, la pioggia, la nuvola… Per questo, quando guardi un pezzo di carta vedi una nuvola. Il buddista dice che tutto contiene tutto quello di cui non è: un pezzo di carta è fatto di elementi non di carta.
Questo è molto importante quando pensi, anche letteralmente, a Platone, per cui noi siamo già stati qua, in questo mondo, i nostri corpi si decompongono e poi ritornano, come alberi, come rocce, come piante, animali, centinaia di volte. Non è solo un’immagine poetica, è una realtà fisica, noi ci siamo decomposti in molte forme e siamo tornati in altre forme: questo è un processo fisico oltre che spirituale.
La bellezza del montaggio è che si contrappone un’esistenza precedente con un’esistenza che è ora: abbiamo a che fare, ancora di nuovo, con l’interconnettività di tutto, per cui se c’è un pezzo di carta deve esserci una nuvola. Mettere due cose una accanto all’altra, ha l’effetto di scioccare attraverso il processo lungo delle loro esistenze, cattura l’attenzione proprio perché si avverte un salto nell’ordine delle cose, e non si percorre, invece, il lungo sentiero tra loro. Il pezzo di giuntura che viene inserito diventa quel lungo sentiero: ed è lì che ci sono i secoli, che quindi passano tutti in un inserto, in un punto solo. Quindi tagli vengono fatti attraverso il tempo, attraverso lo spazio e attraverso il processo…
D.S.
È in questi tagli che si manifesta il “tipico”?
Peter Sellars
Il montaggio porta dallo specifico alla presa di coscienza che lo specifico è un’indicazione di qualcosa di più vasto, come dicono i buddisti: realtà condizionata contro realtà incondizionata. Edipo Re è una realtà condizionata: c’è quella madre, quel padre, tutto nella sua vita era basato su un certo numero di condizioni; ma d’altro canto, quello specifico gruppo di condizioni porta a una realtà incondizionata. Come esseri umani noi non sappiamo nulla di noi stessi, le specifiche condizioni di quella realtà condizionata sono un indicatore della realtà incondizionata, di una verità più grande che in qualche modo guida la verità più piccola. Quindi sei dentro a un rapporto di verità relativa, di verità condizionata, di verità provvisoria e di verità più grandi, che rimangono tali attraverso un tempo più o meno lungo e attraverso periodi della storia più lunghi e vite diverse.
D.S.
Il suo teatro è realizzato in America e si rivolge principalmente a un pubblico americano, pur essendo, naturalmente, un teatro internazionale, che si alimenta profondamente di culture diverse. Pensa che la cultura americana abbia qualcosa da insegnare a quella europea? Che intenzione comunicativa c’è nel suo teatro nei confronti della cultura europea? Ad esempio nel caso specifico di Kafka Fragments?
Peter Sellars
Sofocle, Mozart, Shakespeare scrivevano per l’America! Sono tutti americani! Scrivevano specificatamente per il mio Paese: stranamente, scrivono del Paese ‘più potente’, scrivono di potere, di come funziona il potere e l’America è, oggi, il Paese al mondo che sta vivendo proprio l’esperienza di cui scrivono loro. Soprattutto ora, ogni sbaglio sociale, catastrofico che fa l’America, l’Europa lo ripete dopo cinque anni. Vorrei poter dire che non c’è nulla da imparare dall’America, ma il fatto è che avete delle cose terribili da imparare, se è così che trattate i rifugiati, se è così che costruite prigioni, se è così che vengono condotte le guerre contro la droga… Sono cose terribili che hanno distrutto l’Europa negli ultimi venti anni, proprio perché l’Europa imita l’America, i politici europei imitano quelli americani: ci sono personaggi catastrofici come Berlusconi e Sarkozy i quali hanno imparato tutto dall’America. Sento, come americano che viene in Europa a presentare le sue opere, che sto dando agli europei un quadro che gli sarà presto molto familiare e sto cercando di allertare le persone, come se dicessi: ‘guardate che è questo che sta per arrivare’. Mi dispiace che tutto il mondo sia così influenzato dall’America in questo momento. Tutti stanno chiudendo i loro confini, stanno conducendo una guerra economica, stanno diventando egoisti e il risultato è la stagnazione economica e sociale in America e ora in Europa. E vi state tagliando fuori dal futuro, state retrocedendo a una versione fasulla del passato: questo fa male. Ora in America e in Europa si vede di nuovo apparire il fascismo: ad esempio quel che accade in Olanda è incredibile. Per me, in questo pezzo di Kurtág, c’è l’immagine del violinista zingaro: solo, per strada, non ha una casa, non avrà mai una casa. Il suono rumeno di Kurtág è il suono che l’Europa ha già cercato di distruggere ad Auschwitz e che ora Berlusconi sta cercando di annientare: questo lo percepisco già dall’America. Penso che il teatro bulgaro sia universale quando è massimamente bulgaro,
non quando cerca di imitare qualcosa d’altro: noi tutti dobbiamo parlare la nostra lingua in modo più profondo possibile, con le sue sfumature e facendo tesoro di tutto quello che ogni lingua può dare, e non semplicemente parlare un’altra lingua che nessuno parla bene. Dobbiamo tutti parlare la nostra lingua, con la sua complessità e con l’abilità di toccare quello che è più profondo, le verità intrinseche a quella cultura e poi condividerle. In Giappone le persone vedono qualcosa del mio mondo americano che riconoscono e altre cose che non riconoscono; ma credo che l’umanità abbia degli specchi dove tutti possano riflettersi: ed è molto interessante guardare allo specchio di Sofocle, a quello di Mozart o a quello di Shakespeare, e così facendo ritrovare se stessi. Quindi, per me i testi di questi grandi non sono importanti perché lo erano in uno specifico periodo storico, per specifiche persone, ma al contrario, i loro testi funzionano come specchi attraverso cui la storia e ogni generazione si ritrova, ed è questa la cosa potente.
D.S.
Non crede che l’America possa essere un riferimento per la giovinezza del suo approccio alla cultura?
Peter Sellars
L’America è stata fondata con molta consapevolezza su dei principi ateniesi, nel tentativo di capire la democrazia ateniese, e con altrettanta consapevolezza le strutture del nostro governo si sono basate sui modelli di Atene, sui testi classici. Non è a caso che in America l’ufficio postale abbia i capitelli corinzi, o la Casa Bianca un’architettura che si rifà alla classicità greca. Queste cose non sono a caso: ci siamo costruiti nell’immagine di Atene e su quella che era la promessa della democrazia ateniese. Per me i testi greci sono fondanti del mio paese, non fondanti di un qualsiasi altro paese: per me hanno un significato personale. E credo che lo abbiano avuto anche per Jefferson e Franklin che hanno anche dibattuto a lungo su questi temi, cercando di tirarne fuori un futuro, cosa che non era stata possibile nell’Atene di Pericle, che infatti è collassata. Quindi è vero che l’America è giovane, ma in rapporto all’Atene di Pericle è anche vecchia: la democrazia americana è andata avanti più a lungo che non in qualsiasi altro posto e la si è scontata con dei terribili problemi. La democrazia è molto minacciata in questo momento dall’economia, così come accade in Europa o ovunque. Euripide e Sofocle furono molto chiari su questo punto: ammonivano di non lasciare che il denaro minacciasse la democrazia, e sapevano che era esattamente questa la ragione della crisi. Quindi, guardo questi testi e vedo il mio paese nella consapevolezza di dove siamo ora, rispetto a quello che erano i principi e i miti di fondazione.
D.S.
Anche rispetto ai miti di fondazione, crede la cultura americana sveli una particolare sensibilità per il mito?
Peter Sellars
Sì perché l’America stava già creando dei miti ai suoi inizi e nel suo governarsi ha sempre usato il mito. C’è la mitologia dei Kennedy, la mitologia di Richard Nixon: tutti questi leader americani sono mitici, oltre ad essere delle vere persone, e sapevano come costruire e come usare il mito o il mitico. La cultura americana ha usato il mito sin dalle origini, perché era un paese basato su un’idea grande, non semplicemente sull’etnicità o su tutte quelle cose su cui si basano di solito i paesi: c’era un’idea nuova, che non si radicava semplicemente sulla gente che vi aveva vissuto, anzi quelle persone sono state escluse per far spazio ad altri che stavano arrivando, oltre agli schiavi. Quindi era un paese molto strano che non assomigliava a nessun altro nella storia: è diventato un paese della mente, che bisognava immaginare, con l’idea di lavorare per un progetto più grande. E questo progetto più grande era quello che voleva l’America. L’America non era un fatto, era un luogo che rappresentava certe idee, aspirazioni, successi: la gente da tutto il mondo arrivava per cercare di costruire una nuova vita, un nuovo futuro. Credo che, nella storia, non vi sia stato alcun paese con un simile tipo di spinta, che l’America prendeva proprio dalla mitologia. Arrivavano da tutte le parti dicendo “andiamo in America, lì c’è il nostro futuro”: è incredibile, generazione dopo generazione, è avvenuto così; e si è creato un futuro. È per questo che l’America ha creato il miracolo sociale ed economico a dispetto di tutti i suoi fallimenti. I suoi successi sono incredibili proprio grazie a questi ideali alti, che erano ateniesi. Abbiamo fatto questo paese, con un’immagine di sé completamente diversa; ed è per questo che mi sembra un incubo quando proprio l’America dice di no all’immigrazione, che la lingua ufficiale è l’inglese, che vuole solo bianchi e tutte queste cose “non americane”: perché tutto ciò rappresenta una violazione dei principi fondanti del paese.
D.S.
Il suo teatro è politico: ciò significa che la funzione mitica del teatro, che si rivolge a un pubblico attraverso dei significati universali, è allo stesso tempo politica?
Peter Sellars
Certamente, perché il mito muove in due modi: anzitutto dà potere, dà coraggio; il teatro mette in presenza di grandissime azioni eroiche di un’altra epoca e quindi fa pensare che se nel passato erano in grado di fare grandi cose, allo stesso modo ci si può riuscire oggi. Il teatro è qualcosa che ispira ma è anche respingente, quindi il mito dà forza ma può essere anche un monito e mettere limiti all’ambizione umana, quando è politico o è economico, nei riguardi dell’onore, del controllo, del possesso, dell’hybris. Invece la mitologia è molto fortificante quando tratta di idee alte, creative, che attraverso il tempo e lo spazio invitano ad avere un’idea più ampia dell’umanità, dell’umana possibilità. Quindi la mitologia lavora in questi due sensi: è una finestra sull’infinito e un monito dei limiti umani. Ed è qui tutto il suo potere: è illimitata, infinita, apre la mente su visioni più ampie, ma allo stesso tempo ti dice “stai attento, chi ignora il limite viene annientato”.
D.S.
Crede che l’uso della tecnologia, che si alimenta proprio dell’hybris, possa contribuire alla costruzione della mitologia?
Peter Sellars
Certo, la tecnologia è una pietra, è una matita, è anche un razzo che va su Marte: tutto è tecnologia. La tecnologia di per sé è neutra: puoi prendere una matita e puoi usarla per disegnare tua figlia o una bomba atomica, e tra le mani avrai sempre comunque una matita. Per me la mitologia esisterà sempre qualsiasi forma avremo per comunicarla o per farla circolare.
D.S.
È il modo in cui ne facciamo uso che può essere umano o disumano …
Peter Sellars
Sì, la tecnologia da sola non ha un’anima, tutto dipende dall’uso che ne fai: è quello che dà alla tecnologia il potere. Abbiamo tutti visto film meravigliosi e pessimi e stranamente la mitologia è presente in entrambi i casi. King Kong è un pessimo film, ma ha dato alle persone un mito che è rimasto potente, pericoloso, razzista e orribile. Quello che rimane è che gli uomini bianchi hanno paura dell’uomo nero; è l’immagine di un uomo nero che fa violenza su una donna bianca: ed è terribile che la paura dell’uomo nero sia derivata anche da un film, da una “scimmia” creata negli anni Trenta. Chiediamoci perché questo pezzo di spazzatura, questo kitsch, dovrebbe avere una vita così lunga. È interessante osservare come lavorano certe cose nel nostro conscio: perché, ad esempio, Harry Potter, in questi anni, sta toccando così tante persone? Perché parla all’immaginazione? Cosa ci trova la gente? Cosa c’è in Harry Potter che risuona con la realtà? È una domanda strana e affascinante: penso che la risposta stia nel desiderio nostalgico per l’autoritarismo del sistema privato collegiale, del sistema inglese all’antica, dove c’è un ordine ma, allo stesso tempo, c’è la libertà di muovere una bacchetta magica e fare accadere una magia o far sparire tutto. È uno stranissimo desiderio di questa generazione per un regime ultraconservatore dove ci sono sempre le risposte a tutto, dove tutto è rigido e ordinato e non ci sono vere domande, ma, allo stesso tempo, si può cambiare tutto quello che non piace per magia. Allora mi domando che cosa nutre il mito di Harry Potter? Questa per me è una questione interessante. Come lo è il bisogno degli uomini di essere bambini per sempre: gli attori di Harry Potter hanno quaranta anni ma si comportano come se ne avessero quattordici. Cos’è questo desiderio di voler rimanere a scuola per sempre? Sono curiosi questi fenomeni, che mostrano una cultura con delle stranissime proiezioni nelle fantasie delle persone.
Ma, per tornare alla suggestione del possibile rapporto tra tecnologia e mitologia, voglio dire che la questione della tecnologia è più profonda. La tecnologia è la nuova mitologia, in un modo molto profondo. Penso ad esempio alla rivoluzione del Chiapas, dove il comandante Marcos ha fatto una guerra che è mitologica e reale, proprio perché quella lotta è stata condotta anche attraverso l’uso di internet. Ciò significa che noi non siamo certo nelle giungle del Chiapas ma, allo stesso tempo, grazie a internet, siamo là in solidarietà. E, quando i militari messicani attaccano i Campesini in Chiapas, in tutto il mondo quell’attacco diventa parte delle nostre vite. L’idea di un popolo che lotta in un luogo molto remoto in Messico, diventa in tutto il mondo qualcosa che entra nelle coscienze, nella testa di tutti; e la rivoluzione in Chiapas diventa così un’immagine molto potente per tutto il mondo. Nel frattempo, il fatto che le persone possano entrare nel web e denunciare l’attacco dell’esercito messicano, fa sì che nel mondo intero ci sia riprovazione. Per il governo messicano si pongono una serie di scelte e di pressioni tali da non potere far nulla che vada contro l’opinione pubblica mondiale che sostiene gli agricoltori e il popolo del Chiapas. Questo è molto interessante perché si assiste assieme a una realtà e a una mitologia: così, in questo momento storico, quel luogo è sia molto remoto che molto presente, e la sua presenza implica molte cose immaginate in molte parti del mondo.
D.S.
In questo contesto si crea uno strano intreccio tra storia e mitologia…
Peter Sellars
Tra storia e mitologia c’è un gioco: la storia è quanto hai sentito dire da qualcuno, perciò è già mitologia. Provo a spiegare: pensiamo alla visione di un evento. Tu non c’eri, ma anche se ci fossi stato, avresti avuto una visione parziale: hai visto solo quanto potevi vedere, proprio perché l’evento è sempre più grande di quel che si può vedere. Quindi, tutte le volte che descriviamo qualcosa facciamo mitologia, perché noi non abbiamo una visione completa, ma abbiamo bisogno di dipendere da quanto ci viene detto da altri. Già l’atto di ascoltare, dunque, entra in questa sfera mitica.
D.S.
Per tornare al montaggio, anche in relazione a quanto appena detto: crede che abbia una funzione particolare nella costruzione narrativa e che agisca nel rapporto tra verità e finzione?
Peter Sellars
Quello che succede con il montaggio è che interrompe il flusso normale della narrativa e lima i margini della verità. Il flusso narrativo normale può procedere con quello che accade, ma il montaggio mette in questione ogni sviluppo, e lo mette sotto la lente per esaminarlo: crea così una situazione in cui guardi le cose da tante sfaccettature anziché da una sola. Le sfaccettature sono punti di vista: per questo il montaggio è un meccanismo tanto potente. Ti accorgi che la storia, la realtà, è composita e la vedi fatta da tante sfaccettature, come l’occhio di una mosca: più sfaccettature vedi, più composita diventa la tua visione del reale, e più sfaccettature ci sono, più multidimensionale è la cosa che vedi. La narrativa non è mai una singola narrativa, ossia non vi è un singolo montaggio: ma sempre sono narrative “multiple”, ovvero immagini multiple. Tutto è multiplo e dunque vi è spazio per molte narrazioni e meta-narrazioni. C’è una narrazione più grande, oltre quello che raccontiamo e ci sono tante narrazioni più piccole che non sono state incluse nella storia che viene raccontata. E quindi si è sempre consci di tutte queste narrazioni che potrebbero in un momento qualsiasi intersecarsi.
D.S.
Probabilmente la scelta dell’interruzione è sempre un atto politico…
Peter Sellars
Sì, infatti, perché a volte la narrazione principale è interrotta, e questo è un buon segno. Per questa ragione è così importante fare dei frammenti: perché tutti sanno che la narrazione principale, quella maestra, è una “bugia”. Il grande film hollywoodiano, con l’orchestra e il crescendo di musica, è una bugia totale! Tutte le volte che può essere rotto è un buon segno! L’unica cosa in cui possiamo avere fiducia sono i piccoli momenti di verità che possiamo verificare e questi frammenti sono la materia con cui lavoriamo. Possiamo ricomporre i frammenti in tanti modi: le nostre vite e le nostre società sono state frantumate, ma da queste rotture noi raccogliamo dei piccoli pezzi e iniziamo a ricomporli…
Kurtag, ad esempio, scrive Kafka Fragmente con l’esperienza di essere stato un rifugiato: ma cosa vuol dire? Che quando scappi sotto la barriera che segna il confine, hai dovuto abbandonare la tua vita precedente. E tutto quello che rimane di quella vita sono i frammenti, e da quei frammenti devi costruire una nuova esistenza, dovunque tu sia arrivato. L’idea di verità frammentaria e di vita frammentaria, di sistemi rotti ed esperienze di vita rotte, è emozionalmente molto destrutturante e allo stesso tempo stranamente liberatoria. Come nell’esperienza degli immigrati, che ricostruiscono le loro vite e poi creano nuove narrative da questi pezzi rotti. Penso che questa sia una forma speciale di narrazione, che ho apprezzato a partire da Beckett in poi: ed è la constatazione che il frammento è probabilmente in grado di rappresentare la verità, perché non pretende di essere totale, perché dice sin dall’inizio che è una comprensione parziale, e non pretende di essere l’intero. La forma del frammento, dunque, è molto soddisfacente artisticamente.
Da qui nasce l’ossessione, lungo i secoli, per le rovine greche: perché un frammento è sia “non finito” che destinato a finire ulteriormente, poiché non ce ne saranno più. Questa combinazione di qualcosa che è permanentemente incompleto è molto potente e la mitologia lo è nello stesso modo, è sempre “rotta”. Ci sono tante versioni del mito di Medea: tutti sono in disaccordo, ci si chiede se quanto successo è vero o quale mito sia veramente in atto. Tutti hanno una versione diversa, tutto è frammento: ma dal frammento ricreiamo sempre qualcosa. Stiamo tutti costruendo un mondo a partire da cose rotte – le nostre vite, le nostre emozioni, le nostre speranze incluse – eppure dobbiamo continuare: raccogliamo pezzetti e andiamo avanti…
D.S.
Quello che possiamo fare è cercare di creare delle composizioni di volta in volta diverse…
Peter Sellars
Sì, proprio così. È questo l’atto forte di perseveranza umana e determinazione. In Kafka Fragments le immagini che fanno da sfondo, proiettate di continuo, sono di persone coinvolte in progetti di recupero, in comunità per alcolisti e tossicodipendenti: persone che avevano la vita a pezzi ma che hanno iniziato a raccogliere i pezzi per ricostruirsi la vita.
D.S.
Questo sembrerebbe anche tipico dei nostri tempi…
Peter Sellars
In realtà è di tutti i tempi: anche nella Grecia antica, dove tutti arrivavano da posti strani, lontani, o da qualche mito parziale. A Epidauro il mio compagno di viaggio è stato Pausania che, viaggiando di posto in posto, incontrava popoli differenti, con racconti di storie diversi. Non è mai una questione di fatti, ma di diverse storie: osservi un rito in un popolo e lo osservi come cambia in un altro, così ritrovi lo stesso mito associato a un altro rito, con un altro significato. Secondo me è sempre stato così, una questione di pezzi rotti: anche ai tempi di Pausania era già tutto rotto, e lui aveva il compito di ricostruire, con tutte le contraddizioni, con tutte le informazioni mancanti e con tutti i frammenti che non si assemblavano, con l’obbligo di fare una scelta tra opzioni differenti. Adoro tutto questo! Lo stesso mito può essere trattato in un modo da Sofocle e in modo completamente diverso da Euripide. Ora, a Chicago, in febbraio, metterò in scena l’Eracle di Händel basandomi su Le Trachinie di Sofocle. Ma quando dici “Eracle” ti chiedi: quale Eracle? È una domanda significativa. Tra l’altro, avendo già messo in scena I figli di Eracle di Euripide, ho riscontrato una serie di problemi particolari. La morte di Eracle, ad esempio, è completamente diversa: stesso personaggio, diversa morte, diversa storia, diversa traiettoria…Ce ne sono tanti di Eracle! Da dove cominciare? Per me la questione è sempre stata questa.
English abstract
A conversation with Peter Sellars, inteviewed by Daniela Sacco. The interview “There is a cloud in a piece of paper” focused on the actuality of the myth in the theater of Peter Sellars. Daniela Sacco met Peter Sellars last November in Rome during the Romaeuropa Festival 2010. He was there for the Italian premiere of Kafka Fragments, the staging of the opera by György Kurtág. The American director talked about several topics: the idea of mythology in the present day; the concept of “resonance”; how cinema has influenced his approach to theater; the montage in the art of theater, and the importance of classical culture in the founding myths of American.
keywords | Peter Sellars; Romaeuropa Festival; Kafka Fragments; György Kurtág.
Per citare questo articolo / To cite this article: P. Sellars, D. Sacco, “C’è una nuvola in un pezzo di carta”. Attualità del mito nel teatro di Peter Sellars, La Rivista di Engramma” n. 87, gennaio/febbraio 2011, pp. 10-20. | PDF