"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Di vita si muore

Intervista a Nadia Fusini, autrice di Di vita si muore. Lo spettacolo delle passioni nel teatro di Shakespeare (Milano, Mondadori 2010)

a cura di Anna Banfi

English abstract

Nel settembre 2010 è uscito per Mondadori Di vita si muore. Lo spettacolo delle passioni nel teatro di Shakespeare di Nadia Fusini. Lettura drammatica, storica e filosofica del teatro shakespeariano, il libro penetra le pieghe più nascoste delle tragedie e ne propone un’interpretazione profonda e complessa. La materia-oggetto del libro di Nadia Fusini – le passioni di eroi come Bruto, Lear, Macbeth, Amleto e Otello, ma anche, in controcanto, di eroine come Ofelia, Cordelia e Desdemona – si specchia e trova eco nella forma-scrittura con cui l’autrice racconta l’universo shakespeariano: la materia diventa forma e la forma materia, dunque. In occasione dell’uscita del volume, abbiamo intervistato l’autrice.

Anna Banfi
Tra il primo impulso all’azione e l’atto vero e proprio, l’eroe shakespeariano vive quello che Bruto definisce “il tempo del fantasma”, un interim – tutto intellettuale – caratterizzato da dubbi e angosce. In epoca contemporanea questo intervallo sembra contratto, schiacciato fino a ridursi a un tempo inesistente. Gillo Dorfles negli anni Settanta rifletteva tra l’altro sulla “perdita dell’intervallo di silenzio tra due rumori”: l’uomo contemporaneo avvolto e sconvolto dal movimento vertiginoso delle giornate non riesce a cogliere il valore della pausa, il momento dedicato alla riflessione, all’analisi di sé come individuo e di sé come membro di una comunità. Anche se vissuto con angoscia e dolore – come nel caso di Bruto o di Amleto il tempo dell’intervallo è un tempo irrinunciabile: non va perduto, dunque, semmai dilatato. Quale valore dà Shakespeare all’intervallo, al tempo cioè dedicato all’introspezione e alla sospensione dell’azione?

Nadia Fusini
È per l’appunto Bruto a portare sulla scena del teatro questa parola alta, phantasma. Non certo una parola comune, né colloquiale. Siamo all’atto secondo, scena prima del Giulio Cesare; qui si spalanca questo ‘frammezzo’ che più tardi Amleto chiamerà ‘interim’. E siamo a quello che nel mio libro si presenta come il primo atto della storia di passione che io racconto, attraverso questo teatro. O meglio, che questo teatro racconta attraverso i suoi personaggi, così come io li accolgo nella mia lettura. In questo intervallo tra il primo impulso e l’azione siamo aggrediti non solo da dubbi, incubi, ma anche da immagini. Questo sono i fantasmi, qui: immagini di pensieri che stordiscono, come nel caso di Bruto, che sgomentano, come nel caso di Macbeth. Si apre, in altri termini, un altro mondo, si entra in  contatto con un’altra specie di realtà. Quello di cui si parla qui non è lo spazio vuoto che serve come pausa, non è la pausa di silenzio. È piuttosto da pensare visivamente alla Bosch, come l’esplosione di forme d’incubo.

A.B.
Rimaniamo sul concetto di Tempo. Lei sostiene che Lear, Macbeth, Amleto e Otello sono dei soccombenti: “Condannati alla ristrettezza del tempo che ci impone il presente, senza però che il passato passi, in tal modo togliendoci il futuro”. Secondo Shakespeare, questa concezione pessimistica del tempo appartiene solo a individui eccezionali o ad ogni essere umano?

N.F.
Non è una concezione pessimistica del Tempo, quella di Shakespeare. È l’assunzione del suo senso proprio: il tempo è a scadenza, non è infinito, noi creature umane non siamo eterne, non siamo immortali. È l’esperienza del Tempo così come si incarna nella vita storica. Di questa parla il teatro di Shakespeare. Per questo è Trauerspiel.

A.B.
Secondo Samuel Beckett, Re Lear segna l’inizio di un nuovo teatro. Secondo lei, perché?

N.F.
Beckett nasce di lì, da una piega di quel testo. Lo comprese il grande Ian Kott molti anni fa in quel suo bel libro, spesso mal compreso, scritto nel 1961 a Varsavia, Shakespeare nostro contemporaneo. Per me, semplicemente, Beckett nasce di lì, da quei clown o fool shakespeariani, dalla passione del no, che in particolare abita il fool di Lear. Ma anche oggi Beckett ci serve a leggere Shakespeare; è come se avesse illuminato per noi il suo teatro, la sua parola drammatica.

A.B.
La forza dell’immaginazione guasta la mente dell’eroe. La conoscenza lo rende folle. Immaginazione e conoscenza portano dunque sempre alla sofferenza?

N.F.
Shakespeare indaga il chiasmo di una immaginazione che può essere magia bianca, creativa, e insieme magia nera, resa ai fantasmi del delitto, alla spinta mortifera, all’impulso aggressivo, distruttivo… È grazie alla grazia dell’immaginazione che si entra in rapporto di accoglienza con l’altro, ci si concede all’altro, come fa Desdemona con Otello; ma per colpa dell’immaginazione si può cadere, come Otello nelle trame di Iago.

A.B.
La bilancia è un’immagine che appare spesso nell’opera di Shakespeare: evocata in apertura di Re Lear, essa è tra protagonisti de Il Mercante di Venezia, dove il dramma è tutto giocato su pesi e contrappesi che impediscono la realizzazione di un equilibrio. In linea con questa lettura, Luca Ronconi ha realizzato nel 2009 una splendida edizione del Mercante: sulla scena un’enorme bilancia, i cui piatti non si trovano mai in equilibrio. Non è dunque possibile vivere in equilibrio o trovare un equilibrio nella vita? Qualsiasi cosa si metta sulla bilancia, i conti non tornano mai? Si è sempre in difetto o in eccesso rispetto all’esperienza?

N.F.
La bilancia è un ideale, nella realtà l’equilibrio è un miraggio. Per sbilanciamenti progressivi si potrà raggiungere un punto temporaneo di contrappesi che ci regalano per un attimo l’arresto… Ma subito dopo, il movimento insidia ogni bilanciamento. Questo è un secolo innamorato del movimento, non scopre che movimento tutto intorno. E Shakespeare anche dentro: dentro la coscienza, dentro la mente.

A.B
Nel teatro di Shakespeare vivere significa patire, e “di vita si muore”, per citare il titolo del suo libro. Matrice del teatro shakespeariano non è solo il teatro tragico di Eschilo, Sofocle e Euripide, ma anche quello di Seneca. Qual è il rapporto tra Shakespeare e lo stoicismo senecano, secondo cui invece le passioni minano il quieto vivere dell’individuo?

N.F.
Io non trovo affatto Shakespeare senechiano. Shakespeare se non rarissimamente nel Tito Andronico, ad esempio indulge a quelli che al tempo erano a ragione o torto considerati stilemi senechiani.

A.B.
Lei scrive che il teatro di Shakespeare si fa specchio, uno specchio che consente di vedere riflesso il mondo, il secolo, e aggiungi: “Solo che mentre guardiamo, la luce dello specchio si appanna, e affiorano le emozioni tragiche della pietà e del terrore, e in controluce echi cristiani brillano”. Un’immagine simile la utilizza anche Pierre Vidal-Naquet riferendosi al teatro tragico greco: “Non bisogna cercare di vedere nella tragedia ateniese uno specchio della città. Più esattamente, se proprio si vuole conservare l’immagine, bisogna sapere che si tratta di uno specchio infranto: ogni riflesso rinvia a una realtà sociale e, ad un tempo, a tutte le altre, mescolando strettamente i diversi codici: spaziali, temporali, sociali ed economici”. Condivide questa lettura che Vidal-Naquet dà del teatro greco? Si può dire che il teatro shakespeariano e quello greco hanno in comune la restituzione – seppure frammentata e frammentaria – della figura di un uomo che vive le proprie passioni nello spazio privato come in quello pubblico?

N.F.
Sì, mi sembra in stupefacente sintonia con quanto cerco di dire del teatro shakespeariano, a mio avviso grande quanto quello greco, per potenza di pensiero, per forza drammatica. Pur restando due fenomeni diversi, perché nel frattempo sono cambiate di significato categorie centrali del lessico tragico, come il concetto di colpa, di male, di coscienza.

A.B.
Nel prologo al suo libro, lei scrive che Shakespeare è uno di quegli scrittori che “amano scrivere, perché amano nascondersi”. In che modo Shakespeare scompare nella propria opera?

N.F.
Scompare proprio perché si svuota nei suoi personaggi: in questo senso Shakespeare è grande, grandissimo, precisamente perché attua nel senso più perfetto quel processo di kénosis in cui secondo me il teatro consiste. Se v’è teatro, è perché v’è metamorfosi.

A.B.
A eccezione di alcuni autori del teatro greco e latino, Shakespeare è l’unico drammaturgo a cui il settore della 'performance reception' dedica un particolare ramo di studi: questo fatto conferma senza dubbio la profonda contemporaneità dell’opera shakespeariana e dei suoi personaggi. Credo che nel mettere in scena una tragedia di Eschilo sia in primo luogo necessario conservare ed esaltare la forte politicità che sottende e pervade tutta l’opera, evitando così di tradirne senso e significato. Qual è secondo lei l’operazione auspicabile su un’opera di Shakespeare nel momento in cui si sceglie di farla rivivere sulla scena? Quali sono gli elementi da salvaguardare per evitare un tradimento di senso e significato?

N.F.
Non è semplice mettere in scena Shakespeare. Epperò in Inghilterra la Royal Shakespeare Company lo fa da anni nell’assoluto rispetto di un testo sentito come fondativo della sua cultura. Shakespeare viene letto, riletto e interpretato – perché ogni messa in scena è anche un’interpretazione – ma non violentato. C’è una specie di reverenza sacra che non lo permette. Shakespeare è insieme vicino, contemporaneo e lontano, mai attuale, semmai intempestivo. Permette così lo sguardo sull’oggi. In Italia è diverso, in prima battuta perché un’altra è la lingua, anche drammaturgica, del nostro paese. Che cosa farei io? Non sono un regista, e dunque è presuntoso da parte mia dire qualsiasi cosa. Ma rischiando l’orrore che provo per tale difetto, la presunzione, io partirei dalla lingua, dallo studio della lingua shakesperiana, dal tessuto di immagini che le parole nel testo sollevano. Shakespeare comunica attraverso le immagini. Macbeth non lo arriveremmo a conoscere, se non in quell’immagine finale dell’orso attaccato dai cani. O nell’immagine iniziale di lui che salta a cavallo e per la spinta troppo violenta scivola a terra dall’altro fianco.

A.B.
Simone Weil affiora qua e là nel suo libro quasi a descrivere una sottile filigrana che percorre tutto il testo. Perché Simone Weil?

N.F.
Perché adoro il suo pensiero, e perché nei suoi diari ho trovato spesso riferimenti a Shakespeare, apodittici commenti, che però hanno illuminato più di tanti saggi accademici la mia lettura di Shakespeare, che si è senz’altro nutrita del suo esempio.

English abstract

We met Nadia Fusini, Anglicist and Professor at SUM (Istituto italiano di scienze umane) in Florence and we interviewed her about Di vita si muore. Lo spettacolo delle passioni nel teatro di Shakespeare, published in September 2010. Nadia Fusini reviews the hero’s passions in Shakespeare’s theatre and analyzes some topoi and subjects (the idea of Time, imagination and knowledge, love and suffering…) in Shakespeare’s tragedies. Reflections about the characters in Shakespeare's theatre alternate with remarks about the possibility to perform Shakespeare's tragedies today.

keywords | Nadia Fusini, Shakespeare’s plays; passional characters.

Per citare questo articolo / To cite this article: N. Fusini, A. Banfi, Di vita si muore. Intervista a Nadia Fusini, autrice di Di vita si muore. Lo spettacolo delle passioni nel teatro di Shakespeare, Milano, Mondadori 2010, La Rivista di Engramma” n. 87, gennaio/febbraio 2011, pp. 48-51.PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2011.87.0014