“Immolare alla metamorfosi di una ennesima traduzione italiana la sfacciata metamorficità del testo latino”
Un’intervista a Vittorio Sermonti
a cura di Silvia De Laude
English abstract
L’editore Rizzoli ha pubblicato quest’anno una traduzione delle Metamorfosi di Ovidio spericolata ed elegante. Utilissima nel seguire le vicissitudini del racconto, e insieme sottile nell’auscultazione delle aritmìe, dei turbamenti, dei sussulti e degli scarti di un testo celeberrimo, che dietro alla facciata del Baedeker mitografico (il repertorio per eccellenza di storie antiche, l’enciclopedia dei miti) attinge a una misteriosa riserva emotiva, in rapporto con la vulnerabilità dell’adolescenza. (Quanti eroi trasformati in sassi, animali, stelle o fiori potrebbero ripetere l’allegretto cantabile dei due versi famosi di Rimbaud: “Oisive jeunesse, a tout asservie, / par delicatesse j’ai perdue ma vie”?). La traduzione è firmata da Vittorio Sermonti, scrittore italiano dei più interessanti e dei più difficilmente qualificabili, già autore, fra l’altro, di un racconto-commento in tre volumi della Commedia di Dante, apparso fra il 1988 e il 1993 e riedito nel 2001 completo di indici (le letture dantesche di Sermonti, alla radio, sono state un fenomeno unico in Italia, per numero e passione degli ascoltatori); una traduzione integrale in versi dell’Eneide; un libro-monstrum dedicato ai libretti delle opere verdiane (Sempreverdi, del 2007). Gli avremmo voluto chiedere mille cose, ci siamo limitati a qualcuna.
Silvia De Laude Nell’Introduzione alle tue Metamorfosi di Ovidio (inviterei a fare attenzione al frontespizio: Vittorio Sermonti, Le metamorfosi di Ovidio, come era stato per Cesare Garboli, Le poesie famigliari di Giovanni Pascoli...) anticipi la domanda con cui chiunque, credo, sarebbe tentato di aprire un’intervista su questo libro. Perché io abbia deciso di tradurre le Metamorfosi, dici, non è il punto. “Guardiamoci negli occhi, amico mio: il problema non è perché mai io abbia tradotto le Metamorfosi di Ovidio, e le abbia tradotte così”. Il problema vero è un altro, e riguarda te: “perché mai tu dovresti leggerle, queste Metamorfosi di Ovidio”.
Vittorio Sermonti Se questa domanda è perché mai uno dovrebbe leggersi oggi l’ennesima traduzione delle Metamorfosi di Ovidio, per non ripetere quello che ho scritto nell’introduzione, lo riassumerei drasticamente così: se un capolavoro come quello non cogliesse costanti della condizione umana, e quindi circostanze storiche ricorrenti, passioni radicali, perpetue esperienze psichiche e scemenze cicliche, che capolavoro sarebbe? Se invece vuoi sapere come mai io le abbia tradotte, dirò l'ovvietà che la mia traduzione, come qualsiasi effetto, ha una miriade di cause. Posso spillarne un paio: perché frequentando per circa trent’anni la Commedia di Dante, mi sono imbattuto in Ovidio almeno una settantina di volte: ho sgranato gli occhi sulle sue favole tentando, prima di tutto, di metterle in reazione con i protocolli della teodicea scolastica e della mistica parigina, e con il prodigioso realismo fantastico di Dante; ho frequentato assiduamente diversi suoi personaggi; e quando mi son trovato a tradurre en passant qualche esametro, una similitudine, un sintagma, un frammento d’immagine, ho provato un grandissimo, strano, piacere. D’altro canto (altra concausa), come tutte le folli idee che mi sono passate per la testa negli ultimi trent’anni, anche l’idea di tradurre Ovidio è nata in quella di Ludovica [Ripa di Meana], che al pregio inoppugnabile di essere un poeta vero e un formidabile lettore, aggiunge la discutibile benemerenza di avermi sposato; chiusa l’Eneide e doppiati gli ottanta, mi sono attenuto alla sua ennesima ingiunzione: “Che fai? non traduci le Metamorfosi?”. “No, no, le traduco”. Le ho tradotte.
S. D.L. C’è di tutto, nei quindici libri delle Metamorfosi: un ingorgo di alberificazioni, stellificazioni, uccellizzazioni, pietrificazioni; una trentina di stupri riusciti, e quasi altrettanti mancati; cambiamenti di sesso (vari); qualche incesto; e come scrivi nell’Introduzione quasi una ventina di fiumi innamorati. Eppure sarebbe riduttivo vedere nel librone di Ovidio solo un repertorio di temi e di storie.
V. S. Ci mancherebbe altro! Certo, che sarebbe riduttivo ridurre i quindici libri delle Metamorfosi a quindici sommari. Basterebbe la sintassi narrativa che giunta con mirabile arbitrio una storia all’altra, e fa di una collana di favole una incredibile metafavola. Modulazioni e scarti di registro rendono emozionante qualsiasi passaggio del racconto: sei indotto a ridacchiare di eroi ed eroine discutibilissimi, di dèi bugiardi ed erotomani sorpresi quando e dove non vorrebbero esser sorpresi (un vero gossip mitologico), e d’improvviso ti si spalanca davanti il baratro della tragedia scavato da questa o quella ferocia, da questa o quella perversione, e su dal baratro sale un rantolo leggero che si dilata nel languore di un pathos sconfinato, per tornare bruscamente sul ridicolo di dèi in canottiera. E non sto a parlare delle dettagliate mostruosità di natura, dei minuziosi orrori anatomici, delle strepitose tempeste; e tanto meno della chiave psicologica nella quale il poeta racconta cantando come non siamo chi siamo se non siamo anche qualcun altro, qualche altra cosa; come, in costanza d’identità, non facciamo che diventare quello che saremo o, se vuoi, quello che già siamo senza saperlo.
S. D.L. Sulla copertina delle tue Metamorfosi hai voluto la Testa con orecchino di Michelangelo degli Uffizi (nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe), ma in una rielaborazione grafica di Enzo Ragazzini. Lo avete fatto diventare un Narciso...
V. S. Esattamente. Avrai anche notato come alla Testa con orecchino (il bellissimo Tommaso de’ Cavalieri, a quanto sembra) sia stato tolto l’orecchino, che avrebbe dovuto pendere in orizzontale. La scelta, contestatissima dall’ufficio grafico della Rizzoli, significa che la bellezza che gremisce le Metamorfosi non è un modello neoclassico o parascolastico, è terribile, inespugnabile, ininterrottamente ci seduce e ci abbandona, ieri come oggi, oggi come ieri.
S. D.L. È la più bella delle Metamorfosi, quella del ragazzo Narciso in un fiore, o solo quella che ha colpito di più i suoi lettori, fin dal Medioevo?
V. S. Se sia la più bella, non lo so. Certo, il fatto che goda di questa ammirazione bimillenaria qualcosa significherà. Per quel che mi riguarda, il fatto che la favola di Narciso canti la labilità, la vulnerabilità dell’identità propria dell’adolescente che affaccia sul mondo e sul tempo uno sguardo intercettato da uno specchio (da una miriade di specchi) continua a turbarmi. E poi chi, pur senza essere precisamente un fiore, non conserva per tutta la vita un grano (o molto più di un grano) del narciso che era?
S. D.L. Tu hai tradotto moltissimo, già da ragazzo, ma in questi ultimi anni (anzi decenni) ti sei specializzato in imprese titaniche. Hai letto, commentato e raccontato le tre cantiche della Commedia dantesca, con la supervisione di Gianfranco Contini e poi di Cesare Segre. Hai tradotto l’Eneide e ora, magnificamente, le Metamorfosi. Cosa c’è stato, di diverso, nel tradurre Ovidio?
V. S. C’è stato un piacere sfrenato, ai limiti dell’indecenza. Assecondare il ritmo dell’esametro di Ovidio, irrequieto, prezioso, spesso lieve fino alla frivolezza e all’ammicco, mi ha, ripeto, stregato. Il lavoro su Dante (un libero racconto critico) e quello su Virgilio (traduzione integrata da ventiquattro introduzioni informative — due per libro — di tempo in tempo arrese a qualche riflessione) non avevano la sfrontatezza di questo mio Ovidio, la cui traduzione include “tutto quello che mi è parso di sapere” delle Metamorfosi. Ben perciò ho deciso di integrarla con puri sommari — uno per libro — a segnalare diligentemente la follia dell’ordito narrativo.
S. D.L. C’è un aspetto importante del tuo lavoro, che non vorrei lasciare in secondo piano. Hai inventato, credo, un ‘genere’. Adesso stai leggendo a Fahrenheit (su Radio 3) il tuo Ovidio (>ascolta podcast). Hai fatto lo stesso con la Commedia, alla radio e poi in diverse città italiane (Ravenna, Roma, Firenze, Milano...), dove hai avuto un pubblico assolutamente straordinario, per ampiezza, fedeltà, passione. Ricordo benissimo le file a Santa Maria delle Grazie, e chi non era riuscito a entrare nella chiesa che ti ascoltava da uno schermo sul sagrato. Il ‘cappello’ o racconto critico che precede il canto (di Dante, di Virgilio o di Ovidio) consente l’esperienza liberatoria e entusiasmante di ascoltare e capire. O, con i tuoi libri, leggere e capire, senza il battiscopa delle note a pie’ di pagina, e il continuo spezzettamento della lettura – l’occhio che va su e giù sulla pagina, e la grana del testo di Dante, di Virgilio o di Ovidio che si perde in questo andirivieni. Insomma, per farla breve, io non ero mai riuscita a leggere in totale libertà e direi felicità un Libro di Ovidio. Con il tuo libro sì. Lo stesso vale per chi ascolta le tue letture alla radio, dove la voce introduce un elemento in più...
V. S. Sì, credo tu abbia ragione (incasso gli apprezzamenti e ringrazio). Da parte mia non posso che ripetere — se uno non si ripete alla mia età, dico io, che aspetta a ripetersi? — che il lavoro che mi appassiona praticamente fin da bambino (in quinta ginnasio ho tradotto in versi il primo atto del Wilhelm Tell di Schiller!) è non tanto il travaso da lingua a lingua, quanto quello da voce a voce: il che comporta scovare l’energia vocale latente nel linguaggio letterario italiano. Anche le Metamorfosi le ho tradotte per renderle leggibili ad alta voce; le ho tradotte insomma in un italiano che producesse suono, senza accondiscendere al birignao più o meno marcato dei teatranti, o ad una qualche prosodia vernacolare. D’altra parte, in un tempo in cui diversi linguisti ipercorretti fanno sapere che, soffocato fra l’inglese (lingua della comunicazione globale) e i dialetti (lingue dell’espressività etnica), l’italiano (lingua delle prefetture) ha i giorni contati, sono francamente fiero di adoperarmi a rendere dignità acustica alla scrittura di questa nostra lingua precaria, spuria, vecchia, inaspettata e stupenda, adoperandola nel confronto con lingue di più conclamata teatralità, o, se vuoi, lasciandomi adoperare da lei.
S. D.L. Un tuo libro di qualche anno fa, Il vizio di leggere (Rizzoli, Milano 2009), è un campionario di pagine degli autori che hai più amato. Un personalissimo canone redatto da chi “non ha mai smesso di coltivare la perversa inclinazione a perdersi tra le pagine dei libri”. Ci sono Saffo, Faulkner, Kavafis, Mozart, Ernst Robert Curtius. Anche (e io ne sono felicissima) Umberto Pasti, e naturalmente Ovidio, di cui hai scelto un brano delle Metamorfosi su Fetonte – “bello, inetto e fanfarone”, che perde il controllo del carro del Sole (suo padre) e colpito da un fulmine fulminato da Giove precipita nelle acque del Po bruciando ettari di bosco. Nel Vizio di leggere hai adottato “una buona traduzione in prosa, che non fa nemmeno finta di essere in versi liberi”. Come mai?
V. S. Una precisazione: il mio Vizio, oltre ai grandi o comunque prediletti che tu ricordi, include anche scemenze messe per iscritto e che masochisticamente non riesco a impedirmi di leggere (graffiti spray, norme di sicurezza di un albergo di Chicago, contratti bancari, etichette di alcolici...). Quanto alla traduzione ovidiana scelta per il Vizio, faccio presto a rispondere che, fra quante ne avevo per le mani, quella di Bernardini Marzolla mi pareva la più precisa e leale, e che io le Metamorfosi non le avevo ancora tradotte (credo proprio che mi sarei scelto); per modo che “la traduzione in prosa, che non fa nemmeno finta di essere in versi liberi” non potevo confrontarla con la mia, che invece “fa finta”. Lasciami dire che schiacciando il naso sugli esametri di Ovidio mi sono convinto che, intrecciandosi con una laboriosa ipotassi, insieme sontuosa e colloquiale, la cadenza delle sei arsi concorre inappellabilmente a definire il delicatissimo, inafferrabile tessuto musicale di suoni, immagini e pensieri che fonda la “musica del senso” delle Metamorfosi. Oltre tutto, coordinare il ritmo allegretto con brio dell’esametro ovidiano con la fluidità della sintassi discorsiva dell’italiano che parliamo noi, è stato un piacere impagabile.
S. D.L. Perché, poi, Fetonte? I versi di Ovidio su Fetonte avevano colpito Dante, certo, ma nel libro del 2009 mi sembra che tu avanzi una “critica della ragione metamorfica” molto interessante. Il ragazzo è morto, i genitori, le sue sorelle (le Elìadi) e suo cugino (Cicno) aspirano in risposta alla sua morte a una inconsolabilità perpetua. Non si intravede all’orizzonte nessuna elaborazione del lutto. Il poeta allora li soccorre ,“destinandoli a convivere per sempre, in eleganti gramaglie naturali, con la sensualità del dolore”. Fra gli dèi antichi chi perdeva figli o fratelli si abbandonava alla fiacchissima pulsione di morire anche lui (un desiderio assurdo, oltretutto: essendo essi immortali). La metamorfosi, insomma, sarebbe un escamotage della metamorfosi: “visto che morire non puoi, vuol dire che almeno diventerai qualcosa d'altro: una specie animale, una famiglia di piante, una costellazione”. Mi sembra un’idea fantastica.
V. S. Penso tu abbia capito perfettamente che cosa penso, e ti ringrazio noch mal.
S. D.L. C’è sempre, secondo te, quest’ombra di lutto, quando si parla di metamorfosi?
V. S. Credo di sì. Quella raffica di favole sulla ininterrotta, travolgente discontinuità della storia del mondo e delle nostre singole esistenze in costanza d’identità ci investe personalmente non solo e non tanto perché ognuno di noi sa di trascorrere dalla logica radente della veglia al profondo nonsenso del sogno aliusque et idem, ma anche (e confesso che questo è l’aspetto che mi emoziona di più) perché sottraendosi al “tu” quotidiano, i morti trascorrono in una “lei”, in un “lui” definitivo, per sopravvivere, insostituibili, nel corpo vivo della memoria dei superstiti.
S. D.L. Ci potresti dare una tipologia delle metamorfosi raccontate da Ovidio?
V. S. Questo poi no.
S. D.L. Anche la traduzione si può considerare una specie di metamorfosi subìta dal testo?
V. S. Questo poi sì. Il testo che Ovidio ha scritto duemila anni fa, io lo sto leggendo oggi, duemila anni dopo, e duemila anni dopo ti sto inducendo a leggerlo. Prestando orecchio ai favolosi soprassalti e alle scostumate eleganze di questo latino stupefacente, constatavo come inevitabilmente lo stessi immolando alla metamorfosi di una ennesima traduzione italiana.
S. D.L. Tu hai cominciato a tradurre insieme a Cesare Garboli. Ci racconti com’era lavorare con lui, e magari in che cosa era diverso il suo modo di affrontare i testi (se era diverso)?
V. S. Cesare ed io abbiamo tradotto qualcosa insieme una sola volta. Era, ricordo, l’Amphitryon di Molière. Sulla resa dell’assortimento metrico poco meno che plautino, ricordo, marciavamo in ottimo accordo. Meno sulla resa testuale. Finì che traducemmo un tanto a testa, limitandoci ad apporavare o emendare lievemente la traduzione dell’altro. Fortuna che attenuavamo gli attriti ridendo freneticamente nell’immaginare la scena di De Gaulle in sottoveste che dichiarava il suo amore al generale Massu. D’altra parte le interpretazioni di Molière esperite nei decenni da Cesare mi son parse estremamente interessanti; le sue traduzioni, meno. Per dirla tutta, ho sempre preferito le mie. Poi ho letto il suo Amleto, e mi è sembrato uno strano capolavoro. La verità è che Cesare non era un anglista, ma era abitato da un grano di genio.
S. D.L. Prima delle Metamorfosi di Ovidio hai tradotto l’Eneide. Il caso di Palinuro, com’è raccontato nel canto V dell’Eneide, è assolutamente anti-ovidiano, vero? Ingannato dal Sonno, Palinuro fa naufragio, resta in mare per tre giorni invocando i compagni, arriva finalmente in Italia e lì viene ucciso dagli abitanti. Non trova sepoltura, e quando lo incontra nell’Ade, nel VI, supplica Enea di occuparsi dei suoi resti. Il suo nome sarà dato allo scoglio dov’è morto – ma il nome: non si cerca neanche di farci credere che Palinuro sia diventato lo scoglio. Infatti il lutto per la morte di Palinuro in qualche modo ‘inelaborabile’ (e si vede bene nel Recitativo di Palinuro di Ungaretti). Cos’avrebbe fatto, Ovidio, del timoniere Palinuro?
V. S. Questo non lo so. Secondo me lo avrebbe cambiato nello scoglio che porta il suo nome.
S. D.L. Il volume Rizzoli delle tue Metamorfosi di Ovidio non ha illustrazioni. Cosa avresti scelto, se ti avessero chiesto di indicare delle immagini con cui illustrarlo?
V. S. Ringrazio il cielo che non me lo abbiano chiesto. A me e a chi ha lavorato con me per Ovidio (Ludovica, Enzo Ragazzini) bastava e avanzava l’immagine di copertina, ottenuta con una tecnica raffinatamente elementare (la riproduzione di Michelangelo è stata fotografata da Enzo realmente immersa a fior d’acqua in un laghetto). Per Piero di Cosimo, Guido Reni o Poussin nutro la massima stima come pittori: non come illustratori. Il flusso delle immagini mentali che i versi di Ovidio sprigionano non mi sembra si lasci profittevolmente candire in figure immobili, e nemmeno in una foto con l’I-phone, per classicheggiante che sia.
English abstract
Rizzoli publishing house issued this year a new translation of Ovid’s Metamorphoses both polished and daring in respect to the original Latin text. Valuable recounting of the vicissitudes of Ovidian tales, this new version is together a subtle auscultation of the manifold rhythms and veers of this celebrated text, that behind the façade of a mythographic Baedeker draws on unfathomable emotional reserves, connected with the vulnerability of adolescence. The translation is signed by Vittorio Sermonti, Italian writer of the most interesting and most difficult to qualify, already the author, among other things, of a commented edition in three volumes of Dante’s Commedia, published between 1988 and 1993 and republished in 2001 complete with indexes (the readings of Dante by Sermonti, on the radio, have been a unique phenomenon in Italy, for number and passion of the listeners); a full translation in verses of the Aeneid; a book dedicated to the librettos of Verdi's opera (2007). In this interview with Silvia De Laude the author speaks about his approach to the Ovidian text.
keywords | Ovid; Metamorphoses; Latin; Rizzoli; Dante; Vittorio Sermonti; Book presentation.
Per citare questo articolo / To cite this article: S. De Laude (a cura di), "Immolare alla metamorfosi di una ennesima traduzione italiana la sfacciata metamorficità del testo latino”. Un'intervista a Vittorio Sermonti, “La Rivista di Engramma” n. 120, ottobre 2014, pp. 100-107 | PDF di questo articolo