Il canestro di Ione, la κίστη di Erittonio: mitografia, drammaturgia e iconografia di un oggetto
Fabio Lo Piparo
English abstract
Nello Ione di Euripide un insieme di elementi di attrezzeria – una cesta rotonda munita di coperchio, un tessuto confezionato a guisa di egida, dei monili d’oro a forma di serpente e una ghirlanda di fronde d’ulivo – svolge un ruolo fondamentale nella meccanica drammaturgica e nell’allestimento [cfr. Huys 1995, 212-225; Taplin 20032, 72; Mueller 2010]. Abbandonati dalla regina Creusa insieme al proprio figlio, esposto alla nascita perché frutto segreto della violenza subìta dalla donna da parte di Apollo, tali oggetti, a più riprese evocati e soltanto nell’esodo concretamente esibiti, rappresentano il mezzo tangibile per la risoluzione dell’intreccio drammatico: sul loro riconoscimento, infatti, si fonderanno l’agnizione e il ricongiungimento tra il protagonista e sua madre, la fuoriuscita dall’anonimato del giovane inserviente presso il santuario di Delfi e la sua investitura dinastica come futuro monarca di Atene.
Informazione esplicitata a più riprese nel testo e da tempo acquisita dalla critica, questi accessori scenici si configurano come la replica dell’apparato di attributi propri di Erittonio, terrigeno progenitore di Creusa e antenato di Ione, a rimarcare la sua appartenenza alla stirpe reale ateniese [cfr. Calame 2009, 280; Mastronarde 2010, 254]. Ulteriore tratto rilevante, al recupero mediato dei simboli araldici del γένος si accompagna nello Ione l’insistenza sulla materialità di tali oggetti, espressa mediante l’icasticità visuale ed ecfrastica dei passaggi testuali dedicati alla descrizione degli stessi. Le risorse di lingua e stile e le strategie di enunciazione euripidee, significativamente in linea con i temi più produttivi nella semantica della drammaturgia, consegnano infatti precise indicazioni circa fattura, tipologia e funzione, consentendo agli spettatori di ‘visualizzare’ gli oggetti ben prima della loro ostensione sulla scena: ciò con il plausibile scopo di anticipare e prevedere il processo di riconoscimento occorrente nell’esodo, alimentando la sospensione drammatica e dilatando la tempistica dell’attesa.
Incentrato sul ricettacolo dell’esposizione, culla del neonato e in seguito scrigno del suo corredo, il presente contributo si propone di indagare l’invenzione e la costruzione, a un tempo lessicale e materiale, del ‘canestro di Ione’, un’innovazione nel récit mitico del personaggio dalla paternità verosimilmente euripidea [cfr. Huys 1995, 67, 210, 218] impostata su un preciso oggetto mitico, la κίστη di Erittonio.
I primi rimandi a evocare il canestro, in regime scenico di absentia, ricorrono nel prologo della tragedia, entro il resoconto degli antefatti del dramma esposto da Hermes agli spettatori, destinatari esclusivi della tirata dell’interprete (le citazioni seguono il testo stabilito in Diggle 1981; le traduzioni sono opera dell’autore):
Hermes: Quando venne il tempo, Creusa partorì un figlio nel suo palazzo e lo portò nella stessa grotta dove si era unita al dio; lì lo abbandonò, quasi fosse prossimo alla morte, entro il cerchio rotondo di un cavo canestro (κοίλης ἐν ἀντίπηγος εὐτρόχωι κύκλωι), preservando un’usanza che era degli avi e del nato dalla terra, Erittonio (προγόνων νόμον σώιζουσα τοῦ τε γηγενοῦς | Εριχθονίου). […] Febo, che è mio fratello, mi chiese questo favore: «Fratello, recati presso la gente autoctona dell’illustre Atene - conosci la città della dea -, prendi dalla caverna il bambino appena nato con tutto il contenitore (αὐτῶι σὺν ἄγγει) e il corredo, portalo presso il mio oracolo di Delfi e deponilo proprio davanti all’ingresso del mio tempio». […] Per fare un piacere al mio obliquo fratello raccolsi il contenitore intrecciato (πλεκτὸν […] κύτος), lo portai qui e posi il neonato sui gradini di questo tempio, dopo aver dispiegato l’incavo attorcigliato del canestro (ἀναπτύξας κύτος | ἑλικτὸν ἀντίπηγος) perché il bambino fosse visto [Ion 15-40].
L’occorrenza in Ion 19 - κοίλης ἐν ἀντίπηγος εὐτρόχωι κύκλωι - mette a fuoco in prima sede lo spazio interno del canestro, dall’incavo “vuoto”, κοῖλος, profondo e capiente; in clausola di verso, invece, l’indicazione di un margine circolare, εὔτροχος κύκλος, probabile riferimento all’imboccatura del contenitore, la cui forma può essere considerata esemplificativa di quella, cilindrica, dell’oggetto intero. La medesima iunctura sembra parimenti rimarcare l’appartenenza a manufatti di cesteria; una lettura tecnica del rimando poetico alla ‘corsa in cerchio’ dell’orlo permetterebbe infatti di riconoscervi una modalità di procedere tipica della lavorazione artigianale dei cesti, come testimoniato nel De Victu ippocratico: “Quanti intrecciano, lo fanno procedendo in cerchio (πλοκέες ἄγοντες κύκλῳ πλέκουσιν); cominciando dall’inizio, terminano all’inizio” [1.19.2-3].
In posizione centrale trova spazio il ‘nome proprio’ del canestro di Ione, ἀντίπηξ. Vocabolo probabilmente tecnico [cfr. Bergson 1960, 19] che vede nello Ione le sue uniche attestazioni letterarie, ἀντίπηξ è stato riferito da scoliasti, lessicografi e grammatici a eterogenei elementi d’arredo mobili pertinenti alla classe dei contenitori: esso ricorre come variante sinonimica di ἀγγεῖον, κίστη [Hsch. s.v. ἀντίπηγα], κιβώτιον [Zonar. s.v. ἀντίπηξ], κιβωτός, λάρναξ, σωρός, χηλός [Eust. Commentarii ad Homeri Odysseam, 1.102.13-15]. Con la significativa eccezione di κίστη, le voci elencate definiscono manufatti differenti rispetto a quanto denominato tramite ἀντίπηξ, il cui etimo comunica la presenza di parti “tra di esse ben fissate” (ἀντί-πήγνυμι). Per questo dato la critica moderna ha proposto due interpretazioni formali, non necessariamente contrapposte: tecnico-costruttiva, la prima, riferita alla reciproca interconnessione di montanti e conduttori nella tramatura d’intreccio [cfr. Matthiae 1841, s.v. ἀντίπηξ]; di natura tipologica e strutturale, la seconda, nel caso di un canestro composito, costituito da due elementi distinti - contenitore più coperchio - tra loro corrispondenti e/o assicurati [cfr. Paley 1858, ad 19; Schömann 1871, 51; Owen 1939, ad 19; Young 1941; Brümmer 1985, 16- 22].
Nei due versi successivi, Hermes istituisce e dichiara l’esistenza di rapporti mimetici tra il canestro di Ione e il corrispondente attributo di Erittonio, il cui nome è isolato e messo in evidenza tramite enjambement in principio di Ion 21: l’ἀντίπηξ è così presentato come parte integrante di una “tradizione ancestrale”, προγόνων νόμος [Ion 20], che la regina ha avuto cura di riprodurre allestendo il corredo infantile.
A seguire, invece, il processo di definizione e ‘costruzione’ del canestro pare subire una battuta di arresto. In Ion 32 questo è denominato tramite ἄγγος, voce generica e polisemica per “contenitore”; pur comune, il sostantivo in questione potrebbe tuttavia approfondire la funzione pratica svolta dal particolare oggetto: le speculazioni paretimologiche, infatti, hanno in seguito accostato al termine il verbo ἄγω, attribuendogli il significato di ciò “entro cui qualcosa è riposto vel condotto”, Ἄγγος· […] ἐν ᾧ τι ἄγεται [Et.Gud. s.v. ἄγγος], un’interpretazione ‘parlante’ che ben rifletterebbe il gesto compiuto da Creusa di deporre il figlio all’interno di un ricettacolo adatto alla conservazione e al trasporto di beni.
Sulla stessa linea si pone il sintagma πλεκτὸν κύτος in Ion 37: insistendo sulla capienza interna del canestro, κύτος ricava la propria accezione – anch’essa generica e comune – di “recipiente” dall’originario significato di “incavo, concavità” a seguito di slittamento semantico per contiguità spaziale e sostituzione metonimica. A πλεκτὸς, “intrecciato”, è invece attribuito l’incarico di definire il margine perimetrale che ne delimita lo spazio. Quale possibile indizio circa l’efficace convergenza tra i codici verbale e visuale nella costituzione tematica e semantica dello Ione, appare a tal proposito non inopportuno rilevare l’occorrenza numericamente distintiva nel testo degli altri derivati da πλέκω, “intrecciο”, impiegati nell’accezione di “ordisco, tramo intrighi”: un’accusa mossa ai danni di Ione e Xuto, accusati di complottare ai danni della regina, e ancora rivolta contro Creusa, colpevole di aver attentato alla vita del giovane protagonista. Nonostante l’ampliamento semantico sia già lessicalizzato alla fine del quinto secolo a.C., l’insistenza su tale risorsa linguistica potrebbe non risultare casuale, in rapporto a un ‘intero’ scenico-drammaturgico nel quale un oggetto effettivamente intrecciato costituisce di fatto il fulcro e il motore dell’azione: “Coro: Il ragazzo trama una perfida astuzia (πλέκει δόλον τέχναν θ' ὁ παῖς)” [Ion 692 = canestro in absentia]; “Pedagogo: Ordiva [scil. Xuto] questi complotti (κἄπλεκεν πλοκὰς | τοιάσδ(ε))” [Ion 826-827 = canestro in absentia]; “Ione: Osservate la criminale, come ha ordito astuzia da astuzia (ἐκ τέχνης τέχνην | οἵαν ἔπλεξε)” [Ion 1279-1280 = canestro in absentia]; “Ione: Smetti di tramare intrighi (παῦσαι πλέκουσα […] πλοκάς), ti agguanterò!” [Ion 1410 = canestro in praesentia].
Un’analoga soluzione è riproposta in variatione in Ion 39-40, ultimo passaggio localizzato nel prologo, dove κύτος, proprio perché specificato da ἀντίπηγος, pare recuperare il valore etimologico e non metonimicamente connotato di “incavo” (il ventre dell’ἀντίπηξ), in sintagma con ἑλικτός, “attorcigliato, a spirale”. Questo, come πλεκτὸς e probabilmente già εὔτροχος, rimanda alla costruzione dell’accessorio scenico, riconducibile ad almeno due tecniche note in antico: l’intrecciatura incrociata, caratterizzata dal tracciato concentrico e spiraliforme dei conduttori che intersecano i montanti (un andamento riconoscibile soprattutto sulle superfici piatte - il fondo della cesta, la sommità del coperchio - ove l’armatura dei montanti è organizzata secondo disposizione radiale); ancora, l’intrecciatura a spirale, lavorazione di cui ἑλικτός descriverebbe tanto l’anima dell’ordito quanto l’avvolgimento della trama [cfr. Blümner 19122, 293-312; Bobart 1936, 1-52; Singer, Holmyard, Hall 1954, 413- 424; Forbes 1956, 172 ss.].
In aggiunta, il locus comunica la specifica modalità di apertura del canestro operata dal dio: il “cavo attorcigliato” è da questi “svolto, dispiegato” (ἀναπτύσσω), suggerendo la rimozione di un involucro a copertura del contenitore piuttosto che l’atto di far ruotare il coperchio sui suoi cardini, traduzione comunemente accettata [Cfr. Grégoire 1923, 184; Young 1941; Lee 1997, 49] sebbene lessicalmente impropria.
Anche in questo caso sembra utile segnalare il valore traslato e metaforico acquisito dalle attestazioni di ἑ(ι)λίσσω, “attorciglio, avvolgo”, e composti, riferiti dalla regina a parole su cui è necessario mantenere il riserbo e alla condizione dell’uomo, in balìa della sorte: “Creusa: Che il discorso non proceda così come lo stavo svolgendo (ἧιπερ ἡμεῖς αὐτὸν ἐξειλίσσομεν)” [Ion 397 = canestro in absentia]; “Creusa: Siamo avvinti da entrambe le parti (ἑλισσόμεσθ' ἐκεῖθεν ἐνθάδε), da sciagure e fortune insieme” [Ion 1504 = canestro in praesentia].
Muovendo al primo episodio, il canestro di Erittonio, finora richiamato in maniera indiretta, è esplicitamente menzionato nella digressione su vicende e personaggi della casata ateniese che introduce il primo dialogo tra Ione e Creusa:
Ione: Per gli dèi, davvero, come si racconta tra la gente… || Creusa: Cosa domandi, straniero, cosa vuoi sapere? || Ione: …il padre di tuo padre nacque dalla terra? || Creusa: Erittonio, certo; ma la stirpe non mi è di alcuna utilità. || Ione: E fu davvero Atena a riceverlo dalla terra? || Creusa: Tra le sue mani di vergine, non avendolo generato. || Ione: Lo consegna, poi, come si è soliti raffigurare nelle pitture (δίδωσι δ’, ὥσπερ ἐν γραφῆι νομίζεται)… || Creusa: Alle figlie di Cecrope, da queste non visto, perché lo custodiscano. || Ione: Ho sentito dire che le vergini dischiusero il contenitore della dea (ἤκουσα λῦσαι παρθένους τεῦχος θεᾶς). || Creusa: Per questo, morendo, insanguinarono le rocce della rupe [Ion 265-274].
L’impiego in Ion 273 di τεῦχος, valevole letteralmente “manufatto, fabbricato”, da cui il significato generico e comune di “contenitore”, si discosta dalla prassi in seguito attestata nelle fonti letterarie ed erudite che riportano le vicende di Erittonio bambino. La denominazione canonica del contenitore approntato da Atena, infatti, risulterà κίστη, voce assente nel vocabolario euripideo [cfr. Allen, Italie 1954]: con l’eccezione di Pausania, che riporta κιβωτός [1.18.2.2-9], κίστη ricorre dunque per il canestro di Erittonio in Callimaco [Hec. fr. 70 Hollis], Amelesagora [FGrHist 330 F1], Euforione [fr. 9 Powell], Apollodoro [Bibliotheca 3.189.1-190.1], Nonno di Panopoli [D. 27.116]. Variante sinonimica di ἀντίπηξ per Esichio e da questi riferita a un contenitore in materiale flessibile intrecciato, d’uso comune per vesti e alimenti - κίστη· ἀγγεῖον πλεκτόν, εἰς ὃ βρῶμα ἐνετίθετο καὶ ἱμάτια [Hsch. s.v. κίστη] - il referente concreto denominato da κίστη è parimenti adoperato in ambito rituale e cultuale, ad esempio quale scrigno per celare alla vista i sacra durante la celebrazione delle Arreforie ateniesi, legate al mito di Erittonio e delle Cecropidi [cfr. Burkert 1966; Krauskopf 2006]. L’originale soluzione lessicale del tragediografo, insistendo sugli aspetti artigianali di un oggetto frutto delle abilità pratiche della dea cui appartiene, potrebbe dunque suggerire già in questa sede l’identificazione traslata del canestro di Erittonio con il reale elemento di attrezzeria scenica esposto alla vista nell’esodo.
A distanza di 1297 versi dall’ultima sua menzione nel prologo della tragedia, puntuali marcatori linguistici quali deittici spaziali e verba videndi sanciscono così all’interno dell’ultimo segmento drammatico della tragedia l’inconfutabile presenza scenica del canestro:
Pizia: Vedi questo contenitore che tengo nel cavo delle mie braccia? (ὁρᾶις τόδ' ἄγγος χερὸς ὑπ' ἀγκάλαις ἐμαῖς;) || Ione: Vedo un vecchio canestro avvolto tra bende (ὁρῶ παλαιὰν ἀντίπηγ' ἐν στέμμασιν) [Ion 1337-1338].
Con una progressione dal generico ἄγγος allo specifico ἀντίπηξ, lo scambio di battute scioglie il riserbo e soddisfa le attese degli spettatori in favore dell’identità di un oggetto visivamente accertabile - e di certo non indifferente - da almeno diciassette versi, nonostante sia ‘letteralmente’ inosservato dai personaggi secondo la convenzionale dinamica del rilevare scenico-drammaturgico. L’ingresso della Pizia recante il canestro tra le braccia, infatti, è da considerarsi compiuto al più tardi in concomitanza con la prima battuta a essa attribuita, l’accorata, tempestiva esortazione a che il giovane arresti la violenza nei confronti di Creusa, occorrente in Ion 1320.
La risposta di Ione verbalizza la presenza, intorno al canestro, di un avvolgimento di “infule” o “bende”, στέμματα. In alternanza al corradicale στέφος, il termine che le denomina ricorre altrove nel testo a proposito di tangibili segni apposti alle proprietà del santuario delfico e indossati dal protagonista come sacro paramento, al fine di dichiararne l’appartenenza al dio [Ion 104, 224, 522, 1310]. Le bende, dunque, connotano il canestro come dono votivo di Apollo, parte di un regime di tesaurizzazione santuariale cui l’oggetto in questione sembra nuovamente - e pericolosamente - tendere:
Ione: Ora voglio prendere questo canestro, e portarlo come offerta al dio (καὶ νῦν λαβὼν τήνδ' ἀντίπηγ' οἴσω θεῶι | ἀνάθημ(α)), perché io non scopra nulla di ciò che non voglio. […] Febo, innalzo in voto questo [scil. canestro] nel tuo tempio (ὦ Φοῖβε, ναοῖς ἀνατίθημι τήνδε σοῖς) [Ion 1380-1384].
Segnalato da ἀνοίγνυμι, a seguito del repentino cambiamento d’intenti del protagonista prende avvio il modulo scenico dell’apertura del canestro, cui corrisponde un segmento descrittivo dalla significativa carica ecfrastica:
Ione: Devo aprire la cesta (ἀνοικτέον τάδ' ἐστὶ), devo essere coraggioso. […]. Sacre bende (ὦ στέμμαθ' ἱερά), cosa mai mi nascondete, e cosa voi legami, in mezzo ai quali è stato custodito ciò che mi è caro (σύνδεθ' οἷσι τἄμ' ἐφρουρήθη φίλα)? Ecco, guarda! L’involto del rotondo canestro (ἰδοὺ περίπτυγμ' ἀντίπηγος εὐκύκλου) non è invecchiato, come per un qualche intervento divino, e l’umidità è rimasta lontana dall’intreccio (εὐρώς τ' ἄπεστι πλεγμάτων)! Eppure è passato tanto tempo, da quando questi tesori (τοῖσδε θησαυρίσμασιν) furono conservati [Ion 1387-1394].
Se l’impiego di θησαύρισμα [Ion 1394] ribadisce la preziosità e la sacralità del canestro, le altre risorse lessicali trovano puntuale riscontro nei passaggi che evocano l’oggetto nel prologo: a richiamare la forma circolare/cilindrica del contenitore concorre l’aggettivo εὔκυκλος, “ben rotondo” [Ion 1390], di analoga composizione rispetto a εὔτροχος [Ion 19]; la presenza di una copertura è riproposta da περίπτυγμα, letteralmente “ciò che è avvolto intorno” [Ion 1390], riferito all’involucro del canestro ed etimologicamente prossimo ad ἀναπτύσσω [Ion 39]; ancora, la tipologia e la lavorazione del manufatto sono ribaditi da πλέγμα, “intreccio” [Ion 1393], corradicale di πλεκτός [Ion 37].
A un ulteriore avvolgimento sembrano riferirsi i σύνδετα, “legami” [Ion 1390] posti ad assicurare la salda tenuta del coperchio sul canestro [cfr. Paley 1858, ad 1390; Owen 1939, ad 1390]. La menzione di questi consente di specificare le operazioni sottese all’apertura del canestro, ampliando le connotazioni derivate da ἀναπτύσσω [Ion 39] e ἀνοίγνυμι [Ion 1387] e costituendo un nuovo punto di ancoraggio per l’identificazione traslata del canestro di Ione con la κίστη di Erittonio. Esemplificando, ἀνοίγνυμι (vel ἀνοίγω) diverrà il mezzo linguistico prioritario per descrivere la funesta apertura della κίστη da parte delle Cecropidi nei passi sopra citati di Amelesagora (ἀνοίγειν, ἀνοῖξαι), Apollodoro (ἀνοίγειν, ἀνοίγουσιν), Pausania (ἀνοῖξαι); ancora, l’atto di allentare e slegare i σύνδετα, forte di un suggestivo riscontro tematico già nella versione euripidea del mito di Erittonio nel primo episodio (qui l’apertura del τεῦχος è tecnicamente sintetizzata mediante λύω, “sciolgo, slaccio” [Ion 273]), risulta eloquentemente allineato alla risorsa lessicale impiegata in seguito da Euforione (ἀνελύσατο).
Ritornando sullo statuto del canestro di Ione quale plausibile ‘metafora iconica’, sintetico rispetto ai temi e ai motivi principali dell’intreccio drammatico, sembra pertinente evidenziare come l’approccio teso e titubante di Ione nei confronti dell’oggetto riecheggi il commento delle ancelle di Creusa alla monodia intonata dalla regina nel terzo episodio, vertice lirico e patetico dell’intera tragedia: “Coro: Ohimè, si schiude un grande scrigno di mali (μέγας θησαυρὸς ὡς ἀνοίγνυται | κακῶν)” [Ion 923-924 = canestro in absentia]. La metafora del Coro ‘visualizza’ il portato della scandalosa confessione dello stupro subìto dalla donna riproducendo verbatim l’assetto lessicale della successiva apertura del canestro – ἀνοίγνυται = ἀνοικτέον [Ion 1387]; θησαυρὸς = θησαυρίσμασιν [Ion 1394] – in un gioco di riverberazioni che giunge così a includere, quale ‘para-ipotesto’ narrativo, la vicenda di Erittonio e delle Cecropidi; ciò con il plausibile scopo di suscitare il medesimo tenore emotivo nello specifico frangente dell’esodo – un’operazione dall’esito incerto e potenzialmente rischioso – con un adeguato, conseguente accrescimento della carica di suspance negli spettatori.
Rimossi στέμματα e σύνδετα, l’esposizione alla vista del sottostante involucro del canestro, sottolineata dal deittico ἰδοὺ, “ecco, guarda!”, determina il completamento del meccanismo scenico-drammaturgico di riconoscimento dell’oggetto, un processo accuratamente scandito che giunge così a includere la stessa artefice e ‘prima utilizzatrice’ dell’oggetto:
Creusa: Quale apparizione insperata vedo (τί δῆτα φάσμα τῶν ἀνελπίστων ὁρῶ)? […] Vedo infatti il contenitore (ὁρῶ γὰρ ἄγγος) entro cui un tempo ti esposi, figlio mio, bimbo appena nato [Ion 1395-1399].
Verbalizzato mediante il denotativo generico e (para)etimologicamente ‘funzionale’ ἄγγος, l’ingresso ritardato ad arte dell’oggetto nel campo visivo e nell’orizzonte cognitivo della regina, da tempo in scena come supplice presso l’altare di Apollo, registra e produce lo spostamento del fulcro di rilevanza drammatica dal canestro, ormai visivamente accertato e concretamente riconosciuto, verso ciò che contiene (il corredo infantile di Ione) e ha contenuto in passato (Ione stesso). Questa evoluzione nel dispiegarsi dell’intreccio è confermata dall’ultima occorrenza riferita al manufatto, segnale d’avvio per la scena di agnizione tra Ione e Creusa per tramite del restante corredo infantile: “Ione: Questo contenitore è vuoto (κενὸν τόδ' ἄγγος) o racchiude un qualche contenuto?” [Ion 1412].
Procedendo sul versante iconografico, di seguito è presentata la ricognizione analitica degli undici esemplari ceramografici noti, dieci di produzione attica, uno di produzione apula, datati tra gli inizi del quinto e la metà del quarto secolo a.C., su cui figura la κίστη di Erittonio, possibile terreno d’indagine a riprova dell’efficacia visuale della lingua dello Ione e della stretta connessione tra i due canestri finora enucleata.
Sul documento più antico, una kylix attica a figure rosse firmata da Brygos e attribuita alla Maniera del Pittore di Castelgiorgio, datata intorno al 480 a.C, conservata a Francoforte (le rielaborazioni e le restituzioni grafiche sono opera dell’autore), un semplice quadrilatero a risparmio posto sul bordo inferiore del campo figurativo, in secondo piano rispetto a un guerriero e parzialmente sotto un’ansa, individua il contenitore da cui è fuoriuscito il grande serpente che, dispiegato sul lato opposto, dà la caccia a due Cecropidi.
L’assenza di soluzioni grafiche che riproducano i dettagli formali e materiali del canestro isola la kylix rispetto agli altri esemplari: su di essi, infatti, il contenitore è non soltanto connotato in termini tipologici e di lavorazione materiale, ma costituisce uno dei ‘luoghi’ favoriti per l’espressione delle abilità disegnative dei ceramografi.
In tal senso, la lettura sinottica di cinque documenti datati tra il 470 e il 430 a.C. permette di riconoscere un referente concreto unico per le κίσται ivi raffigurate, le cui caratteristiche risultano significativamente in linea con le informazioni rilevate nello Ione a proposito dell’ἀντίπηξ.
Su alcuni frammenti di pelike attica a figure rosse attribuiti al Gruppo dei Primi Manieristi, datati tra il 470 e il 460 a.C. e conservati a Lipsia, il composito canestro è adagiato su un rilievo roccioso. La parete del coperchio, rovesciato su un fianco, è caratterizzata da una decorazione per registri orizzontali sovrapposti; l’ornatus è impostato su una fascia centrale di riquadri a campitura piena alternati a riquadri a risparmio attraversati longitudinalmente da tratti rettilinei e ondulati, affiancata da due fregi similari al meandro semplice continuo che definisce il limite inferiore della scena figurata. Sulla scorta dei σύνδετα euripidei, inoltre, potrebbe non essere errato ricondurre al coperchio i due spessi tratti ondulati presenti sulla sinistra del frammento, interpretabili come i legacci ormai sciolti che assicuravano la chiusura del canestro. Per il ventre della κίστη, invece, sulla base delle scarse tracce conservate sui frammenti è possibile ricostruire una decorazione per bande orizzontali a risparmio, tra coppie di linee parallele distanziate da filari di piccoli punti.
La fascia a riquadri alternati costituisce un pattern caratteristico della κίστη di Erittonio su altri documenti. Replicata e organizzata su tre registri sovrapposti – una soluzione che comporta il disallineamento verticale dei riquadri in un impianto complessivo ‘a scacchiera’ – la peculiare decorazione è estesa a tutta la parete esterna del coperchio così come appare su un frammento di kylix attica a figure rosse, datato tra il 450 e il 440 a.C. e conservato a Parigi. Sulla ridotta superficie ceramica è parimenti riconoscibile la metà inferiore del canestro da cui emerge l’infante [le due sezioni sono erroneamente invertite in Brulé 1987, 127], anche in questo caso graficamente distinto dal coperchio e attraversato longitudinalmente da una serie di fitti tratti paralleli inclinati verso sinistra.
Entrambi i motivi decorativi rilevati sul frammento di Parigi ricorrono per la κίστη riprodotta su una lekythos attica a figure rosse attribuita al Pittore della Phiale, datata tra il 440 e il 430 a.C. e conservata a Basilea. La metà inferiore del contenitore da cui fuoriesce il serpente guardiano, localizzato su un piano di posa arretrato rispetto ad Atena e Aglauro, è individuabile in un fascio di tratti paralleli e inclinati verso sinistra, non pertinenti al chitone plissettato della dea. Delimitato superiormente e inferiormente, il ventre del canestro è inquadrato tra il profilo della gamba destra di Atena avvolta dall’himation e il margine inferiore del coperchio sollevato – non il canestro rovesciato [così in Schmidt 1968, 201; Kron 1976, 71; Lissarrague 1995, 92], né in caduta [così in CVA Basel, Antikenmuseum und Sammlung Ludwig 3, III.I.55; Oakley 1982, 222; Oakley 1990, 35] –campito con l’ormai consueto motivo ‘a scacchiera’ disposto su due registri.
La specifica tipologia della κίστη risulta in maniera ancor più evidente sulla pelike attica a figure rosse eponima del Pittore di Erittonio, coeva alla lekythos di Basilea e conservata a Londra. Come sui frammenti di Lipsia, il canestro con l’infante è posto su una sporgenza rocciosa; da questa fuoriescono due serpenti, e sul suo fianco si trova il profondo coperchio capovolto. Decorato esteriormente con una ghirlanda di foglie e drupe di ulivo, esso riporta sulla parete interna un reticolato con maglie a losanga – resa grafica della tramatura dell’intreccio – e offre alla vista il perimetro intero della propria imboccatura circolare, resa in profondità mediante due segmenti curvilinei congiunti in un pronunciato profilo amigdaloide. Altrettanto circolare/cilindrico, dunque, è necessario ipotizzare il canestro, un quadrilatero a risparmio, su cui il coperchio andava a sovrapporsi.
Ancora, risalgono alla fine del quinto secolo a.C. alcuni frammenti di loutrophoros attica a figure nere conservati ad Atene. Erittonio libante poggia su un elemento a campitura piena graffito con un motivo a reticolo, trattamento grafico che le riproduzioni fotografiche non consentono di accertare con sicurezza anche per l’elemento verticale, anch’esso a campitura piena, posto alle spalle del bambino. Due le possibili letture: qualora prevalgano argomenti di ‘verosimiglianza spaziale’, Erittonio poggerebbe sul coperchio della κίστη, dietro il quale un serpente, in vigile allerta, dispiegherebbe le sue spire; considerazioni sull’occorrenza statistica di analoghi schemi iconografici, invece, porterebbero a riconoscere nel quadrilatero graffito il canestro vero e proprio da cui fuoriuscirebbero il bambino e il serpente, mentre l’elemento verticale individuerebbe il coperchio poggiato su un fianco.
Definiti tecnicamente “basket-chests” [Amyx 1958, 270], i canestri cilindrici identificati su questi cinque documenti sono caratterizzati da uno “slip-on lid” [ibidem] o “Stülpdeckel” [Brümmer 1985, 16-22], un profondo coperchio non vincolato alla parte inferiore e a questa sovrapponibile (a canestro chiuso, le pareti del contenitore risultano del tutto nascoste, ricoperte da quelle del coperchio apposto). A conferma del corretto accostamento tra designans e designatus, il regime di polisemia evidenziato per il sostantivo κίστη – oggetto mitico, contenitore domestico, instrumentum rituale - trova effettiva corrispondenza in ambito iconografico: tanto in ambiente attico quanto in ambiente italiota, infatti, contenitori d’uso comune, graficamente affini al canestro di Erittonio, ricorrono effettivamente in scene ‘di genere’, d’ambientazione gineceica e nuziali [Richter 1926, 89-99; Amyx 1958, pl. 51c; Brümmer 1985, Abb. 33c-d, 35a, 36e, 37a-c].
Per tipologia e soluzioni decorative comuni, ai canestri già menzionati è possibile affiancare le κίσται/basket-chests riprodotte sui due documenti ceramografici presentati di seguito.
Sulla parete di una pyxis con coperchio attica a figure rosse, attribuita alla cerchia del Pittore di Meidias, datata tra il 420 e il 410 a.C. e conservata ad Atene, la κίστη di Erittonio, posta su un basamento tra Atena e Aglauro – schema iconografico già evidenziato sulla lekythos di Basilea – è raffigurata aperta pur in assenza del coperchio, come confermano la testa e il braccio sinistro dell’infante da essa fuoriusciti. La parete del canestro presenta una decorazione impostata su quattro registri orizzontali sovrapposti (tre di essi leggibili), su due dei quali si riconoscono un fregio a meandro semplice continuo e un motivo a zig-zag. Degna di nota appare la disposizione dei serpenti protettori, le cui spire rinserrano dall’esterno il contenitore: quasi a suggerire la trasposizione animata e ‘animale’ dei σύνδετα intorno al canestro dell’esposizione, l’immagine sembra ‘visualizzare’ il rapporto metaforico insistente nello Ione tra la coppia di serpenti posti da Atena come “guardiani” di Erittonio – φρουρὼ [Ion 22] – e l’azione di “sorvegliare” il contenuto dell’ἀντίπηξ attribuita dal protagonista all’intrico di bende e legacci – ἐφρουρήθη [Ion 1390].
Ancora, sul cratere a calice attico a figure rosse eponimo del Pittore di Cecrope, datato tra il 410 e il 400 a.C. e conservato a Eichenzell, il ricettacolo, posto ai piedi dell’ulivo sacro come centro geometrico e focale della scena di libagione tra Cecrope e Atena, presenta una complessa armatura di trama dall’andamento a spina di pesce. La decorazione plausibilmente definisce i registri inferiori (gli unici visibili) dello slip-on lid sovrapposto interamente al canestro, ancora chiuso e celato per tre quarti della propria altezza da un tessuto.
Rispetto a un repertorio sostanzialmente omogeneo, le κίσται sugli ultimi due esemplari attici a essere sottoposti a discussione si pongono invece come variazioni che ampliano la casistica di forme, temi e motivi finora presentati, suggerendo nuovi spunti esegetici.
Su una lekythos attica a figure rosse, datata intorno al 450 a.C. e conservata a Parigi, è possibile provare a riconoscere la κίστη, chiusa e in posizione verticale, nell’elemento posto su un basamento alle spalle di Atena, raffigurata nell’atto di sollevare il piccolo Erittonio: secondo tale ipotesi di lettura, la parte inferiore presenterebbe un motivo a fasce parallele risparmiate, mentre il coperchio privo di decorazioni assumerebbe forma convessa. L’esecuzione compendiaria non permette di procedere oltre con l’accertamento iconografico dell’oggetto, già interpretato come altare o canestro, parzialmente celato sulla parte sinistra da un velamen panneggiato come sul cratere di Eichenzell [Loraux 1981, 276], mentre la convessità a destra potrebbe suggerire un grande scudo rotondo.
Su una hydria attica a figure rosse attribuita al Gruppo dei Tardi Manieristi, datata intorno al 440 a.C. e conservata a Parigi, infine, l’insieme di tratti curvilinei compresi tra le volute di un altare ionico posto tra Eracle e Atena è stato riconosciuto come pertinente a una κίστη in parte già sovradipinta [cfr. CVA Paris, Musée du Louvre 9, III.I.D.40; Schmidt 1968, 206-207]; da esso fuoriescono la testa e le braccia di Erittonio, oltre a due serpenti disposti in simmetria araldica, uno dei quali affrontato dall’eroe armato di falcetto. Il reticolo parzialmente campito presente sulla specchiatura anteriore dell’altare, un pattern inusuale per un oggetto lapideo e altrove riferito alla tramatura [cfr. Brulé 1987, 77], potrebbe però suggerire una rilettura in termini unitari dell’insieme composito ‘κίστη più altare’: vi si riconoscerebbe una sorta di larnax, un contenitore a cassone - in questo caso intrecciato - posto su un basamento e inserito entro un’intelaiatura lignea cui apparterrebbero i montanti laterali, la fascia con modanatura aggettante e le spallette a volute [cfr. Richter 1926, 89-99; Brümmer 1985, 12-14].
Muovendo in ambiente italiota, è attestato un solo documento ceramografico che illustri la κίστη di Erittonio, un cratere apulo frammentario attribuito al Gruppo del Pittore della Furia Nera, datato tra il 390 e il 370 a.C. e conservato a Malibu. Qui Pandroso è seduta su un altare, del quale restano tracce di sovradipintura bianca, accanto al canestro (nuovamente) chiuso; la giovane, a braccia conserte, poggia su questo il gomito e l’avambraccio sinistri, quasi a ribadire la tenuta del coperchio. Un’ellisse individua la superfice inferiore del contenitore cilindrico, reso in profondità, mentre la parete esterna del coperchio riporta una decorazione per fasce di riquadri a campitura alternata: il motivo ‘a scacchiera’, per quanto semplificato, permane così come caratteristico anche oltre i confini cronologici e geografici dell’Attica di quinto secolo a.C.
Considerazioni sulla provenienza e sulla connotazione ‘tragica’ di quest’ultima raffigurazione [cfr. Todisco 2003, Ap28, 113, 117, 413; Taplin 2007, n. 83, 221-222] conducono la ricognizione fin qui prodotta a confrontarsi con il vasto repertorio di ceramica figurata italiota e siceliota a soggetto teatrale, in particolare con il corpus dei cosiddetti ‘vasi fliacici’, i quali sovente testimoniano l’impiego di κίσται/basket-chests in ambito comico e farsesco. La presenza sulla scena comica di tali contenitori come stage properties, peraltro, è un dato apprezzabile già a livello testuale. Anche solo esemplificando sulle commedie di Aristofane giunteci integralmente, è possibile ripercorrere in chiave teatrale la già proposta relazione polisemica tra designans e designatus: in esse κίστη ricorre a proposito di canestri contenenti cibarie [Ach. 1086, 1098; Eq. 1211, 1216] beni d’uso comune, come il corredo scrittorio [V. 529], o ancora oggetti a carattere rituale e/o cultuale, quali offerte cerimoniali [Th. 284].
In questa direzione si suggerisce, quale preliminare termine di confronto, la presentazione di due esemplari, scelti sulla base della prossimità tematica attribuita loro dalla critica rispetto alle argomentazioni finora esposte.
Il primo documento è un cratere a campana apulo attribuito al Pittore di Rainone, datato tra il 380 e il 360 a.C. e conservato a Malibu. La scena che figura su uno dei due lati ha luogo su un palcoscenico rialzato e ‘sostenuto’ da due esili pilastrini [cfr. Rebaudo 2013, 280-281] poggiati sulla fascia a meandro discontinuo che limita inferiormente il campo figurato. Quale unica indicazione scenografica, sulla sinistra una porta socchiusa.
Sul palco figurano due phlyakes anziani, in mezzo ai quali troneggia una grande κίστη. L’attore di sinistra ne sorregge il coperchio, svelando il contenuto del canestro, un bambino/homunculus itifallico a testa d’agnello – dall’aspetto di un Pan secondo F. Lissarrague [cfr. Lissarrague 1995, 97] – tenuto per mano dal phlyax dipinto sulla destra. Tanto il coperchio quanto la vasca, graficamente simile al canestro di Erittonio nella pyxis da Atene, presentano una decorazione per registri orizzontali sovrapposti, separati da doppie linee parallele. Tra le fasce si riconoscono fregi a meandro semplice (continuo sul coperchio, discontinuo sul ventre) a onda corrente (fondo a campitura piena sul coperchio, fondo risparmiato sul ventre), a zig-zag intervallato da brevi tratti verticali, a chevrons.
In forza della presenza del canestro, la scena è stata interpretata da A.D. Trendall come parodia della vicenda mitica dell’apertura della κίστη da parte delle Cecropidi [True, Hamma 1994, 129.57]: la testa d’agnello dell’’infante’ risponderebbe iconograficamente alla paraetimologia attestata in antico per il nome di Erittonio, un composto di ἔριον, “vello, bioccolo di lana” e χθών, “terra” [True, Hamma 1994, 129.57].
Discussa fin dalla sua formulazione, la critica recente tende a rivedere questa lettura iconografica, proponendo in alternativa confronti con il travestimento/metamorfosi di Dioniso in montone nel Dionisalessandro di Cratino [cfr. Taplin 1994, 23; Revermann 2006, 300 ss.; Hughes 2011, 22 ss., 150 ss.] o ancora riconoscendo nell’immagine una parodia del ringiovanimento del capro per opera delle arti magiche di Medea [cfr. Kossatz-Deissmann 2000; in merito Galasso 2013, 233-237]. Prescindendo dall’effettiva validità delle proposte, impossibile da accertare in assenza di iscrizioni che identifichino i personaggi, è notevole rilevare come tali moduli narrativi e drammaturgici siano in ogni caso accomunati al récit di Erittonio e delle Cecropidi dalla medesima parabola ‘attesa-sorpresa’ suscitata dall’apertura di un contenitore e dal disvelamento del suo contenuto: un coinvolgimento scenicamente ‘funzionante’, come rilevato nello Ione, e che il phlyax a destra, rivolto verso gli osservatori/spettatori con fare interlocutorio, sembra quasi voglia accertare.
Salvo qualche recente cautela [cfr. Green 2012, 309], vi è invece sostanziale accordo sull’esegesi della scena che figura sull’ultimo documento oggetto di analisi nel presente contributo, un cratere a campana apulo attribuito al pittore di Cotugno, datato tra il 375 e il 350 a.C. e conservato a Taranto, con ampio margine di sicurezza un adattamento parodico dello Ione euripideo [cfr. Lo Porto 1964, 16-17; Taranto 1966, 198; PhV2 44.60].
Uno dei due lati del cratere riporta un robusto palcoscenico sopraelevato su tre pilastri, anche in questo caso impostati su una fascia a meandro discontinuo. Al centro di questo s’innalza, quale unico elemento di scenografia, un esile albero di alloro, analogo a quello sul margine sinistro, a ridosso dell’ansa. La pianta stilizzata, erta fino al kymation ionico che costituisce il limite superiore della scena, divide lo spazio sul palco, popolato da quattro personaggi. La stessa è inoltre da intendersi quale plausibile attributo caratterizzante per il riconoscimento della figura assisa, sicuramente Apollo, di cui si conserva soltanto la parte inferiore del corpo per le gravi lacune che interessano il manufatto ceramico.
Al cospetto del dio, sotto una maschera femminile sovradipinta, raffigurata frontalmente e sospesa al kymation – in essa si è soliti riconoscere la Pizia [cfr. PhV2 44.60] -, un phlyax recante in offerta un ramoscello di alloro e una κίστη chiusa. La parete del coperchio è ornata da una fascia centrale a spessi chevrons irregolari – un tracciato decorativo che può essere accostato al motivo a spina di pesce del canestro di Erittonio sul cratere di Eichenzell – inquadrata tra due registri decorati con filari di punti. A destra dell’albero di alloro, invece, altri due phlyakes, verosimilmente una coppia: l’interprete in costume femminile, acefalo, porta la mano sinistra al petto, un gesto di partecipazione emotiva cui pare rispondere la mano destra sollevata del personaggio canuto al suo fianco.
Interpretata come momento di consultazione dell’oracolo delfico, la scena mostrerebbe Ione e i suoi ‘tre genitori’, due biologici (Apollo e Creusa), uno acquisito (Xuto). La presenza simultanea di Ione, Creusa e Xuto, non prevista nello stagecraft della tragedia, e ancor più quella di Apollo, divinità ‘pervasiva’ ma soltanto menzionata ed estranea alle personae agentes del dramma, rende problematico riferire l’immagine a un preciso momento dell’azione scenica dello Ione. Prescindendo dalla pur possibile derivazione da altri testi teatrali perduti, tragici – Creusa/Ione di Sofocle [cfr. Huys 1995, 67, 210, 218] – o comici – Ione/Xuto di Eubulo [cfr. Hunter 1983, 29, 128; Mastronarde 2010, 6-7] – la prossemica dei personaggi pare suggerire per l’immagine una derivazione ‘sintetica’ dall’intreccio euripideo, enucleato nei suoi momenti – e oggetti – pregnanti. A essere ‘messo in scena’ sulla superficie dipinta sembra dunque il proposito espresso da Ione, prima risoluto e poi vacillante, di dedicare l’ἀντίπηξ ad Apollo, uno degli snodi drammatici più carichi di tensione e innesco degli accadimenti conclusivi; di qui la presenza, seppur ‘a distanza’, della coppia di anziani sposi, emotivamente coinvolti e partecipi dell’azione in svolgimento poiché l’eventuale consacrazione del canestro impedirebbe loro il ricongiungimento con il protagonista.
In conclusione, i dati ricavati dai casi di studio iconografici permettono di confermare quanto desunto dall’analisi drammaturgica e dai confronti letterari e mitografici, identificando nella κίστη di Erittonio quella porzione di immaginario mitico, narrativo ed iconico da Euripide indagato nei suoi aspetti comuni, ricondotto alla sua dimensione concreta e materialmente ‘riprodotto’ sotto forma di stage property nell’ἀντίπηξ di Ione. La pur rapida lettura proposta per i basket-chests ‘in azione’ sui due vasi fliacici, inoltre, ribadisce la peculiare funzione rivestita da tali oggetti nei testi e sulla scena: in forza e a conferma dell’esempio costituito dallo Ione, è possibile dunque considerare il canestro come un ‘dispositivo’ teatrale e iconografico capace di riassumere, contenere e dispiegare alcuni tra i meccanismi compositivi ed espressivi fondamentali sottesi alle trame – rappresentate o dipinte – che lo vedono quale indispensabile comprimario.
English abstract
The contribution is focused on the exposure basket in Euripides’ Ion. It provides an analysis of the passages related to the basket, highlighting its role in both performance development and semantics of the tragedy. The explicit relationship established by Euripides between Ion’s basket and Erichthonius’ analogous attribute, togheter with the material features of the very stage property, is illustrated through the comparison with other literary sources and a corpus of Attic and Apulian vase paintings. The active role played by baskets depicted upon two phlyax vase scenes possibly related to Erichthonius’ and Ion’s tales, eventually, supports and enhances the metaphorical values of this specific object as detected in the text.
keywords | Mythology; Greek culture; Ion; Euripides; Performance; Theatre.
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Per citare questo articolo / To cite this article: F. Lo Piparo, Il canestro di Ione, la κίστη di Erittonio: mitografia, drammaturgia e iconografia di un oggetto, “La Rivista di Engramma” n. 120, ottobre 2014, pp. 53-77 | PDF di questo articolo