"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

94 | novembre 2011

9788898260393

L’isola come orizzonte e come sponda: Terraferma (Italia, 2011)

Monica Centanni

English abstract >>

Terraferma è un film inaspettatamente forte e, a tratti, felicemente violento per ambientazione, per ritmo narrativo e per il carattere delle scene che segnano i principali snodi drammaturgici. Linosa fornisce il set per l’invenzione di un’isola siciliana – tanto più straniante quanto più prossima al vero – battuta dal flagello degli sbarchi di migranti che arrivano via mare con mezzi di fortuna dalle coste nordafricane, soprattutto dalla Libia: un’isola che resta anonima ma che è dichiaratamente controfigura della vicina Lampedusa, teatro di tragedie realissime – sbarchi in terra più o meno ferma e naufraghi alla deriva, istanze di libertà e campi di concentramento: storie tanto forti che stentano a trovare un cantore. La scelta delle tinte aspre e delle linee dure e scontrose di Linosa, così vicine eppure così diverse dalla magica seduzione dei colori e dei profili paesaggistici di Lampedusa, dà già il timbro di un’opera che non concede nulla alla retorica della bellezza, e che rinuncia anche alla suggestione facile di un paesaggio naturale meraviglioso per scandagliare invece, senza paura, dentro i fondali del mare e soprattutto, senza sconti, dentro i fondali dell’anima.

Lo spettro dei diversi toni di blu che la distesa di quel mare può assumere è l’unica dimensione su cui – all’inizio, nel finale e in qualche altro raro momento del racconto – la cinepresa si concede di allungare il campo, e concede a noi spettatori di allargare lo sguardo: e quando, per brevi tratti, la prospettiva si apre, prende respiro un orizzonte spaziale e temporale che altrimenti resta – come le inquadrature, come la stessa vita nell’isola – recluso, quasi coatto. E così accade anche per il passo narrativo: nei primi fotogrammi, e per i primi minuti, si annuncia una prosodia lenta e solenne che però non si compiace poi, quasi mai, né di lentezze né di solennità, per appoggiarsi invece su un ritmo discontinuo di accelerazioni e di rallentamenti in cui i vuoti – le latenze, le pause, i silenzi – hanno un ruolo altrettanto importante dei pieni. E perciò il ritmo è, fin dalle prime immagini, incostante ma efficacemente teso, realmente stringente: quali orrori scoverà la telecamera scrutando gli anfratti di quegli abissi? Quale evento verrà a rompere l’apparente armonia di affetti e di relazioni, di volti e di gesti ancora veri, che scandisce la vita dell’isola?

La nota prevalente è l’attesa, ma è un’attesa inquietante, cattiva. Qualcosa incombe, ma l’evento atteso e paventato non sarà quell’elica rotta perché incappata nel relitto di un naufragio che sancisce la decrepitezza di ‘Santuzza’ – il vecchio peschereccio che è un vero e proprio personaggio del film; e neppure sarà l’infarto, che compromette la solidità rocciosa e intrattabile di Ernesto (Mimmo Cuticchio), il vecchio capofamiglia, custode delle leggi del mare, leggi così arcaiche e fondate che prima d’ora non hanno mai avuto bisogno di una formulazione scritta e forse neppure di un’articolazione verbale. Il peschereccio e il pescatore feriti nella loro integrità sono soltanto avvisaglie che fanno presagire un’imminente catastrofe; ma l’incalzare della minaccia è così angosciante che, come nel grande cinema e nella grande letteratura, abbiamo quasi fretta che qualcosa accada, finalmente, a sciogliere il nodo che stringe la gola. Speriamo che l’incubo imminente, realizzandosi, sciolga l’ansia, e che la paura, inverandosi, sia più affrontabile. E fin da subito è chiaro che nell’isola la paura – come del resto ogni altra cosa, bella o brutta che sia – viene dal mare.

L’isola vive intanto la sua vita che naturalmente scivolerebbe verso un modello di emancipazione sociale ed economica che sembra dover livellare tutte le differenze, levigare tutte le asperità. Ma non è solo la modernità che, da un futuro prossimo e parallelo, chiama inesorabilmente a sé ogni isola del mondo che sia in ritardo sulla tabella di marcia della formattazione mondiale sugli standard correnti; è anche l’antico – le leggi non scritte (e non dette), il dialetto chiuso e impermeabile all’aggiornamento, gli stessi tratti dei volti e dei corpi scolpiti con materiale genetico patentemente in via di estinzione – che viene a inquietare la regolare evoluzione del presente. Un nucleo del dramma sta nell’impossibilità di concertare un’armonia tra il tempo astratto e immutabile, tra i caratteri realissimi, e pure anch’essi astratti e immutabili, dell’isola, e la vita che scorre rapida incalzata da nuovi desideri – rapida in cerca di altri destini.

Rispetto alle minacce di un passato che fatica ad articolare le sue ragioni e di un futuro che si presenta come troppo scontato, in un tempo presente ormai sfilacciato in cerca di senso, pare resistere il rito – il funerale degli isolani morti in mare, la bella assemblea omerica dei vecchi dell’isola – che però presto si rivela praticato più per superstiziosa indolenza, o per rabbioso orgoglio, che per fede nella qualità del proprio tempo. La cristiana, eppure paganissima, commemorazione funebre per il pescatore scomparso in mare officiata ogni anno da tutto il paese e con in testa il vecchio padre, Ernesto, la moglie Giulietta (Donatella Finocchiaro), il figlio Filippo (Filippo Pucillo) e il fratello Nino (Beppe Fiorello) non è più congrua rispetto a una perdita che non rientra in alcun ordine soprattutto perché, di fatto, non è risarcita da nessun ricambio generazionale. L’esito nobile e fiero dell’emozionante assemblea dei vecchi marinai che cercano di formulare le leggi non scritte che da sempre vigono in mare – leggi di solidarietà e di accoglienza al naufrago in difficoltà – non ha alcuna attualità rispetto alle leggi feroci di uno stato di cui il film mette in evidenza tutta l’ottusità. Lo stato, nel volto più screditato del governo in carica in Italia alla data in cui esce il film (settembre 2011), nelle direttive legislative ma anche nelle facce dei suoi sgherri incaricati di perpetuare la banalità del male, si ricorda di questi suoi territori di frontiera solo per giocare oscenamente con le vite umane – la tenuta sociale ed economica dei cittadini italiani che vivono alle frontiere del paese, e le vite fisiche dei migranti che sognano l’accoglienza in terra italiana come un miraggio di nuovo mondo – tirando la corda dell’esasperazione, per avere in cambio qualche immagine ad effetto da mostrare nei telegiornali di regime o per contrattare, finché è stato formalmente in carica sull’altra sponda del mare, con il tiranno libico.

Nell’isola, i riti che per secoli hanno tenuto coesa la comunità non servono più né per confortare il dolore né per rinsaldare solidarietà di affetti e pulsioni ormai tutti centrifughi; ma non servono neppure per trovare formule di dicibilità del presente. Più efficace è il rito laico di liberazione individuale: il rito di ripulitura della casa dai ricordi ammuffiti come la carta da parati che Giulietta strappa con rabbia (ed è, nel film, la prima irruzione di una catartica violenza), eliminando per sempre la memoria concreta dello sposo scomparso in mare e promettendosi così una nuova vita. Efficaci, almeno per salvare qualche singolo destino fra tante derive di speranze, sono i gesti elementari dell’accoglienza che Ernesto insegna al nipote Filippo. Efficace – concretamente maieutica – è la cura tutta femminile che Giulietta non può che prestare alla clandestina che dà alla luce una nuova vita, ma insieme anche espelle l’incubo del suo recente passato. Ed efficace è anche la danza, liberatoria nella sua stolta vanità, con cui Nino fa dimenticare ai turisti in vacanza nell’isola la verità quotidiana degli sbarchi.

Crialese è capace di sorprenderci, complicando e ribaltando i luoghi comuni generici e moralisti che condannano a priori chi non è disposto a caricare sulla propria esistenza l'incapacità di uno stato che, quando c’è, sa solo mostrare il volto ostile e inumano dello sbirro o del carceriere. Se Giulietta non sa bene cosa vuole per sé, ed Ernesto conficca i suoi comportamenti nell’afasico codice deontologico del mare di cui raccoglie la tradizione, Nino costruisce il suo progetto di emancipazione sociale ed economica sullo sviluppo inevitabilmente turistico delll'isola: e sono tutti progetti di futuro tutti legittimi, comunque considerati, nell’angolatura che il regista ci propone, simpateticamente, senza cedimenti a giudizi facili e scontati.

Ma Crialese ci sorpende anche ribaltando di segno la carica energetica di un’immagine di cui credevamo di aver capito il senso, giocando con le aspettative evocate dalla locandina del film: ed ecco che quello che sembrava il disperato tuffo di naufraghi da un’imbarcazione in panne è invece nel film soltanto il fotogramma da cartolina dei gitanti allegri e spensierati che si gettano in mare per fare il bagno dal barcone del tour di Nino.

Coraggioso è poi l’azzardo di far recitare, in tre ruoli importanti, tre ‘attori’ molto particolari. Potentemente in parte – come non era affatto scontato che fosse – troviamo un Mimmo Cuticchio, il maestro dei pupi allenato sì a ‘recitare’ ma nel genere totalmente diverso del ‘cunto’, che entra senza gigioneggiamenti nei panni dell’epico ‘Ernesto’. E ancora: il regista aveva già collaudato in Respiro la bravura di Filippo Pucillo nell’interpretare se stesso, ma qui è perfetta l’ambivalenza del personaggio e del suo doppio, il suo essere una creatura dell’isola e insieme la creatura che di tutte è la più insofferente alla servitù dell’isola, ai vincoli delle sue magie, alla prigionia coatta dentro i suoi bordi stretti, quando fuori, in terraferma – ovvero nel mondo – il destino pare promettere infiniti orizzonti.

Ma il gioco più arduo – e l’azzardo più rischioso e più riuscito – è quello di far recitare una vera migrante nei panni di Sara, la clandestina soccorsa da Ernesto, da Filippo e poi, non senza una dose di sana renitenza, anche da Giulietta. Timnit T. è una vera naufraga etiope scampata al naufragio dell’agosto 2009 quando, da un barcone con settantotto superstiti, si salvarono solo in cinque, dopo aver visto morire uno ad uno gli altri compagni di sventura. Nelle cronache di quel naufragio, reso tremendo dall’odissea di 23 giorni alla deriva, uno dei sopravissuti (la stessa Timnit?) dichiarava a un giornalista: “Pregavamo Gesù e la vergine Maria, sua madre, e loro sono stati buoni con noi. Ma non con i nostri compagni. Sono morti e i loro corpi li abbiamo buttati a mare tutti, uno per uno. Cos’altro potevamo fare? ma Dio potrà mai perdonarci tutto questo?”.  Nel vedere in Terraferma Timnit T. viva e vera, come non riesce ad essere nessun altro personaggio del film, si intende che il gioco del regista è riuscito, e si conferma la segreta regola del grande teatro per cui mediante lo schermo, nel gioco di verità e finzione, l’artificio elevato al quadrato può essere matrice di grande arte e insieme rivelarsi più convincente, più vero, del vero.

Sara/Timnit, con le sue sillabate parole e soprattutto con i suoi superlativi silenzi, è protagonista di un’altra sequenza del film viva vera e violenta. Lo scenario è un garage convertito frettolosamente in tana-rifugio per gli isolani prima, profughi da sé stessi (perché la vera casa di Giulietta e Filippo è stata adibita a spartano b&b per turisti), e poi per i veri profughi. In questo rifugio avviene il parto che Timnit ha portato in grembo dal mare a cui è scampata. Ma la bambina che Timnit dà alla luce è il frutto di un’altra, insostenibile/indicibile, violenza, a cui tenterà di metter rimedio il fratellino più grande che cerca, per orgoglio e per amore di sé, della madre e del proprio futuro, di strozzare in culla la sorellina neonata, cancellando così quella che, giustamente, sente come una vergogna e come un ostacolo per il suo proprio futuro. E non è cattivo, quel bambino omicida impegnato a difendere, a prezzo di assassinio, la sua prospettiva di vita.

Così come non è certo cattivo Filippo, protagonista di un’altra scena di violenza – la più cruda e più spettacolare del film. Non è vero che siamo – tutti e sempre – pietosi e compassionevoli. L’inatteso che viene a guastare i piani – grandi o piccoli che siano – della nostra vita, deve fare i conti con i nostri sentimenti, con i nostri grandi e piccoli desideri. Mentre Filippo e Maura – la giovane turista ospite dell’improvvisato b&b di Giulietta ­– si spingono al largo in romantica gita notturna, improvvisamente dal mare nero inchiostro di una sera senza luna emergono teste grandi e nere, occhi avidi di salvezza, mani grandi e braccia nodose che si abbarbicano con la forza della disperazione al bordo della barca. Contro queste creature d’incubo che vengono a turbare il difficile idillio tra l’isolano in ansia per la sua iniziazione erotica e la disinibita ragazza milanese, Filippo, che pure ha bene imparato da Ernesto la legge buona del mare, sfuria, in preda a un impulso di rabbia inconsulta, impugna un remo e mena fendenti rabbiosi, intenzionalmente omicidi.

Ma lo stesso Filippo trova poi il modo, in un finale di ampio respiro, visivamente ed emotivamente catartico, di riscattare la sua brutalità, e di vendicare la sua scenata di isterica reazione alla delusione del suo desiderio, lanciandosi, con Timnit e i suoi piccoli, a bordo del peschereccio ‘Santuzza’ liberato dal sequestro, in una coraggiosa ed eroica avventura, verso la terraferma dove il ragazzo dell’isola e i migranti vedono, entrambi, lo spazio di realizzazione del loro sogno di libertà.

Terraferma. Il titolo del film – anche questo, uno scarto rispetto alla verità dell’isola, segnata dall’infirmitas – ci indirizza in questa direzione di senso: quando l’isola finisce di essere orizzonte diventa sponda a cui si approda, come se fosse terraferma, o da cui si parte verso la terraferma. Filippo riscatta nell’eroismo magnanimo il suo sfogo inaccettabile di egoismo per cui ha abbandonato in mare i naufraghi e così parte a cercare, lui stesso, la terraferma del suo desiderio. Ma dopo l’isola – noi sappiamo – prima di arrivare alla terraferma c’è, almeno, da far tappa in un’altra isola.

English abstract

The Island is a horizon and a bank in Terraferma (Italia 2011). The setting of the film Terraferma by Emanuele Crialese is an island floating in a beautiful, thus even more scary, sea – Linosa stands for Lampedusa, where almost daily immigrants try to land in Italy from the southern coasts of the Mediterranean Sea. The film’s drector has hired for his cast Mimmo Cuticchio, a master of puppets' theatre, and Timnit T., a woman shipwrecked in Lampedusa in 2009. Through this peculiar cast, he tells us the story of the unwritten laws of the sea clashing with the positive laws of today’s Italian government. Crialese succeeds in outlining a picture of the crisscrossed fates of the islanders and of the asylum seekers in search of their fortune, on the trail of their various desires.

 

keywords | Terraferma; Cinema; Lampedusa; Migration; Emanuele Crialese; Shipwreck; Italian contemporary cinema.

Per citare questo articolo: Monica Centanni, L’isola come orizzonte e come sponda: Terraferma (Italia, 2011), “La Rivista di Engramma” n. 94, novembre 2011, pp. 232-237. | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2011.94.0013