"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

94 | novembre 2011

9788898260393

Terraferma: un film senza odori

Stefania Rimini

English abstract

Già con Respiro (Italia, 2002) Crialese aveva dato prova di saper divaricare il proprio sguardo sopra e sotto la linea del mare, assegnando alle riprese subacquee tutto il fascino dell’indistinto, della libertà, di una incomprensibile purezza. Con Nuovomondo (Italia, 2006) il campo del visibile si allarga, tocca le vette dei Nebrodi per poi conficcarsi negli spazi angusti della nave-traghetto, quasi un sommergibile imbottito di carne umana, fino alla reclusione fisica e mentale della prigione-lager di Ellis Island. Terraferma torna a fare i conti con le ragioni di un’isola bloccata in mezzo al mare, un ‘mondo perduto’, aggrappato a leggi arcaiche eppure fatalmente toccato dalle ferite del presente. Le prime immagini del film ribadiscono l’attrazione fatale del regista per il mare, per quell’immenso grembo blu in perenne lotta con la terra, vigile sentinella di approdi e naufragi. Dopo aver precipitato il nostro sguardo sotto la superficie dell’acqua, la macchina da presa lentamente risale e si piazza sulla prua di una barca, dislocando la nostra attenzione tramite una serie di ambigui campi/controcampi, che lasciano intravedere l’orizzonte e le figure di un vecchio (Mimmo Cuticchio: vedi, in questo stesso numero di "Engramma", l'intervista con l'attore) e di un ragazzo (Filippo Pucillo), custodi di un passato eroico. Per un attimo sembra di rivedere sullo schermo il fascino dei documentari di De Seta, quella luce livida, impregnata di salsedine, quelle onde battute dal vento e dai gabbiani, quel tempo immobile speso dai contadini del mare ad aspettare che le reti si gonfino di pesce. L’incanto mitico del prologo però dura poco, si spezza bruscamente quando l’elica si rompe per via di alcuni relitti galleggianti, inquietante indizio di un’incrinatura, di una minaccia reale all’ordine naturale delle cose. Prima che l’Altro irrompa a turbare i fragili equilibri della terraferma, c’è ancora tempo per una sequenza dal sapore antico, capace di restituire il senso dell’appartenenza alla comunità, il valore della memoria e del lutto. Una processione commemorativa lungo la battigia è il quadro in movimento che racconta la devozione dei familiari verso il capofamiglia inghiottito dal mare, e con essa la necessità della sopravvivenza, l’orgoglio del paese di fronte al sacrificio della vita. La ritualità del dolore si appiccica al nero degli abiti, al passo cadenzato della gente: tutti si muovono all’unisono, trascinando con sé il peso di esistenze fuori dalla storia.

Fin qui il film aderisce perfettamente alla bellezza del paesaggio, disegna i contorni mitici della vicenda, tratteggia i visi e i corpi dei protagonisti, che emergono dalla geografia dell’isola. Ernesto è un vecchio lupo di mare, quasi una divinità per saggezza, tempra e vigore; Nino (Beppe Fiorello) è il figlio ribelle, smanioso di traghettare la famiglia verso orizzonti più concreti (il turismo al posto della pesca); Giulietta (Donatella Finocchiaro) è la nuora di Ernesto, rimasta vedova e pronta anche lei a nuovi approdi, a un destino finalmente lontano da ristrettezze e ricordi; Filippo è figlio premuroso (di Giulietta) e nipote fiero (di Ernesto), sembra deciso a rinnovare l’eredità paterna ma non riesce a schivare del tutto i miraggi della madre. La scontrosa densità di questo nucleo familiare viene destabilizzata dalla sbarco di un gruppo di migranti, di fronte ai quali Ernesto e Filippo non esitano a invocare la legge del mare (dell’ospitalità e dell’accoglienza) in scacco alla legge dello stato (del respingimento e dell’abbandono). Scegliendo di nascondere in casa Sara (Timnit T.) e i suoi figli (una bambina nascerà proprio tra le braccia di Giulietta), Ernesto rivendica il valore antico della pietas ma rischia di alterare per sempre i rapporti con i suoi consanguinei e con il resto degli isolani. A sentire Nino, infatti, che dà voce a un'altra ragione, la spiccata vocazione turistica del luogo mal si adatta all’emergenza dei clandestini: i suoi clienti vogliono solo stordirsi di sole e musica e gli indigeni non sono pronti a confrontarsi con la sofferenza di chi viene da lontano. La distanza incolmabile fra l’indifferenza di Nino e la compassione di Ernesto è dichiaratamente uno dei temi portanti del film, a cui si lega la lenta metamorfosi di Giulietta, prima scontrosa verso Sara e i bambini poi invece supplice e caritatevole nei riguardi dei suoi ospiti inattesi, mentre a Filippo tocca la scelta più eroica, quella di sfidare il mare e i controlli di polizia pur di portare in salvo i clandestini, in un finale aperto, che lascia col fiato sospeso grazie anche alla monumentale ripresa in plongée.

Nonostante le intenzioni, però, il film non trova respiro, sfiora soltanto il nodo di sentimenti, frustrazioni e attese dei personaggi, mostrando i limiti di una sceneggiatura e di un montaggio spesso approssimativi. Manca la capacità di astrazione simbolica messa in campo nelle opere precedenti, il paesaggio non riesce – se non a tratti – a saturare lo schermo con quella potenza evocativa che pure il regista ha nelle sue corde. La dialettica fra stasi e movimento si riduce a una lenta deriva di corpi e sguardi, talvolta lancinanti nella loro bellezza (è il caso di Timnit T.) talvolta invece assuefatti a un’unica espressione (accade a Beppe Fiorello). Sembra non esserci il tempo perché le cose cambino, perché la solidarietà maturi, perché la famiglia trovi nuovi equilibri. Lo specchio dell’inconsistenza delle relazioni è incarnato poi dal trio di giovani turisti che affittano la casa di Giulietta e Filippo, rimessa a lucido per assecondare le smanie della villeggiatura; i tre continentali attraversano l’isola con svagato disincanto, in cerca di un esotismo avventuroso che non corrisponde al brivido selvaggio di una Sicilia arcaica, e poi fuggono via veloci appena intuiscono che la vacanza rischia di trasformarsi in qualcosa di serio. La ragazza del gruppo, Maura, tenta anche un approccio con l’acerbo Filippo, ma la loro gita in barca al chiaro di luna si trasforma in un incubo quando lo scafo viene assalito da clandestini-zombie, contro i quali Filippo si scaglia violentemente, lasciando intravedere tutta la rabbia e la fragilità dei suoi anni.

La ferocia simbolica di questa sequenza non vale però a compensare l’oleografica messa in scena dello sbarco di migranti sulla spiaggia, in cui l’enfasi del rallenti contribuisce ad accentuare  l'incongruenza con la vita reale. Per eccesso di calligrafismo la tragedia del naufragio viene descritta in toni estatici, con piani e angoli di ripresa fortemente poetici, tesi a sublimare l’orrore: i corpi del reato sono infatti levigati, tonici, gli abiti lindi, i turisti caritatevoli, mentre il ruolo di cattivi spetta solo ai poliziotti, protetti dalle loro divise e da improbabili mascherine bianche. Non c’è spazio dentro questo rapito tableau-vivant per le cicatrici del viaggio, siamo di fronte a un’odissea senza odori, senza strappi, senza sangue. La scelta è quella di coprire lividi e sudore, di ricondurre la violenza (e qui con un sussulto pensiamo a Géricault) sotto il segno confortante della iconografia della Pietà, quasi che la verità della storia fosse stata contraffatta in ossequio alla bellezza. Crialese esercita certo un perfetto controllo della forma, ma pare compiacersi di un indugio estetizzante che non graffia, non punge e non convince fino in fondo.

Quel che al contrario fa letteralmente bruciare lo schermo è lo sguardo di Sara. La luce nera delle sue pupille è capace di risucchiarci dentro la vertigine della sua esistenza, senza concederci una tregua. È dal lampo della sua bellezza violata che il film trae origine; Timnit T. è infatti una sopravvissuta, una delle tante donne migranti scaraventate sulle spiagge di Lampedusa, in cerca di un riparo, di un’occasione, di una sponda da cui riavviare il filo di una biografia tormentata. Il personaggio di Sara, a cui Timnit Tpresta tutta l’intensità di una recitazione ‘naturale’, è insieme Madonna e Maddalena, il suo corpo è stato trasformato in campo di battaglia, è un’urna violata dalla guerra, per cui valgono forse le parole della protagonista del dramma di Matéï Visniec:

Dorra: […] No, non dirmi che il tempo guarisce tutto… io non credo che il tempo possa guarire tutto. Il tempo non può che guarire le ferite guaribili. È tutto. Il tempo non può fare altro se non ciò che può fare, e nulla di più.
No, Signore, tu non puoi difenderci da colui che è cattivo.
No, Signore, tu non puoi darci il pane di ogni giorno.
No, Signore, tu non puoi perdonarci poiché non ti chiediamo perdono perché noi, non possiamo perdonarti.
No, Signore, la tua volontà non l’accettiamo poiché la tua volontà è il sangue e il fuoco e la follia.
No, Signore, tu non sei la nostra verità, poiché la verità, l’abbiamo uccisa, perché la verità, l’abbiamo sotterrata con il cielo che non esiste più, nemmeno lui, perché la tua casa, Signore, adesso è la casa dei morti, sì…
[...]
No, Signore, non posso raccontarti la mia sofferenza.
No, non credo che si possa raccontare tutto.
Non credo che si possa comprendere tutto.
Non credo che ci sia un senso in tutto ciò che si racconta.
(M. Visniec, La donna come campo di battaglia, Titivillus, 2009, p. 134)

Deciso a non arrendersi a un analogo sentimento di impotenza e rassegnazione è Ernesto, personaggio carismatico, volitivo, epico come l’attore che lo impersona. Ernesto-Cuticchio è una sorta di Poseidone decaduto ma non domo, un Ulisse malinconico, un Vulcano ostinato – meravigliosa la scena in cui l’attore ripara l’elica della barca dentro il garage, mimando davvero l’operoso e scintillante artigianato del dio del fuoco. La sua presenza nel film è garanzia di autenticità e commozione: nonostante il suo mondo sia prossimo alla rovina il suo sguardo resta fiero, la sua figura emana una gravità marmorea ma mai fredda, distaccata, perché nelle sue vene scorre sangue caldo come lava. A confermare il valore assoluto del personaggio può bastare la sequenza in cui si reca in commissariato e si trova costretto a sopportare l’alterigia del comandante (un sardonico Claudio Santamaria); qualcuno ha provocatoriamente rovesciato casse di pesce intorno agli uffici della finanza e questo gesto chiude ogni possibilità di dialogo con gli abitanti dell’isola. Ernesto viene ripreso mentre calpesta suo malgrado un tappeto di sardine, per la prima volta riusciamo a sentire l’odore del pesce fradicio, un odore acre, intenso, che racconta l’abisso che c’è tra un passato mitico (incarnato dal vecchio re del mare) e un presente senza memoria.

Se l’Italia di oggi è davvero un paese senza memoria, il cinema è uno straordinario palinsesto, un archivio di sogni e rovine, da cui estraiamo un fotogramma di Citizen Kane (Quarto potere, USA 1941) per creare un cortocircuito visivo e olfattivo. All’euforica avventura di Citizen Kane, all’ebbrezza del fresco di stampa fa da controcanto l’elegia epica di Ernesto, puzzolente (almeno in questa inquadratura) di stiva e di naufragi. 

English abstract

After Respiro and Golden Door, Crialese is back to tell Sicily on the screen. He chooses a fascinating point of view: the relationship between migrants and fishermen. The first shots show all the beauty of a wild and unspoiled landscape. The destiny of the film’s main characters is determined by the sea, therefore water is the dominant image of the story.  Although the director’s style is very mature, the film suffers from quite an approximate script which in the end results in a rather unconvincing work. The essay focuses on the characters of Ernest (Mimmo Cuticchio) and Sarah (Timnit T.), and on stereotyped depictions of the landing of migrants.

 

keywords | Terraferma; Cinema; Lampedusa; Migration; Emanuele Crialese; Shipwreck; Italian contemporary cinema.

Per citare questo articolo: Stefania Rimini, Terraferma: un film senza odori, “La Rivista di Engramma” n. 94, novembre 2011, pp. 238-246. | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2011.94.0014