"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

89 | aprile 2011

9788898260348

Yaleschlösser: breve e veridica storia dei castelli di Yale

presentazione di "i castelli di Yale"

Marco Bertozzi

English abstract

Incontro Monica Centanni ad una 'mattinata' fiorentina. Si tratta di una giornata di studio, che Fabrizio Desideri ha voluto dedicare a Walter Benjamin, a settant’anni dalla morte, con un 'Concerto' di voci (“Immagini dialettiche e costellazioni tempestive: Warburg-Benjamin-Adorno”, 29 ottobre 2010; le relazioni si possono ora vedere in “Aisthesis-Rivista di Estetica Online”, 2/2010: www.fupress.net/index.php/aisthesis). Mi chiede, salutandomi amichevolmente: “Quando ti deciderai a raccontarci la storia dei castelli di Yale?”. Già, si tratta del titolo di una rivista filosofica, il cui primo numero uscì nel 1996. Titolo suggestivo e curioso, di misteriose origini… Proviamo a raccontarne la storia, sia pure con qualche improvvisazione 'jazzistica'. Devo rimettere insieme le vecchie carte, frammenti nel tempo sparsi qua e là, tra la biblioteca di casa, stracarica e traballante di libri, e le cartelline disseminate nei vari mobili dello studio. Qualcosa sta tornando fuori, il resto a memoria.

La storia inizia presso l’Università di Ferrara, questo lo ricordo, a metà del 1995. Avevamo deciso, con i colleghi del corso di laurea, di dare vita ad una nuova rivista filosofica. Stavamo raccogliendo i materiali, ma ci mancava ancora il titolo. Lo sappiamo, è ovvio, quanto sia importante e decisivo il titolo, per un libro, un articolo, una rivista… È il volto, l’immagine, con cui ci presentiamo agli altri: la nostra promessa.

Durante una riunione di redazione, un collega ci propose una sorta di indovinello. “Se vi dicessi: come i castelli di Yale, che si distinguono fra loro per frazioni di millimetro… che cosa vi verrebbe in mente? Provate a pensarci…”. Misi le mani in tasca e, come sospettavo, le mie chiavi di casa erano Yale. Dunque, dissi, c’entravano le chiavi. Già, rispose il collega, ma meglio ancora le serrature Yale. Ci raccontò allora di una leggendaria svista contenuta nella versione italiana del libro di Max Horkheimer e Theodor W. Adorno Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, la celebre Dialettica dell’Illuminismo (Einaudi, Torino, 1966; la svista compare in tutte le successive ristampe, fino alla riedizione del 1997, in cui si trova una variante… – ma questo lo raccontiamo dopo). Le ristampe Einaudi (1974 e seguenti) contengono la premessa di Horkheimer e Adorno alla nuova edizione tedesca del 1969, impaginata in numeri romani, ma il testo della prima versione italiana (1966) resta immutato. Così leggiamo a pagina 166: “Proprio l’ostinato mutismo o i modi eletti dell’individuo ogni volta esposto sono prodotti in serie come i castelli di Yale, che si distinguono fra loro per frazioni di millimetro” (Gerade die trotzige Verschlossenheit oder das gewälte Auftreten des je ausgestellten Individuums werden serienweise hergestellt wie die Yaleschlösser, die sich nach Bruchteilen von Millimetern unterscheiden). La versione italiana, “come i castelli di Yale”, rende il tedesco “wie die Yaleschlösser” (che allude invece alle famose serrature Yale).

Il brano in questione si trova nel capitolo dedicato all’industria culturale (Kulturindustrie), cioè all’Illuminismo come mistificazione di massa. La funzione della tecnica, per l’industria culturale, è quella di produrre in serie, standardizzare, livellare. Anche l’individuo è una pura illusione: conta solo in quanto si identifica con l’universalità. La differenza risulta millimetrica, come per le serrature Yale, tra l’individuo che si ostina a comportarsi in modo riservato e quello che sceglie di mettersi continuamente in mostra.

Testo arduo, si capisce. Un fraintendimento può sempre capitare. Ma questa meravigliosa svista mi sembrava fatta apposta per il titolo della nostra nuova rivista filosofica. L’indovinello era stato posto a tempo debito. Dopo qualche perplessità e incertezza, la proposta fu approvata. Bisognava però preparare una quarta di copertina con una plausibile e sobria spiegazione, accompagnata dall’immagine di una magica serratura da cui poter sbirciare fantastici castelli. Ci mettemmo al lavoro e, dopo vari tentativi, il risultato fu quello che doveva diventare il nostro marchio di fabbrica.

“…come i castelli di Yale, che si distinguono fra loro per frazioni di millimetro”

M. Horkheimer – Th. W. Adorno, La dialettica dell’Illuminismo [1947],
trad. it. Einaudi, Torino, 1966; rist. 1976, p. 166.

I castelli di Yale, diversi l’uno dall’altro solo per frazioni di millimetro, sono edifici davvero singolari. Come si legge appena prima del passo citato, essi sono addirittura prodotti in serie. In realtà, queste strane costruzioni – che il lettore immagina far corona al campus della Yale University – devono la loro precaria esistenza ai curatori dell’edizione italiana dell’opera di Horkheimer e Adorno. Nell’originale tedesco, esse sono, assai più prosaicamente, “die Yaleschlösser”, ovvero le serrature Yale. I castelli di Yale – materializzazione di una svista, parenti postmoderni di altre costruzioni metaforiche tradizionalmente frequentate dalla teoria filosofica, come i castelli di Spagna, i castelli in aria e i castelli di carte – ci sono sembrati offrire un titolo adatto per una rivista filosofica”. L’immaginario castello in aria non poteva che essere una 'visione' di quello di Ferrara. Con l’aiuto di un amico, abile disegnatore, dopo qualche bozzetto decidemmo per la figura che è rimasta il nostro logo: sbirciando da una serratura, si vede emergere in aria, sopra le nuvole, una torre del castello estense. L’indice della rivista prevedeva un tema monografico (quello del primo numero era dedicato a Isaac Newton e il trattato sull’apocalisse), una serie di saggi, una riscoperta, un inedito, recensioni. L’impianto si è mantenuto così, più o meno, fino ad oggi.

Presentammo la rivista (il 23 gennaio 1997: di questo sono sicuro, perché ho ritrovato l’articolo di un quotidiano locale che ne parlava) nella bella sala conferenze della Biblioteca Ariostea, l’antico e splendido Palazzo Paradiso. Spiegai le ragioni della scelta, raccontai la storia dei castelli di Yale e dissi come era stata una tentazione irresistibile farne il titolo di una rivista filosofica. Non mancò un riferimento all’arcaico luogo comune sul protofilosofo che, guardando il cielo, non si accorge di ciò che sta in terra e cade in un pozzo, celebre favoletta esopica, le cui metamorfosi metaforiche ci ha ricordato Hans Blumenberg nel suo libro Il riso della donna di Tracia: una preistoria della teoria (trad. it. Il Mulino, Bologna, 1988). Raccontai poi la storia di Linus Yale padre, che nella sua bottega di fabbro a Newport (New York) aveva cominciato a costruire serrature di sicurezza per banche, e di Linus Yale figlio che presentò il primo brevetto del nuovo tipo di serrature e chiavi di sicurezza nel 1851. Linus Yale Jr., l’inventore delle serrature a cilindro più famose al mondo e delle chiavi a spillo, come quella che mi trovavo in tasca quando il collega ci aveva proposto l’indovinello.

Ricordai che il testo di Horkheimer e Adorno uscì inizialmente nel 1944 (stampato al ciclostile) durante l’esilio americano e fu poi pubblicato, con qualche integrazione, dall’editore Querido di Amsterdam nel 1947. Non ci furono più edizioni, fino a quella italiana del 1966, che (come si capì in seguito) aveva subito diversi tagli, decisi da Horkheimer d’accordo con Adorno. La traduzione italiana era di Lionello Vinci, pseudonimo di Renato Solmi, a cui sarà però attribuita solo nella ristampa einaudiana del 1980, per motivi che tra poco sapremo. L’edizione tedesca (emendata da sviste ed errori rispetto a quella del 1947) fu pubblicata a Francoforte da Fischer nel 1969, preceduta da una ristampa 'pirata' (de Munten, Amsterdam, 1968) del testo già edito nel 1947, accolta con soddisfazione dal movimento studentesco di allora, che vi aveva trovato un’importante fonte di ispirazione teorica, malgrado l’ostilità dei due autori.

Le 'sforbiciate' subite dall’edizione del 1966 furono oggetto di aspre polemiche, prima in Germania, su una rivista pubblicata da studenti francofortesi, in cui si criticavano con durezza i tagli inflitti alla traduzione italiana, sospettando (a giusta ragione) che fossero stati proprio gli stessi Horkheimer e Adorno a censurare il loro testo (Nico Pasero, Rudolph Bauer, Aufklärung auf Italienisch, in “Diskus. Frankfurter Studentenzeitung”, (1967), p. 4. Poi in Italia, quando Giangiorgio Pasqualotto, “consultate le edizioni del 1947, 1968, 1969 e 1971 dell’opera di Theodor W. Adorno e Max Horkheimer, Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, e confrontatele con la traduzione italiana di Lionello Vinci (Dialettica dell’illuminismo, 1966)”, poté riscontrarvi “alcune omissioni e differenze” (ben 29, di cui si dava debitamente conto). Pasqualotto, ragionando su una serie di possibili spiegazioni, concludeva: “Non rimane pertanto che l’ipotesi di un intervento censorio  sull’edizione italiana da parte o di Adorno o di Horkheimer, ovvero di entrambi. Ma, in questo caso o il traduttore o l’editore, ovvero entrambi avrebbero dovuto esser venuti in qualche modo a conoscenza di tale intervento. In tal caso perché non darne segnalazione come per Minima Moralia? Si può pertanto giungere ad una conclusione provvisoria secondo cui le responsabilità censorie sembrano potersi addossare ad uno o ad entrambi gli autori; ma, in tal caso, anche l’editore o il traduttore avrebbero la responsabilità, invero assai minore, di aver taciuto su una manomissione di cui è improbabile non fossero al corrente” (La dialettica dell’illuminismo restaurata, in “Belfagor”, XXXII, 5, 1977, pp. 543-554).

La replica di Renato Solmi uscì nel fascicolo seguente di “Belfagor” (“Minima Moralia”: precisazioni dell’autore della scelta einaudiana, pp. 697-701): nella lunga lettera al direttore della rivista, Solmi rispondeva alle polemiche suscitate dai tagli alla versione italiana dei Minima Moralia di Adorno (Einaudi, 1954), spiegando i motivi per cui, d’accordo con la casa editrice, aveva deciso di pubblicarne “solo una scelta, per quanto ampia”. Egli concludeva così il suo intervento sulle pagine di “Belfagor”: “Devo dire che, a consumare definitivamente  il distacco [dalla casa editrice Einaudi], era venuta l’esperienza della traduzione della Dialettica dell’illuminismo, che avevo condotto a termine già nel 1961, e su cui Horkheimer, col permesso di Adorno, effettuò una serie di correzioni che, pur non modificando sostanzialmente l’orientamento e il carattere del libro, erano tuttavia ispirate fin troppo chiaramente a preoccupazioni di ordine ideologico e pratico. Lasciava perplessi, soprattutto, il fatto che in Germania continuasse a circolare l’edizione del 1947, e che dovesse toccare proprio all’edizione italiana di registrare questa involuzione dei due autori. Il libro fu pubblicato, dietro insistenza degli autori, nel 1966, quando avevo già lasciato da tempo la casa editrice (dove, conoscendo la mia opposizione alla sua pubblicazione in quella forma, pensarono di sostituire il mio nome con uno pseudonimo). Meno di due anni dopo, l’esplosione del movimento studentesco in Germania avrebbe indotto gli autori a ripubblicare quasi immutata l’edizione del 1947: un equivalente tedesco dell’edizione italiana non avrebbe potuto mancare di provocare aspre reazioni fra gli studenti, come dimostra l’articolo del giornale "Diskus" del 1967 (…). Ciò dimostra, se fosse necessario, che anche Horkheimer e Adorno, pur vivendo nell’Occidente capitalistico e liberale, potevano incorrere nelle disavventure che sono capitate, come è noto, a Lukács nel clima certamente più difficile dell’Oriente staliniano” (la lettera di Renato Solmi a “Belfagor” è ora inclusa nella sua raccolta, Autobiografia documentaria. Scritti 1950-2004, Quodlibet, Macerata, 2007, pp. 257-262). Una storia (di censure e autocensure) che andrebbe di nuovo raccontata, ma adesso non c’è tempo.

Dopo la presentazione, “i castelli di Yale” cominciarono a circolare e ne giunse voce a qualche redattore della Einaudi, che stava preparando una riedizione della Dialettica dell’illuminismo (che poi uscì nel 1997, con un’ampia introduzione di Carlo Galli). Questa edizione recava una innovazione. Al posto dei 'castelli di Yale' ora c’erano (sempre a pagina 166) 'le chiavi di Yale' (già, come fossero le chiavi di qualcuno, forse di Linus Yale Jr.): segno che, nonostante i progressi, non era stato ancora inteso il significato di “Yaleschlösser”. L’auspicio è che dalle “chiavi di” si possa passare, prima o poi, alle “serrature Yale”, da cui resterà sempre un piacere poter intravedere immaginari castelli filosofici.

Spinto da entusiasmo, pensai di inviare una copia della nuova rivista al domenicale del “Sole-24 ore”, sperando di suscitare qualche curiosità per il sorprendente titolo. Così fu. Ne uscì una recensione, con tanto di figurina del castello estense intravisto dal buco della serratura, che aiutò certo la promozione della nostra artigianale impresa.  Ecco il testo (pubblicato con il titolo Il miraggio di filosofici castelli, in “Il Sole-24 ore”, domenica 12 gennaio 1997, p. 28, a firma Al. Ia.):

"È una burla, una svista, un errore? Dove sorgono le fantasiose costruzioni cui allude il titolo della nuova rivista di filosofia curata da un gruppo di docenti dell’Università di Ferrara? ‘I castelli di Yale’ non sono sontuosi manieri eretti attorno al campus della Yale University: si tratta molto più banalmente degli Yaleschlösser, le serrature Yale. I famosi chiavistelli sono citati nella Dialettica dell’illuminismo di Theodor W. Adorno e Max Horkheimer, pubblicata da Einaudi nel 1966, per esemplificare la massificazione degli individui nella società moderna: "…come i castelli di Yale, che si distinguono fra loro per frazioni di millimetro". In tedesco un solo termine traduce ‘castello’ e ‘serratura’, e a fraintendere ci vuol poco. Ne nascono, nell’edizione italiana, improbabili materializzazioni architettoniche: che cosa di più prossimo ai luoghi utopici e metaforici, tradizionalmente frequentati dalla filosofia? Castelli in aria, castelli di carte, castelli di Spagna… Ma non si dubiti per questo dell’attendibilità di quanto nella rivista si raccoglie. Il clamoroso errore offre l’occasione per un titolo curioso, ironico, autoironico. La pubblicazione, che ha una periodicità annuale, si articola su quattro sezioni: nella prima parte è proposto un tema di confronto, ‘Newton e l’Apocalisse’ in questo primo numero, con relazioni di Giulio Giorello, Maurizio Mamiani e Mario Miegge sul rapporto, nei testi newtoniani, tra il metodo di indagine matematica della natura e l’ermeneutica dei testi sacri. Seguono una serie di (sulla teoria rinascimentale delle congiunzioni astrali, su Cartesio, su David Hume e sul costituzionalista spagnolo Valentin de Foronda). Le ultime due sezioni sono destinate all’archeologia testuale. La riscoperta ripropone un testo di Mackinder del 1904 [Il perno geografico della storia, in prima traduzione italiana]:  un saggio di geopolitica, un approccio di grande attualità allo studio delle relazioni internazionali. L’inedito, infine, propone una lettera di Giacomo Casanova a Caterina di Russia, riscoperta recentemente negli archivi di Praga”.

Confortati da questo primo risultato, ci mettemmo a lavorare alacremente al secondo numero dei castelli, il cui tema era molto warburghiano, poiché dedicato alla sublime Melanconia, con saggi su Ficino, Dürer, Shaftesbury e D’Annunzio.  Presentando il nuovo fascicolo della rivista, potemmo annunciare i nuovi progressi di traduzione: dai 'castelli di Yale', alle 'chiavi di Yale'…

Oggi "i castelli di Yale" sono arrivati al numero dieci (già, c’è stato qualche numero doppio, ma le difficoltà economiche di mantenere in vita una rivista cartacea sono ben note). Ricordo il tema del N. 9, 2007/2008: “Medicina e Filosofia tra Medioevo e Rinascimento” e quello del N. 10: “L’infinita varietà del gusto. Filosofia, arte e storia di un’idea dal Medioevo all’età moderna”. I primi quattro numeri (1996/1999) furono editi per Vallecchi, mentre dal numero cinque  in poi sono pubblicati dalla casa editrice Il Poligrafo di Padova (i primi cinque numeri si possono leggere online: www.unife.it/letterefilosofia/filosofia/rivista-i-castelli-di-yale).

Non resta, infine, che render grazie per una simile e straordinaria (s)vista: che i nuovi castelli possano svettare ancora su aeree nuvole di filosofici cieli. E auguriamoci di potere a lungo sbirciarli dalle serrature della nostra (magica) rivista dal fantasioso titolo. Buona lettura!

Bibliografia di riferimento
English abstract

In the Italian translation of Max Horkheimer and Theodor W. Adorno’s Dialectic of Enlightenment, “Yaleschlösser” (Yale locks) became “i castelli di Yale” (Yale’s castles). This mistake was regarded as a good title for a new philosophical review… The article relates the (detective)story of this fantastic misunderstanding.

 

keywords | Horkheimer; Adorno; Dialectic of Enlightenment; Yaleschlösser; Yale's castles.

Per citare questo articolo / To cite this article: M. Bertozzi, Yaleschlösser: breve e veridica storia dei castelli di Yale, presentazione di “i castelli di Yale”, “La Rivista di Engramma” n. 89, aprile 2011, pp. 24-28 | PDF di questo articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2011.89.0011