Non c’è documento migliore, per cogliere il vissuto di una bottega di pittura del Cinquecento, dell’opera d’arte stessa, anzi, delle opere nel loro complesso, come residuo di un sistema di produzione articolato e coordinato. In questo senso bisogna ricordare che la bottega non è un’entità astratta, una sorta di appendice scomoda che torna utile solo per etichettare dipinti considerati al di sotto di un presunto standard; si tratta bensì di un luogo di lavoro e di un ensemble di artisti, che si qualifica per un patrimonio condiviso di conoscenze e competenze. A fronte di una congenita carenza di informazioni di prima mano (e comunque anche in presenza, supponiamo, di un libro di conti), l’operazione più conveniente, ma nel contempo la più complicata, consiste dunque nell’indagare l’apporto concreto dei collaboratori nell’opera pittorica del maestro. Una ricerca sistematica di questo tipo esige però il vaglio di un’enorme quantità di dipinti, l’applicazione di un criterio di analisi omogeneo e la predisposizione di categorie terminologico-concettuali che riescano a conciliarsi con i moderni strumenti di indagine tecnologica.
Precisare quali opere possano essere definite ‘di bottega’, come distinguerle dalle altre, che cosa si voglia indicare con tale espressione, resta uno degli aspetti più complicati della ricerca storico-artistica, e dirimere la questione non è tra gli scopi del nuovo libro Le botteghe di Tiziano - esito di quinquennale ricerca in collaborazione con il Centro Studi Tiziano - che intende invece tracciare un percorso attraverso le dinamiche di produzione senza esasperare il potenziale conflitto fra maestro e assistenti in termini di autografia. Posto che qui il concetto di autografia viene trattato secondo criteri alternativi a una logica di integrità spiccatamente monografica, rimane però fondamentale l’analisi dei prodotti derivati dal sistema di collaborazione, con tutte le difficoltà che ciò comporta in termini di oggettivazione e relativa classificazione.
Un approccio preliminare di carattere squisitamente storico potrebbe tentare di ripartire metodicamente il catalogo dell’artista secondo gli ambiti di committenza e le tipologie di dipinti, associando di volta in volta questi due fattori al fine di raggruppare i settori di produzione dell’atelier in base alla reale o potenziale collaborazione degli assistenti. La nostra percezione della qualità pittorica (intesa come pura constatazione tecnica, non secondo una scala di apprezzamento), subordinata alla sensibilità individuale e al giudizio collettivo, e comunque condizionata dallo stato materiale dei manufatti in esame, verrebbe così combinata con una ripartizione tipologica delle commissioni e finanche delle competenze dei collaboratori, allo scopo di comporre una suddivisione che rifletta l’economia e l’organizzazione interna della bottega. Tuttavia un impianto tassonomico prestabilito, oltre che problematico in sé, sarebbe inadeguato allo scopo, poiché andrebbe – semmai – ricavato per induzione dallo studio stesso della materia presa in esame, la cui selezione comporta già di per sé un intervento critico considerevole. In particolare, una griglia preordinata sarebbe inadatta a incasellare le opere della tarda stagione tizianesca, compresa fra sesto e ottavo decennio del secolo, caratterizzata da considerevoli oscillazioni qualitative che oppongono una forte resistenza a tentativi di rigida classificazione. Viceversa si dovrebbero considerare caso per caso i diversi elementi che concorrono a delineare il quadro generale di ciascuna situazione sottoposta ad analisi: il gusto artistico del committente, la collocazione di un determinato lavoro nella gerarchia di valori idealmente stabilita dal pittore nelle sue strategie operative, le tecniche e i materiali adottati, la tempistica programmata, il compenso pattuito. Si tenga infine presente che l’equivalenza tra autografia e committenza ‘alta’, che talvolta potrebbe illudere di fornire una pista sicura, non è una norma universalmente applicabile. Le possibilità di intervento della bottega si dipanano lungo un tracciato ampio e articolato, all’interno del quale è difficile desumere regole fisse. Se pure viene correttamente individuata nella produzione per le corti, prima italiane e poi asburgiche, la matrice che istruisce gran parte delle opere della fase matura di Tiziano, il perno della diffusione del suo linguaggio artistico, nonché il motore che dà impulso alla propagazione di repliche e varianti, non va esclusa a priori la partecipazione di assistenti in opere destinate ai principi, così come, d’altra parte, la realizzazione di copie e varianti non è necessariamente da intendersi come un campo di esclusiva spettanza degli assistenti.
In ogni modo, per fronteggiare dubbi e incertezze e tentare di chiarire l’effettiva efficienza critica di una distinzione tra opera autografa e opera di bottega, ci si può utilmente interrogare su quali fossero, complessivamente, le reali capacità di manovra degli assistenti: dove, quando e come avevano modo di operare concretamente sulla tela? Scartata l’opzione di un’indagine millimetrica rivolta a scomporre ogni pennellata della superficie pittorica per risalire alla mano che l’ha tracciata, gioverà chiedersi più in generale in quali circostanze e in quali fasi esecutive Tiziano avesse bisogno del supporto di collaboratori. Tenendo ferma la sua peculiare inclinazione a ripensare e ritoccare le proprie creazioni, e dunque assumendo che pentimenti e rifiniture del maestro possono confondersi con inframmettenze di altre mani, conviene allora fare breccia negli scarti risultanti dalla dialettica tra invenzione, o composizione, ed esecuzione: un procedimento speculativo che comporta riflessioni sul significato e sulla funzionalità dei dipinti analizzati.
Verosimilmente il maestro giostrava le forze a disposizione in laboratorio, adoperandole secondo le esigenze del momento. Questo, a proposito di quanto detto sull’attività tarda di Tiziano, potrebbe in parte spiegare l’eterogeneità ravvisabile tanto all’interno di singoli dipinti quanto nella produzione esaminata complessivamente. Per quanto riguarda i primi anni, invece, bisogna rilevare non solo una carenza di notizie intorno agli assistenti, ma anche e soprattutto un apparente minore impatto sulla resa pittorica, ammesso che scarti, disuguaglianze o cadute formali siano necessariamente riconducibili all’innesto di collaboratori nel lavoro del maestro. Per certi versi questa situazione di incertezza riguardo all’operatività degli assistenti nella prima maturità di un pittore è fisiologica: sembra quasi naturale aspettarsi che un artista all’inizio della carriera dia il meglio di sé e non abbia ancora accumulato fama, lavoro e capitale sufficienti per permettersi una bottega ben strutturata, e nemmeno ne avverta l’esigenza, dovendo dare il meglio di sé per acquistare credibilità e affermarsi professionalmente. In questo senso è difficile prescindere dalla proiezione di uno schema mentale (veritiero o no che sia) per cui la delega di incombenze a collaboratori aumenta col passare degli anni di una persona.
Tendenzialmente in campo storico-artistico si comincia a parlare di bottega piuttosto tardi nel percorso di un individuo, come se all’inizio ciò che egli realizza fosse dotato di una sorta di ‘genuinità’ intrinseca che lo tiene lontano da compromissioni con livelli di abilità esecutiva considerati inferiori. D’altronde è legittimo attendersi che il numero e l’importanza degli aiuti di un artista aumentino nel tempo, con l’aumentare della fama, dell’esperienza e della quantità di lavoro da svolgere. Ma, al di là del fatto che queste aspettative siano giustificate o meno, precisare i processi di formazione della bottega di un pittore agli esordi è operazione comunque ardua, perché strettamente legata alla conoscenza – in genere assai labile, a seconda dei contesti – dei processi che lo hanno portato a emanciparsi dall’apprendistato presso la bottega del proprio maestro: almeno in linea teorica, infatti, dobbiamo ammettere che una bottega esiste fin dal momento in cui un pittore acquista lo status di maestro.
Nel caso di Tiziano, effettivamente, il profilo della bottega si delinea sempre più nitidamente col passare degli anni, acquistando particolare rilievo nella stagione conclusiva. Da una parte ciò si spiega con la crescita generazionale dei discendenti del cadorino, il figlio Orazio e il nipote Marco, cui è destinato il compito di perpetuare l’esistenza dell’impresa Vecellio; dall’altra i soggiorni ad Augusta presso l’imperatore Carlo V, verso la metà del secolo, e il successivo rapporto di committenza con l’erede Filippo II di Spagna, imprimono una svolta nell’attività e ridefiniscono gli equilibri interni dell’atelier. Questo secondo fattore è risultato determinante nella ricostruzione delle strategie di mercato non soltanto degli ultimi decenni di vita di Tiziano ma anche, con sguardo retrospettivo e criterio comparativo, di periodi precedenti. Innanzi tutto la predominanza del patronato asburgico nell’economia globale della produzione di Tiziano costituisce, sia per la continuità temporale e l’estensione geografica sia per la consistenza numerica e l’ampiezza tipologica dei dipinti, un’unità di misura fondamentale per valutare l’incidenza e le modalità di svolgimento di altri canali di committenza. Inoltre la confidenza e il prestigio guadagnati come pittore prediletto di Filippo, nonché l’orgoglio manifestato nel presentare a quest’ultimo le proprie creazioni, fanno delle cosiddette poesie mitologiche realizzate per il sovrano spagnolo i parametri su cui si registrano tanto la capacità inventiva quanto lo standard esecutivo di Tiziano. La risonanza culturale di quelle e di altre opere inviate alla corte iberica è, infine, un catalizzatore di processi di replica e variazione che costituiscono materia di prima scelta per una ricerca sulla bottega.
Non è però soltanto in questo settore che emerge la presenza di un’équipe ottimamente coordinata dal titolare. Peculiare dell’atelier Vecellio, soprattutto in certa produzione successiva ai due viaggi in Germania, è infatti la messa a punto di un sistema di lavoro capace di integrare l’apporto di collaboratori nel nuovo linguaggio pittorico elaborato dal maestro. Questo appare evidente in una grande quantità di dipinti in cui la semplificazione strutturale dell’immagine e la tecnica fluida, contraddistinta da continui rimaneggiamenti, cambiamenti e ritocchi, facilitano la mimetizzazione degli assistenti in quell’idioma tizianesco che è cifra inconfondibile della stagione tarda, marchio di fabbrica che in quanto tale può subire manipolazioni o finanche tentativi di contraffazione. Che vi sia o meno la presenza degli assistenti, o che il maestro le abbia dipinte per intero, queste pitture rappresentano l’esito di un sistema di bottega strutturato e attivo, da concepirsi innanzi tutto come luogo di sperimentazione in cui l’atto creativo si rinnova continuamente, dove i modelli possono essere mutati in repliche e il passaggio da un modulo seriale alla creazione unica appare sfumato. Davanti a questo scenario mutevole, il concetto stesso di bottega assume connotati diversi da quelli di una struttura in cui l’idea progettuale viene passivamente tradotta in opera dagli allievi. Stando a quanto è possibile ricavare da numerosi esempi, la bottega tizianesca corrisponde semmai a un laboratorio nel quale le immagini cambiano, si trasformano, vengono plasmate procedendo per la via dell’esperimento e della variazione, scaturendo da un dialogo tra capobottega e dipendenti che purtroppo possiamo solo intuire attraverso le pitture stesse.
Rappresentativi del modus operandi - come si vedrà poi illustrato in dettaglio nel paragrafo seguente Sacre Variazioni - di questa fabbrica-bottega sono quei quadri la cui genesi avviene nella prassi di bottega piuttosto che nell’intimo raccoglimento creativo che precede la messa in opera, a prescindere dalla partecipazione materiale del maestro in fase di esecuzione. Si può trattare di soggetti che, una volta scaturiti dalla scintilla creativa, consumano la propria esistenza in una prassi che vede impegnati il maestro e gli assistenti in operazioni di realizzazione del manufatto secondo criteri prestabiliti, dettati dall’orientamento di chi dirige l’impresa. Oppure possono essere dipinti che, in via anche solo parziale, si fondano sulla ripetizione e sul riadattamento di motivi consolidati (e non ci riferiamo alle semplici varianti o repliche ma anche a composizioni originali) seguendo una consuetudine realizzativa mirata al risparmio di risorse (mentali, fisiche, materiali) e improntata a principî di organizzazione del lavoro desunti dalla convenienza pratica piuttosto che da specifiche esigenze di ordine espressivo. Intendendo il sistema di lavoro della bottega in questi termini, è possibile affermare che alcuni dipinti attraversano solo alcune fasi di quel sistema, mentre altri sono interamente generati nell’ambito operativo della bottega.
Eppure, anche davanti a questa evidenza, allo stato attuale non siamo in grado di tracciare una mappatura degli interventi di assistenti e dobbiamo per lo più arrestarci all’idea di lavoro collettivo. In ogni caso, l’ipotesi di un lavoro a più mani fornisce una ragionevole alternativa a un approccio di stampo prettamente monografico, calibrato sulle singole individualità, poco efficace nella messa a fuoco delle dinamiche di bottega. Allo stesso modo l’anonimato può essere inteso non come sterile risultato di un ripiego interpretativo, bensì come prerogativa utile a definire euristicamente i dipinti ‘di bottega’ nei termini di una partecipazione degli assistenti a processi di trasposizione innescati dal maestro: la difficoltà nel riconoscere le singole mani dei collaboratori può essere allora sia sintomo di integrazione fra più soggetti agenti, sia effetto della subordinazione che impedisce ad alcuni allievi di emergere. Tali proprietà andranno poi messe in relazione con il grado di attinenza ai canoni tecnici ed espressivi di Tiziano, che rappresenta a sua volta un potenziale fattore di discrimine per misurare i vari livelli su cui si dispongono i prodotti dell’atelier: in base a quanto esaminato nel corso di questa ricerca, possiamo immaginare che dalla bottega sortissero articoli di qualità variabile, a cui corrispondevano condizioni di mercato diversificate, quantificabili anche nel prezzo (per lo stesso principio che assegnava a una copia del collaboratore Girolamo Dente una stima più bassa dell’originale tizianesco).
La somma di questi coefficienti può indicare di volta in volta un avvicinamento o un allontanamento dai procedimenti tecnici di Tiziano, rendendo più o meno verosimile che un dipinto abbia avuto origine nella sua bottega. In una prospettiva più ampia, il libro Le botteghe di Tiziano sviluppa articolate catene visive che testimoniano partecipazione di metodi e condivisione di idee: anche in quadri che si discostano dalla maniera autentica del maestro si percepiscono echi del lavoro svolto nel suo studio, si tratti di opere eseguite dagli assistenti nel laboratorio o generate altrove da discepoli ed epigoni che sviluppano spunti raccolti in quello stesso ambiente o ai suoi margini. Intesa in questa accezione, la categoria dei dipinti ‘di bottega’ è in grado di accogliere un largo numero di esemplari di dubbia autografia, rispettando nel contempo principi di selezione fondati non su impressioni epidermiche ma sull’esame del processo creativo di tali opere. Va però precisato che, per approfondire il problema, sarebbe necessario eseguire indagini diagnostiche meticolose, coordinate progettualmente a partire da un nucleo di dipinti accuratamente scelto. È auspicabile che in tal senso si ampli il raggio d’azione delle analisi tecnologiche, a cui negli ultimi anni è stato sottoposto un buon numero di dipinti di area tizianesca. Dal punto di vista di questo studio, la speranza è che si creino le condizioni perché le attese di chi conduce analisi e interventi di restauro non siano sempre e a tutti i costi rivolte a rivelare la mano di Tiziano, e mai quella dei collaboratori.
Sacre variazioni. Tiziano, Francesco, Polidoro e la migrazione d’immagini
Estratto dal capitolo I.4 del volume Le botteghe di Tiziano, e corredato di un montaggio video
La formula di conio ottocentesco, con cui si chiamano sacre conversazioni quelle caratteristiche rappresentazioni quattro-cinquecentesche di santi raccolti attorno alla Madonna col Bambino, è in verità poco adatta a esprimere il senso di sospeso raccoglimento in cui i personaggi non conversano affatto, non discutono di dottrina e di teologia, bensì pregano in rigoroso silenzio, offrendo al fedele che li osserva dall’esterno un modello spirituale, una guida alla devota contemplazione, interiorizzata quanto basta per non richiedere alcun suono umano, ma semmai per immaginare con gli occhi della mente – ché questo tali immagini invitano a fare, in quanto specchio di una verità più alta – ed elevarsi oltre la sfera mondana e caduca, intrisa del peccato da cui quelle figure promettono il riscatto. La conversazione non c’è perché queste immagini parlano all’anima e nutrono l’esperienza del devoto, invitandolo a intrattenersi con Dio nella contemplazione e perché l’unica “conversatio” a cui ci si deve riferire è quella “in coelis”, di cui parla Paolo nella Lettera ai Filippesi: cioè – nel testo latino – un incontro, un intrattenimento, una condizione che avviene solo nei cieli oltre la vita terrena (Fil. 3, 20).
Di questa morte e resurrezione interiore, di questa ascesa che parte dall’automortificazione e dalla penitenza e attraversa le fasi che vanno dalla lettura alla meditazione, dalla preghiera alla prospettiva di una contemplazione spirituale “faccia a faccia” con Dio (per esprimerci ancora nei termini paolini di I Cor. 13, 12), i quadri devozionali forniscono gli appropriati strumenti di esercizio, che antologizzano i temi portanti della dottrina soteriologica cristiana. Il pittore che li affronta deve pertanto soddisfare le esigenze di una devozione mirata, affrontando la necessità di individuare formule visivamente efficaci e trovandosi davanti alla scelta tra una ripetizione incondizionata e un’insistita diversificazione. Come quasi sempre accade, la via più agevole sta nel mezzo, pertanto è comune imbattersi in artisti che elaborano variazioni di modelli e moduli di propria o altrui invenzione. Forse sono questi moventi culturali a sospingere i pittori verso la ricerca di un terreno comune su cui costruire la capacità comunicativa di questi dipinti ad alto contenuto emotivo, e magari a promuovere scambi trasversali tra botteghe diverse. In più si tratta di una tipologia di opere in cui proprio l’efficacia del modello si impone sul principio di originalità, incentivando una produzione di impronta seriale in cui buona parte del lavoro può essere delegata agli assistenti senza alterare il significato e la godibilità delle immagini.
Mentre la bottega di Giovanni Bellini può essere presa a esempio sommamente rappresentativo di questi sviluppi, nell’officina tizianesca il criterio di variazione resta un principio cardine tendenzialmente rispettato anche in questo genere di pittura. Nel catalogo di Tiziano non sono pochi gli esemplari appartenenti a questo filone collocabili nell’arco dei primi tre decenni di attività, e in tutti l’invenzione si sottrae all’iterazione e alla serialità. Non mancano, però, le repliche di uno stesso soggetto, oppure le rielaborazioni di modelli, così come non manca apparentemente l’apporto dei collaboratori. Secondo Paul Joannides, proprio da alcuni di questi quadri devozionali si può arguire che già alla metà degli anni ’10 Tiziano aveva una bottega ben organizzata, nella quale poteva affidare a un aiutante la replica di un soggetto facilmente commercializzabile: esemplare sarebbe, in questo senso, la Madonna col Bambino e i santi Giovanni, Dorotea, Paolo (?) e Girolamo (?) della Gemäldegalerie di Dresda, frutto di una cooperazione fra il maestro e un assistente. In altri casi è stato addirittura proposto che l’esecuzione sia da addebitarsi integralmente a collaboratori, come ad esempio nella Sacra Famiglia con i santi Caterina e Giovanni Battista (Digione, Musée des Beaux Arts), che si ispira a un dipinto iniziato da Palma il Vecchio e terminato dopo la sua morte da Tiziano (Venezia, Gallerie dell’Accademia): l’eccezionale circostanza avrebbe così favorito l’assorbimento di un modello allogeno nell’atelier del cadorino.
Un numero non indifferente di dipinti di analogo soggetto è stato ascritto a Francesco Vecellio, e questo apre naturalmente molte questioni, prima fra tutte quella dell’autonomia di produzione rispetto a Tiziano. Simili problemi di attribuzione sono difficili da sciogliere e non rientrano nei presenti obiettivi, ma le variazioni formali e iconografiche all’interno di una vasta serie di dipinti di indiscutibile matrice tizianesca, tra loro collegabili, impone di ragionare sulle capacità di ricezione degli allievi e sulla formazione spontanea di un vocabolario modulabile, sulla diffusione di modelli anche oltre le mura di Biri Grande e sull’attrazione di altri artisti nell’orbita della bottega vecelliana. Tanto più che attraverso questo corposo nucleo di opere sembra possibile ipotizzare uno scambio tra Francesco e Polidoro da Lanciano. Bisogna però premettere che non si tratta di semplici prestiti occasionali, ma di un vero e proprio formulario, di un lessico condiviso, in cui cambiano gli accenti ma la cui struttura portante rimane immutata, e che segnala non tanto contatti saltuari ma frequentazione assidua, sensibilità comune, attitudini compatibili.
In questo percorso attributivo, che si snoda tra quadri sulle cui provenienze originali non possediamo informazioni e che puntualmente sono privi di firma, il punto di partenza che consente di evocare il nome di Francesco è, ancora una volta, l’Adorazione dei pastori di Houston, di cui viceversa possiamo fissare i dati cronologici e di committenza. La figura di Gesù disteso e – ancor più – il caratteristico volto di Maria ritornano infatti in un cospicuo gruppo di dipinti che manifestamente si allontanano dalla maniera di Francesco e si avvicinano a quella di Polidoro, attraversando anche fasi intermedie in cui forse dobbiamo riconoscere le mani di ulteriori collaboratori. Per quanto riguarda Polidoro, la costituzione del suo catalogo si fonda su una vasta rete di accostamenti e confronti che prende avvio da un corpus invero ridotto di opere documentate, ma comunque omogeneo e sufficiente a enucleare gli elementi costitutivi del suo linguaggio pittorico, che trovano ampia corrispondenza in una quantità di immagini di qualità variabile ma complessivamente coerenti tra loro. Nella sequenza che qui proponiamo si riscontrano numerosi motivi ricorrenti che connettono composizioni attribuite a Francesco ad altre ascritte a Polidoro. Si tratta di modelli di figure ricombinati in vario modo, talvolta replicando un impianto compositivo prestabilito, che possiamo sintetizzare così:
1) Gesù Bambino disteso con le gambe sovrapposte
2) Madonna orante con il Bambino in grembo
3) Varianti del gruppo precedente
4) Sposalizio mistico di santa Caterina
5) Sacra Famiglia con san Giovannino
I primi due elementi della lista si ritrovano entrambi nell’Adorazione di Houston e presentano variazioni tipologiche rispetto alla Natività Allendale, cui il dipinto si ispira. Diversa è infatti la posa del Bambino, con la schiena leggermente rialzata e le gambe piegate di lato, la destra sovrapposta alla sinistra. Senza sostanziali modifiche, la stessa figura ricorre in alcune varianti di Madonna col Bambino tra due angeli adoranti. Ne sono stati pubblicati almeno due esemplari, uno attribuito a Francesco Vecellio (già in collezione Artaria a Vienna) e l’altro a Polidoro (ubicazione ignota), quasi identici salvo che per il paesaggio retrostante. Sdraiato su un parapetto, il Bambino riappare in una Madonna col Bambino e i santi Giovannino e Gioconda (Modena, Galleria Estense) attribuita a Francesco, che, a parte la sostituzione della santa a destra con un probabile san Girolamo, ricalca la struttura di un quadro già passato nel mercato antiquario sotto i nomi di Francesco e di Polidoro, ma poi ricondotto a Bernardino da Asola. Non soltanto è degna di nota la diversità delle composizioni in cui il medesimo modello viene inserito, ma occorre anche sottolineare l’eterogeneità dell’esecuzione, particolarmente evidente se si confrontano le ultime due opere menzionate; laddove, oltretutto, certe durezze evidenti nella prima, soprattutto nella resa delle fisionomie, non si conciliano perfettamente col fare artistico di Francesco.
Il prototipo di Maria adottato nell’Adorazione di Houston conosce una notevole fortuna, a giudicare dall’elevata quantità di dipinti in cui compare. Il volto, soltanto più addolcito, è simile a quello effigiato nella Madonna col Bambino e i santi Giorgio e Dorotea, nota nelle varianti tizianesche del Prado e di Hampton Court, di cui viene ripreso il motivo del velo scostato da un lato della capigliatura, che quindi, diversamente che nell’Adorazione, resta in parte scoperta. Un nucleo di tre dipinti assegnati già da tempo a Francesco presentano Maria a mani giunte, nell’atto di adorare Gesù che, deposto in grembo su un lenzuolo, protende il braccio destro verso la Madre: si tratta della Madonna col Bambino e i santi Girolamo, Francesco e Antonio Abate (Monaco, Alte Pinakothek), e di due versioni differenziate di Madonna col Bambino e san Giovannino (Verona, Museo di Castelvecchio; San Diego, Museum of Art).
Un diverso trattamento del viso della Vergine, più arrotondato e reso con un’accentuazione dei riflessi sull’incarnato più aderente al modello di Houston, permette di raggruppare a parte altre quattro versioni: due differenti raffigurazioni della Sacra Famiglia (Edimburgo, National Gallery of Scotland; Bergamo, Accademia Carrara), entrambe ascritte a Francesco; una Madonna col Bambino (Dresda, Gemäldegalerie) e una Sacra Famiglia con angelo adorante (Roma, collezione privata), date a Polidoro. Come il già discusso San Teodoro ritratto da Francesco Vecellio in una delle portelle d’organo di San Salvador, anche l’angelo genuflesso, raffigurato a sinistra nell’ultima tela menzionata, sembra una versione mascolina – seppure effeminata – di Maria, resa con la stessa sensibilità volumetrica. Nella posa del busto e nella sagoma delle ali, presenta invece notevoli affinità con l’omologa figura nei citati esemplari di Madonna col Bambino tra due angeli adoranti. Oltre a ciò, il quadro in esame si distingue dagli altri per un ampliamento della composizione, che include sullo sfondo a destra la capanna, costruita a ridosso di un edificio classico diroccato di cui spicca un pilastro con colonna addossata. Inserti architettonici come questo si ripetono in molti brani attribuiti a Polidoro, come ad esempio nella Madonna col Bambino e santa Cecilia (Zagabria, Strossmayerova Galerija), dove a destra lo spazio è chiuso dalla base di una colonna a fusto largo. Il dipinto è interessante anche per la presenza della santa colta di profilo a sinistra: una figura che sembra caratteristica della pittura di Polidoro, ma che, girata in controparte, ritorna nella serie dello Sposalizio mistico di santa Caterina, di cui al punto 4 della lista sopra riportata, per la quale si è fatto spesso il nome di Francesco. In tal modo il quadro di Zagabria fa da trait d’union ideale tra i curricula del Vecellio e di Polidoro, così come sono stati ricostruiti dalla critica.
Nelle quattro versioni note dello Sposalizio mistico, la consonanza con modelli tipici di Tiziano rende plausibile la derivazione da un suo prototipo. Non soltanto, infatti, il semplice impianto con le figure a mezzo busto ricorda altre composizioni di questo genere realizzate dal cadorino, ma le pose e le fisionomie dei singoli personaggi rimandano a precisi modelli: la Madonna è una rielaborazione di quella effigiata nelle varianti del Louvre, di Vienna e di Chiswick House; la santa è quasi identica alla Cecilia che accompagna Maria, Gesù Bambino e il Battista in una tela della Pinacoteca Ambrosiana, ed è imparentata con la Dorotea del quadro di Dresda menzionato in apertura di questo capitolo; infine Giovannino, che fa capolino dall’angolo sinistro del quadro con il cartiglio avvolto attorno a un avambraccio, sembra ispirato a invenzioni tipicamente tizianesche, come se ne possono ammirare nella Madonna delle Rose degli Uffizi o nella Madonna delle ciliegie del Kunsthistorisches Museum di Vienna, dove un Giovannino analogo (anche nelle fattezze) appare a destra in controparte. Il Bambino, invece, viene ripreso in un’incisione di Raphael Sadeler che ricopia un originale di Polidoro, secondo quanto enunciato nella scritta “Polidorus de Lanzan: pinxit” (Vicenza, Museo Civico): qui la Vergine è stata rimaneggiata, Caterina risistemata in una posa genuflessa, Giovannino eliminato e sostituito da un vaso di fiori. L’esistenza di un simile soggetto dipinto da Polidoro conferma l’avvicinamento del pittore abruzzese a modelli verosimilmente usciti dall’atelier Vecellio. Ma ciò che occorre sottolineare è l’assimilazione di alcuni di quei modelli – come la Madonna orante, la santa di profilo oppure, come si vedrà, il Giovannino – resa funzionale alla costruzione di un proprio vocabolario figurativo.
Del gruppo con la Madonna adorante il Bambino, in particolare, avevamo annunciato – al punto 3 della nostra lista – una serie di varianti che per lo più vanno sotto il nome di Polidoro. In rapida sintesi segnaliamo: la trasformazione della posa del Bambino, non più giacente bensì ritto sulle ginocchia della Madre colto in un movimento che ricorda quello delle precedenti rappresentazioni di Sposalizio mistico; l’applicazione di questa modifica in una tela del Museo Civico di Vicenza, rilettura della Sacra Famiglia con sant’Anna di Vincenzo Catena (Dresda, Gemäldegalerie), basata a sua volta su un disegno raffaellesco; il cambiamento del gesto di Maria che, in alcune varianti di Sacra Famiglia con santi, interrompe la preghiera per sollevare il lenzuolo e svelare così la nudità del Figlio; lo spostamento del Bambino a destra a ricambiare il saluto di Giovannino in una Sacra Famiglia con i santi Maria Maddalena e Giovannino e in una Madonna col Bambino, i santi Maria Maddalena, Giovannino ed Elisabetta. Questo succinto elenco di trasformazioni si limita solo agli esempi in cui il legame con il modello è ancora evidente anche sul piano della resa formale, ma non si contano nemmeno i casi in cui esso è stato assimilato e rielaborato al punto di essere appena riconoscibile, diventando parte integrante del lessico formale del pittore.
Qualcosa di analogo accade con altri elementi figurativi, come certe pose e atteggiamenti dei personaggi, che ripetono o variano prototipi utilizzati dai Vecellio e dalla loro cerchia. È il caso della postura di Maria, seduta e con il busto leggermente ruotato per sorreggere Gesù, usata da Tiziano nella Madonna col Bambino, san Giovanni Battista e un altro santo (Edimburgo, National Gallery of Scotland, in prestito dalla collezione del duca di Sutherland), che Polidoro applica a una figura di santa affiancandola alla consueta tipologia mariana, e poi combinandola, in una Madonna col Bambino e i santi Girolamo e Caterina (Londra, Courtauld Institute), con una Maria identica (ma in controparte) a quelle della menzionata sequenza di Sposalizio mistico di santa Caterina. Una simile postura avvitata, ma orientata in direzione contraria, connota la figura della Vergine in una Sacra Famiglia con santa Caterina e donatore (Kassel, Staatliche Kunstsammlungen) e in una Madonna col Bambino, Tobia e l’angelo, i santi Girolamo e Antonio Abate e donatore (ubicazione ignota), che condividono lo stesso impianto compositivo ma alternano differenti personaggi. Mentre però, nel riadattamento, la postura di Maria è stata trasformata in elemento strutturale, tanto che del motivo originale resta solo una vaga memoria, la figura del Bambino è assolutamente sovrapponibile a quella presente in una Madonna col Bambino, san Giovanni Battista e donatore (Monaco, Alte Pinakothek), che non sembra di mano di Polidoro ed è stata anzi contesa tra Tiziano e Francesco, a dimostrazione che nello stesso quadro possono convivere prestiti letterali da altre fonti e forme derivative ma completamente riassorbite nel repertorio dell’artista.
Lo stesso si può dire del santo collocato all’estrema destra in ciascuna di queste due composizioni: Giuseppe nella prima e Antonio Abate nella seconda. Questa figura di vecchio barbuto, inginocchiato e col capo inclinato a sinistra rispetto all’asse corporeo, in muto dialogo con il gruppo centrale di Maria e Gesù, si affaccia spesso in opere ascritte al catalogo di Polidoro, e va messo in relazione con gli esemplari di Sacra Famiglia con san Giovannino che abbiamo menzionato al punto 5 del nostro elenco. Ci riferiamo a una composizione, talvolta interpretata come Riposo durante la fuga in Egitto, generalmente attribuita allo stesso Tiziano, e nota in più versioni, tra le quali le due maggiormente apprezzate sono conservate al Louvre e a Liverpool. Al di là della valutazione di questi dipinti rispetto all’autografia del Vecellio, ci interessa il fatto che essi contengono almeno altri due motivi ricorrenti nella pittura di Polidoro da Lanciano, vale a dire la solita posa avvitata di Maria e una figura di Giovannino che è talmente frequente nell’opera dell’abruzzese da rendere ozioso qualsiasi sforzo di catalogazione. Le variazioni sono numerose, poiché il piccolo santo accorrente verso Cristo può tenere in braccio un agnellino simbolico della futura Passione, oppure arrivare a mani vuote ma stringendo in pugno il cartiglio, o addirittura porgere un cesto di fiori al cugino predestinato, e viene volta a volta presentato a figura intera, tagliato a mezzo busto o girato in controparte.
A dispetto della scarsa fortuna di cui godono oggidì, i due quadri del Louvre e di Liverpool sono per noi un’importante sorgente che sintetizza il repertorio formale cui attinge Polidoro. Se in passato gli sono stati talora attribuiti, si tende oggi a scartare l’ipotesi e a ricondurli nell’alveo dell’atelier tizianesco, da cui egli viene generalmente escluso. In verità gli indizi per un passaggio in bottega a Biri Grande ci sono tutti, e se non altro dovremo fare i conti con tangenze troppo persistenti per non essere prova di contatti diretti. Alla luce di quanto esaminato, possiamo almeno concludere che il rapporto instaurato da Polidoro con la cerchia di Tiziano è finalizzato alla costruzione di un vocabolario figurativo attraverso l’assimilazione di motivi e l’acquisizione di un sistema di ordine compositivo riscontrabili nella pittura devozionale del Vecellio fra il secondo e il terzo decennio del secolo. Esemplari della confluenza di lemmi tizianeschi sono, oltre agli esempi discussi, una Sacra Famiglia con i santi Caterina e Giovannino (Cambridge, Fitzwilliam Museum) e una Sacra Famiglia con san Giovannino e angelo (Zagabria, Strossmayerova Galerija): nella prima ritroviamo Giuseppe e Giovannino ribaltati in controparte, Caterina col busto lievemente ruotato verso Gesù benedicente, Maria colta nel consueto profilo; nella seconda, Giuseppe e Giovannino sono stati riportati a destra, Maria svela il Bambino col gesto precedentemente descritto, e l’angelo ha lo stesso profilo di Caterina nella serie di Sposalizi mistici analizzata al punto 4. Il volto di quest’ultimo sembra ispirato a quello di Gabriele nella perduta Annunciazione realizzata nel 1537 da Tiziano per le monache di Santa Maria degli Angeli a Murano, riprodotta nell’incisione di Jacopo Caraglio, di cui semplifica anche la posa; un profilo che nell’opera di Polidoro viene riassorbito al punto di diventare cifra caratteristica. Non si tratta dunque di semplici citazioni o di prestiti saltuari, come se ne possono trovare anche in altri artisti, ma di forme che nutrono l’educazione di un pittore e ne sostanziano il linguaggio. Siamo probabilmente sul crinale della frequentazione della bottega di Tiziano, al di qua della partecipazione diretta alla produzione del maestro e al di là di una conoscenza superficiale. Il fatto, però, che non si veda la mano di Polidoro nei dipinti del cadorino non significa una sua totale esclusione dai processi di esecuzione avviati nell’atelier.
Alla fine di questa lunga disamina appare chiara la complessità degli intrecci che legano esponenti della bottega di Tiziano ad altri artisti che vi orbitano attorno. Essa stessa, al suo interno, si presenta come un organismo composito, un luogo dove si trasmettono e rielaborano idee che possono allontanarsi progressivamente dal modello iniziale, come anelli via via più piccoli di un’unica catena. In questa prospettiva non ha più senso chiamare in causa Francesco Vecellio per tutto ciò che non ci sentiamo disposti ad attribuire a Tiziano, usarlo come una sorta di ‘cestino’ dove gettare le scomode opere di bottega, poiché così si elude soltanto il problema, finendo col ricreare la logica monografica di autografia integrale adottata per Tiziano e adattarla a misura del fratello. Associando la bottega all’operato di Francesco in un’ottica rigorosamente alternativa, si ottiene l’effetto di considerare la bottega stessa in opposizione anziché in accordo col maestro; il che ovviamente, oltre a non rendere conto delle funzioni dei collaboratori, non spiega le dinamiche di un laboratorio in cui i processi di trasmigrazione e di trasformazione sono molto più articolati.
Tutti questi confronti, invece, non soltanto indicano l’estesa propagazione di idee e derivati tizianeschi, che mette in relazione botteghe diverse, ma impone anche di ripensare il ruolo di Francesco nella produzione della bottega, poiché, in qualità di vice di Tiziano, potrebbe avere avuto responsabilità individuali nel progettare, impostare, dirigere e supervisionare la produzione di determinati generi di dipinti. Viceversa, la critica ha per lo più trattato Francesco come un assistente di Tiziano, capace comunque di condurre un’attività in proprio sulla soglia dell’autonomia dal fratello. In questa prospettiva, risultando egli stesso un collaboratore, non si è mai dato abbastanza peso alla possibilità che si servisse degli altri aiutanti presenti nell’officina di Tiziano, condividendone la manodopera. La questione è evidentemente connessa alla condivisione anche degli spazi di lavoro, ma, come abbiamo visto, uno dei principali problemi nella biografia di Francesco, dovuto anche ai suoi continui spostamenti tra laguna e Cadore, è localizzare il luogo in cui operava e stabilire se avesse un laboratorio a parte dove portava avanti le proprie commissioni. Un dipinto come l’Adorazione di Houston, così profondamente indebitato con la maniera di Tiziano e, soprattutto, strettamente connesso con la diffusione di un repertorio figurativo di cui abbiamo potuto valutare la portata, suggerisce che Francesco fosse ben addentro quanto meno alla circolazione di idee e di risorse interna alla bottega. In tal senso è legittimo ipotizzare, anche per spiegare la variabilità dei manufatti, che in alcuni dei quadri a lui attribuiti vi sia l’apporto di collaboratori dell’atelier di Tiziano: vale a dire che forse, e non soltanto in via teorica, alla formula ‘Tiziano e aiuti’ possiamo affiancare quella di ‘Francesco e aiuti’, intendendo con ciò l’impiego dei medesimi assistenti. Da questo punto di vista, sarà opportuno considerare la capacità di Francesco di trasformarsi da semplice sottoposto del fratello a potenziale tramite di idee all’interno e all’esterno della bottega.
Non è però soltanto su di lui che dobbiamo puntare la nostra attenzione: nella vasta rete di rimandi che abbiamo analizzato si muovono verosimilmente vari artisti, che guardano a modelli linguistici e attingono a serbatoi di forme, motivi, immagini elaborati nell’officina vecelliana, contribuendo alla loro diffusione attraverso il canale privilegiato della pittura devozionale, che, come abbiamo visto, necessita di formule di chiara lettura e sfrutta la capacità comunicativa di modelli modulabili. Artisti di minore spicco, come Polidoro, aderiscono a una koinè linguistica che coinvolge alcuni dei principali maestri emergenti fra terzo e quinto decennio, da Paris Bordon a Bonifacio de’ Pitati, che appaiono sensibilmente suggestionati da quanto sviluppato nella bottega di Tiziano.
In questo contesto, gli scambi fra le botteghe veneziane prima della metà del secolo costituiscono un campo di indagine da approfondire, ancora aperto a margini di conoscenza ampi, nel quale si possono incontrare un gran numero di pittori su cui non sempre siamo documentati, ma di cui ci danno testimonianza i dipinti stessi.
English abstract
In common historiography, the artist’s workshop is defined as an abstract entity, useful only for labeling paintings that are considered below an assumed standard. But developing an alternative concept of ‘signature’, not solely bound to the criteria of monographic integrity, one gets to break through in the spaces resulting from the dialectic of invention, composition, and execution: a process that involves speculative reflections on the meaning and function of paintings. The book Le botteghe di Tiziano (Titian’s workshops) richly develops the visual evidence of shared methods and ideas in the artist’s milieu: even in paintings that deviate from the ‘manner’ of the master, echoes of his own work can be perceived, whether one takes into consideration works created by assistants in the laboratory, or generated elsewhere by disciples and followers who develop ideas collected on its edges. Formal and iconographic variations within a wide range of paintings by Titian, linked together, require to reason about the reception by pupils and the spontaneous formation of an adjustable vocabulary, and on the diffusion of models beyond the walls of the Venetian workshop of Biri Grande. Through this dense collection of works, it seems possible to envisage an exchange between Francesco Vecellio and Polidoro da Lanciano: not just occasional borrowings, but a shared vocabulary, in which accents can vary but the main structure remains unchanged.
keywords | Tiziano Vecellio; Artist's workshop; Francesco Vecellio; Polidoro da Lanciano.
Per citare questo articolo / To cite this article: Giorgio Tagliaferro, La bottega di Tiziano come fabbrica di immagini, “La Rivista di Engramma” n. 80, maggio 2010, pp. 45-58. | PDF