La riedizione della ‘mitica’ stroncatura di Roland Barthes del Julius Caesar di Joseph L. Mankiewicz (USA, 1953) vuole essere innanzitutto un piccolo omaggio al semiologo francese in occasione del trentennale della sua morte. Non si tratta, come è noto, di un testo raro (la traduzione italiana si può leggere nel volume Miti d’oggi – Einaudi 1975), ma la forza con cui l’autore stigmatizza le “franges obstinées” degli attori ci pare un efficace esempio dell’intuito e del carisma del critico.
Ma al di là del tributo memoriale, ciò che più conta è la capacità di Barthes di decifrare le immagini, nonché la volenterosa applicazione dei principi della semiologia agli ambiti della visualità, incluso naturalmente l’orizzonte dello schermo. L’interesse di Barthes nei confronti della decima musa rappresenta solo una parentesi del suo itinerario teorico-filosofico, ma si tratta di un significativo contributo nell’ambito dell’estetica filmica. La recensione del film di Mankiewicz costituisce uno dei primi assalti dell’autore al mondo della celluloide, ma già è possibile rintracciare le coordinate della sua filmologia. L’approccio al testo muove dall’intransigente identificazione del “ressort capital du spectacle”, ovvero il segno: il film non sfugge dunque ai principi della significazione e produce icone cariche di senso. Peccato che l’evidenza della “frange de cheveux sur le front” risulti straripante e così il segno eccede la logica stessa del senso, screditandosi.
Nel mettere a punto la sua personalissima sociologia dell’immagine, Barthes deplora l’ovvia retorica della frangia, considerandola un artificio ridondante, e per di più poco in sintonia con la morfologia da gangster-sceriffi degli interpreti hollywoodiani. La debolezza della trascrizione di Mankiewicz consiste nell’appiattimento della quintessenza della romanità a un segno esteriore, univoco e sempre identico a se stesso, incapace pertanto di tradurre la controversa moralità dei personaggi. L’“affiche de la Romanité” viene elaborata, dunque, dal “coiffeur”, considerato l’autore principale del film, e il grazioso “drapeau” sulla fronte finisce per produrre nello spettatore (soprattutto francese) un effetto comico non previsto, più vicino alle atmosfere da music-hall che non all’austerità di un film storico-mitologico. La frangia di Marlon Brando, tirata su sopra l’unica fronte “naturellement latin” del cast, risulta essere l’eccezione al paradigma “capillare” dell’opera; a detta di Barthes questa acconciatura si impone senza fare ridere garantendo all’attore una quota del successo europeo.
Un’altra severa critica che viene mossa da Barthes al film, riguarda l’eccessiva sudorazione dei personaggi. Non c’è scampo per nessuno in questa Roma al culmine del dramma: tutti gli uomini, siano essi popolani, soldati o cospiratori, hanno i lineamenti solcati da vivide stille di vaselina, perchè “suer, c’est penser”. Anche in questo caso quel che non funziona è l’esteriorità del segno, l’eccessiva ostentazione del sudore come emblema presunto della moralità dei personaggi. Barthes non condivide la declinazione in chiave nettamente eroica di un segno come il sudore di per sé ambiguo, che si dichiara “intentionnel et irrépressible, artificiel et naturel”. Dentro l’asse teorico formulato all’altezza degli anni ’60 esistono due forme estreme di segno (l’una intellettuale, l’altra viscerale), che escludono l’ipocrisia dello spettacolo borghese di cui partecipa il film di Mankiewicz: la frangia e il sudore appaiono agli occhi del critico come segni bastardi, pomposamente esibiti all’insegna della naturalezza.
A distanza di un decennio Barthes avrebbe risolto tale antinomia individuando un “terzo senso”, eccedente l’informativo e il simbolico: teorizzato a partire dall’analisi di alcuni fotogrammi di Ivan il terribile di Sergej Ejzenštejn (URSS, 1944), il “senso ottuso” è l’epifania dell’arte, lo scarto dalla norma, l’intuizione ostinata e nello stesso tempo sfuggente di ciò che non ti aspetti eppure ti sta intorno.
Se le frange dei romani di Mankiewicz sono categoricamente bollate per l’eccedenza retorica che veicolano, il pizzetto di Ivan, seppure posticcio, “non rinuncia alla ‘buona fede’ del suo referente (la figura storica dello zar)” (Barthes 2001, 49-50) e viene ammesso dentro il sacro recinto dell’arte. I tanti esempi di significazione ‘capillare’ tratti da Ejzenštejn (è il caso della “crocchia” di una delle donne che partecipano al funerale di Vakulincuk) ribaltano la feroce argomentazione contro le chiome del Julius Caesar e restituiscono all'immagine filmica quella “dialettica drammatica” da cui scaturisce il “senso ottuso”, che non si trova dappertutto ma “in un certo modo di leggere la ‘vita’ e il ‘reale’ stesso” (Barthes 2001, 54).
Il salto dalle frange ostinate di Mankiewicz al pizzetto di Ejzenštejn è vertiginoso: lo sguardo e la penna di Barthes hanno tentato di riempire tale vertigine attraverso la faticosa decifrazione del potente impero dei segni cinematografici. Quel che oggi resta della lezione del critico francese è l’evidenza dell’immagine, e l’urgenza di una nuova mitologia del visibile.
Riferimenti bibliografici
- Barthes [1970] 1975
R. Barthes, Mythologies [Paris 1970], in R. Barthes, Miti d’oggi, Torino 1975. - Barthes 1994
R. Barthes, Sul cinema, Il melangolo, Genova 1994. - Barthes 1995
R. Barthes, I segni e gli affetti nel film, Vallecchi 1995. - Barthes [1970] 2001
R. Barthes, Le troisième sens. Notes de recherche sur quelques photogrammes de S. M. Ejzenstejn, “Cahiers du cinema”, n. 222, 1970 [Il terzo senso, in L’ovvio e l’ottuso, Torino 2001]. - Barthes 2010
R. Barthes, L’immagine, il visibile, a cura di M. Consolini e G. Marrone, Marcos y Marcos 2010.
English abstract
Roland Barthes has always been a fan of cinema and has written numerous movie reviews. Among these, one of the most interesting is dedicated to Julius Caesar directed by Joseph Mankiewicz. During the thirty years after the death of Roland Barthes we republish Les Romains au cinema as a tribute to the author and as an example of lucid analysis of the signs of the film show.
keywords | Roland Barthes; Les Romains au cinéma; Julius Caesar; Joseph L. Mankiewicz.