“Una de quele sei idrie nelle quale Christo fece de l'aqua vino”. La fortuna dei vasi di Cana a Cipro in epoca veneziana
Lorenzo Calvelli | Università Ca' Foscari Venezia
Attestate dal vangelo di Giovanni, le idrie di Cana rappresentano una delle categorie di ‘reperto archeologico sacro’ più diffuse in tutto il mondo cristiano. I diari di viaggio dei pellegrini diretti in Terrasanta attestano l'esistenza di alcuni di questi vasi miracolosi anche a Cipro, nelle chiese di Nicosia e Famagosta.
Il ricordo di luoghi e monumenti ammirati dai pellegrini occidentali recatisi in Terrasanta è spesso confluito nelle pagine di vivaci diari di viaggio, in cui la religiosità individuale si mescola allo spontaneo stupore sperimentato di fronte ad architetture esotiche e allo scenario di episodi biblici. L'isola di Cipro, estrema roccaforte cristiana nelle acque del Mediterraneo Orientale, ha costituito a lungo una tappa obbligata del pellegrinaggio ai Luoghi Santi: qui i devoti viaggiatori acquistavano provviste prima di attraversare l'ultimo tratto di mare che li separava dalla loro meta finale, aggrappandosi a qualche raro lembo di rassicurante familiarità in un orizzonte geografico già percepito come stravagante ed estraneo.
A partire dai decenni finali del XV secolo numerosi racconti odeporici documentano la presenza a Cipro di un'eterogenea serie di manufatti antichi, oggetto in quegli anni di un evidente processo di interpretatio christiana. Descrivendo la cattedrale di Santa Sofia, principale edificio di culto della capitale dell'isola, il mercante svizzero Ulrich Leman, recatosi in Terrasanta nel 1472, riferisce di avervi osservato un recipiente marmoreo di cospicue dimensioni che era considerato uno dei vasi in cui Cristo operò il suo primo miracolo, quello della trasformazione dell'acqua in vino. Attestate da un passo del Vangelo secondo Giovanni, le idrie di Cana rappresentano una delle categorie di 'reliquia archeologica' più diffuse in tutto il mondo cristiano: sin dall'alto medioevo la pretesa di possedere almeno uno dei recipienti utilizzati da Gesù durante il celebre banchetto nuziale fu avanzata da innumerevoli istituzioni religiose, quali ad esempio le cattedrali di Oviedo, Angers, Pisa, Brindisi e le basiliche di San Colombano a Bobbio, di Santa Maria dei Servi a Bologna e di San Marco a Venezia.
Secondo due pellegrini francofoni che visitarono Cipro nel 1480, nell'isola si sarebbero trovati addirittura tre dei vasi di Cana, reimpiegati in Santa Sofia e in altre chiese di Nicosia come pile per l'acqua santa. Nello stesso anno il notabile milanese Santo Brasca scrisse che in Santa Sofia vi era "una de quele sei idrie nelle quale Christo fece de l'aqua vino, la quale idria ivi al presente se adopra per navello da aqua sancta, ch'a me pare el più bello vase che mai vedesse". Durante tutta la prima metà del XVI secolo i pellegrini di passaggio per Cipro registrarono spesso la presenza in loco di almeno una presunta idria, documentandone l'esistenza alternativamente a Nicosia o a Famagosta.
In questa città il reperto si sarebbe inizialmente trovato nella chiesa conventuale dei frati minori, da cui sarebbe passato in un sacello dedicato alla Vergine, dove attorno al 1540 lo vide il pellegrino svizzero Jost von Meggen. A questa testimonianza si aggiunge, a pochi anni di distanza, quella del nobile boemo OldÅ™ich Prefát. Questi visitò Famagosta nel 1546 e vi trovò uno dei cosiddetti vasi di Cana, conservato in una chiesa apparentemente consacrata a Santa Sara. Il pellegrino fornisce una minuziosa descrizione del vaso, rilevando come fosse fatto di pietra e si trovasse sulla destra dell'altare, appoggiato su un supporto quadrangolare. La forma del manufatto era rotonda e rastremata verso il basso; l'ansa destra era rotta, la sinistra ancora integra; in prossimità della base era stato praticato un foro, da cui poteva eventualmente fuoriuscire il liquido contenuto all'interno. Al suo racconto Prefát allegò una raffigurazione grafica del recipiente, che restituisce con discreta accuratezza un'idea del suo effettivo aspetto.
Di tutti gli oggetti antichi conservati in territorio cipriota la presunta idria fu indubbiamente quello che riscosse maggior ammirazione nei decenni centrali del Cinquecento. Anche il viaggiatore inglese John Locke, approdato a Famagosta nell'estate del 1553, ebbe modo di osservare il reperto e di lasciarne una dettagliata descrizione, che conferma e integra allo stesso tempo quella fornita dal boemo Prefát. In essa figura una stima delle misure del manufatto, ritenuto alto circa un’alna (poco più di un metro) e capace di contenere una buona dozzina di galloni (approssimativamente 45 litri). Le dimensioni erano dunque imponenti e l’aspetto singolare, se è vero che le sue anse erano plasmate «as the painters make angels' wings». A distanza di dodici anni il vaso fu ammirato anche dal tedesco Johann Helffrich, secondo il quale esso si trovava in una chiesa consacrata a Nostra Donna della Sara. Anche questa descrizione conferma le grandi dimensioni del recipiente, puntualizzando che la sua superficie era di colore verdastro tendente al giallo. Ad un anno di distanza transitò per Cipro il cavaliere svizzero Christoph Fürer, il quale ebbe modo di osservare la presunta idria di Cana in una chiesa denominata Sancta Maria Hydriae. Nel 1569, infine, due anni prima della conquista ottomana di Famagosta, il reperto fu visto e descritto dal pellegrino di Öttingen Wolfgang Gebhardt. Confermando le coordinate fornite dai suoi predecessori, questi riferì che il reperto si trovava in una chiesa dedicata a Maria de Zur.
Le differenti testimonianze relative alla dedica dell'edificio che custodiva il reperto suggeriscono di non accreditare in maniera acritica la notizia di una sua consacrazione a Santa Sara, ma di avanzare invece un'ipotesi alternativa. La maggior parte dei pellegrini è infatti concorde nel ritenere che il sacello fosse dedicato alla Vergine. L'epiteto “della Sara” sarebbe allora giustificabile non come riferimento ad un'altra santa, ma in quanto allusione alla principale attrattiva custodita all'interno dell'edificio stesso: considerando che la forma dialettale veneziana “zara” corrisponde all'italiano “giara”, si può infatti ritenere che l'edificio fosse noto proprio come Santa Maria della Giara. Non è inoltre da escludere che esso corrispondesse alla chiesa conventuale dei frati francescani, la propensione dei quali per il culto mariano era universalmente diffusa in tutto il Mediterraneo.