I compianti, la Bella Addormentata e le altre
Fabrizio Lollini
English abstract
Il mio precedente intervento (Engramma n. 108), compreso nel numero dedicato al tema della Sleeping Beauty, tentava un incrocio tra tradizione alta e bassa, antico e moderno, religioso e favolistico. I commenti che ho ricevuto su quel contributo, e gli studi che si presentano ora in questa sede, nei loro contenuti affatto diversi, mostrano che non pochi studiosi incominciano a interessarsi al tema di come le forme di espressione del compianto - e dunque del dolore - o ancora quelle del sonno / morte che si incrocia al risveglio / resurrezione in forme che possono divenire contemplative e quasi museificate seguano rotte solo in parte culturalmente consapevoli, e si basino piuttosto su forme assolute la cui continuità è dovuta sì a riprese coscienti, ma pure a tramandi sotterranei.
A questo proposito, vorrei presentare qui due brevi suggestioni, a mo' di postilla visiva - quasi una galleria - appena inquadrata da poche righe.
Il 'Maestro di Chaource', ancora alla ricerca di un nome (pur se quello di Jacques Bachot è stato riproposto anche di recente), è l'autore più significativo nella storia della scultura della zona di Troyes, nello Champagne, nel XVI secolo, e uno dei maggiori del periodo di tutta l'area francese. La sua opera eponima rimane quasi unica, nella storia dei compianti, per la continuità di conservazione, che fa emergere forse ancor meglio che nel caso di Tonnerre quel rapporto tra racconto narrato e ambientazione, quel nesso - dunque - tra spazio, racconto e fruitore visivo che tante volte postuliamo negli altri casi, invece rimaneggiati. Per riandare al più celebre degli esempi padani, quello di Niccolò dell'Arca, si pensi solo alle diffferenti ricostruzioni del grouping delle figure (con punti cruciali quali il punto di vista da cui si doveva percepire la "folle corsa" della Maddalena, o il ruolo di perno percettivo della figura avvitata di Giovanni, fino al bilanciamento speculare - nel caso, svanito - che sarebbe determinato dalla presenza della figura ora scomparsa); alle modalità di apparizione della scena nalla chiesa da cui venne spostato, e in cui poi è tornato (l'illuminazione da cui era toccato il gruppo, la possibilità di una sorta di 'sipario', la contestualizzazione nello spazio liturgico); alla possibilità dello spettatore di identificarsi e di mischiarsi, quasi, alle immagini della scena sacra.
Qui, nella cappella sottostante l'area nordorientale del coro della chiesa di San Giovanni Battista nella piccola cittadina francese, anche oggi si attua un piccolo miracolo performativo. Si scendono gli stessi gradini, che fanno entrare il visitatore di oggi nel piccolo ambiente, in cui due finestrelle lasciano filtrare una luce indiretta che avvolge le figure, che tornisce i loro corpi e rende evidenti - ma senza estremizzarle - le campiture cromatiche che in parte ancora le arricchiscono; l'effetto è davvero quello della scena teatrale organizzata in cui si riesce a partecipare, affiancando il soldato che sorveglia la scena o confortando i dolenti, o magari prendendo il posto a fianco dei committenti, che sono inclusi nel gruppo, anche se collocati a parte, e in scala dimensionale ridotta rispetto agli altri personaggi, e fungono come da tramite tra il quando e il dove dell'episodio evangelico, da una parte, e, dall'altra, i tempi e i luoghi in cui viviamo. Sono vestiti come gli uomini del primo Cinquecento, e portatori delle caratteristiche distintive coeve del gruppo cui si deve percepire appartengano (come è il caso dell'annotazione sui peot della figura di Giuseppe d'Arimatea, se, come crediamo, coglie nel giusto).
L'espansione naturalistica dello stile nei secoli del tardo Medioevo e della prima età moderna si misura infatti anche nel mimetismo del dolore; ma la volontà di compartecipazione che emerge dai 'sepolcri' è perenne, e per esempio già evidente in quello di Lazzaro ad Autun, realizzato nel XII secolo, a ospitare le presunte reliquie dell'uomo resuscitato da Cristo, prototipo di tutti coloro che si risvegliano. Il 'mausoleo' aveva la forma di una minuscola chiesa, nella zona presbiteriale della Cattedrale francese; decorato da rilievi narrativi, si schiudeva al pellegrino e a tutti i fedeli tramite due grandi porte lignee - vero limes tra vita e morte.
Il visitatore si trovava di fronte a un 'teatro vivente' di pietra, in forme leggermente più ridotte rispetto alla scala naturale. Molto più in alto rispetto al livello del suolo un sarcofago di quattro o cinque piedi di lunghezza includeva una rappresentazione scolpita del corpo di Lazzaro gisant, avvolto in un sudario. Il coperchio del sarcofago era sostenuto da quattro 'uomini' [come li definiscono le fonti] di cui non conosciamo affatto la taglia: erano come dei piccoli Atlanti collocati sui bordi della cavità sepolcrale, o piuttosto si mantenevano allo stesso livello dei protagonisti principali del dramma, nelle vesti di semplici spettatori? [forse avevano il compito di sollevare il coperchio della tomba, sulla base di confronti con rappresentazioni di sculture coeve]. Un motivo a scaglie di pesce, con tracce di pittura rossa, ornava il coperchio, che recava, sulle due facce, l'iscrizione Lazare veni foras. Ai piedi di Lazzaro, tre statue, di circa un metro e 25 cm: san Pietro, caratterizzato dalle chiavi, e sant'Andrea affiancavano Cristo, che recava un libro e levava in alto la mano destra nel momento preciso, epifanico, del miracolo della resurrezione. Solo un frammento del braccio destro di Cristo ci è pervenuto; è in marmo bianco, com'era anche la testa, mentre il resto della statua era in calcare dipinto. Alla testata del sarcofago, e forse adese alle pareti del mausoleo (il retro delle statue è infatti piatto), le statue della Maddalena e di santa Marta, quest'ultima raffigurata mentre si copre il naso per proteggersi dall'odore di putrefazione proveniente dalla tomba aperta. Delle tracce cromatiche lasciano pensare che il gruppo dei cinque fosse in origine riccamente dipinto. In questo caso, possiamo immaginare che nella forte penombra dell'ambiente, rischiarato appena dalla fioca luce delle candele, la testa e il braccio del marmo bianco di Cristo doveva risaltare in modo drammatico".
Effetti speciali, di luce e di colore, di materiali e di collocazioni, accompagnavano il visitatore (che seguiva peraltro nella Cattedrale un percorso definito, che iniziava dal portale laterale e si concludeva con l'uscita da quello maggiore), che in un'esperienza percettiva polisensoriale, in technicolor prendeva dunque parte diretta alle forme di un dramma sacro. Il gesto di coprirsi il naso per la puzza, lungi dal costituire uno scarto in senso naturalistico, è invece motivo topico ricorrente, che troverà una nuova vita con Giotto e i giotteschi, e che mostra appunto, come accennato sopra, che, se le forme dello stile mutano e implementano il senso mimetico, atti, posture e gesti parlanti rimangono gli stessi.
Nell'editoriale del numero 108 di Engramma già citato, accennavamo al caso esemplare del bellissimo castello di Ussé, e dei suoi legami con Charles Perrault che avevano portato la tradizione a identificarlo col maniero della Bella Addormentata. Da questa suggestione nacque l'idea di ospitare, nel cammino di ronda dell'edificio, una serie di tableaux vivants della fiaba (l'idea di ambientare scene interpretate da manichini è comunque estesa anche alla vita nobiliare reale, nei grandi saloni ai piani). Nella sua breve ma bella prefazione a una recente guida monografica su Ussé, il duca Casimir di Blacas, la cui famiglia possiede il castello (e vi risiede) dal 1885, annota che "c'est toujours un plaisir de voir le regard émerveillé des enfants lorsqu'ils visitent notre circuit de La Belle au bois dormant ".
Ma lo sguardo meravigliato di tutti, non solo dei più piccoli, si espande in un altro spazio, quello dei sottotetti restaurati dell'edificio. Qui mobili, oggetti domestici del passato, opere d'arte, fotografie, sono stati accatastati in un geniale progetto, che ha creato una vera e propria installazione site specific, in cui oggetti alla rinfusa acquisiscono nuovi significati grazie alla loro presenza in quella sede, dialogano con lo spettatore alla ricerca di mémoires, e soprattutto rimandano al sonno, alla stasi, della trama della fiaba di Perrault, e ai cento lunghi anni passati dalla bella (e da tutta la sua famiglia, e dalla sua corte, e dalla sua casa).
Tutto è impolverato, in attesa di un risveglio che ci auguriamo non avvenga mai, per non rovinare questo piccolo capolavoro di suggestione, quasi emblema dei temi che in questa sede si affrontano.
Galleria
English abstract
Following the suggestion of my previous contribution in n. 120, I would like to consider here a couple of examples connected to the iconography of the lamentation on a dead (or sleeping) body, and more in general to the different patterns of expression of pain - almost as visual footnotes. The Lamentation of the 'Chaource Master' almost still shows us now the original strategies of emotional engagement of the viewer, based on a strict connection between the images, the location, and the physical experience of the public. From the first half of XVI century to late Romanesque period, with the astonishing project of Lazarus' sepulchre in Autun cathedral. Ussé, in France, is, according to the tradition, the castle of the Sleeping Beauty (probably because Charles Perrault is in fact documented there). A recent restoration of the attics area of the building, where old objects and works of art are presented as left abandoned, evokes the idea of the waiting of something, possibly of an awekening.
keywords | Sleeping beauty; Iconography; Lamentaton; Ussé; Château; Waiting.
Nota bibliografica
Sul 'Maestro di Chaource', e sul suo compianto, cfr. H.H. Arnhold, Die Skulptur in Troyes und in der südlichen Champagne zwischen 1480 und 1540: stilkritische Beobachtungen zum Meister von Chaource und Seinem Umkreis, Freiburg 1992, ed. on line 2004, pp. 31-80 (per il gruppo qui considerato le pp. 46-64, oltre alle pp. 186-189 nel catalogo, ibidem); il compianto è datato 1515, e fu commissionato da Nicolas de Monstier e dalla moglie. Più di recente, si vedano tra gli altri i ripetuti interventi di V. Boucherat, nel catalogo Le Beau XVIe siècle: Chef-d'œuvre de la sculpture en Champagne, catalogo della mostra, Paris 2009 (alle pp. 165-173 soprattutto), L'atelier du Maître de Chaource: un art ouvert sur l'exterieur, «L'Object d'art - L'Estampille», 42, 2009, pp. 36-43, L'Art en Champagne à la fine du Moyen Âge. Productions locales et modèles etrangers (v. 1485 - v. 1535), Rennes 2005, pp. 157-173, e da ultimo Les références judaïques du Maître de Chaource et de son atelier, in Ars auro gemmisque prior. Mélanges en hommage à Jean-Pierre Caillet, a cura di C. Blondeau, B. Boissavit-Camus, V. Boucherat, Zagreb 2013, pp. 353-362. Molti contributi su questo scultore sono poi apparsi nella rivista «La vie en Champagne»: come C. Peltier, Regards croisés entre les productions du Maître de Chaource et de Juan de Juni, 71, 2012, pp. 24-29, e R. Fosset, Nouvelle approche da La Mise au Tombeau de Chaource, 2013, pp. 33-43. Precoce apprezzamento nella storia critica italiana è G. Marinelli, Aspetti della scultura francese alla fine del Medioevo: il Maître de Chaource, «Emporium», 139, 1964, pp. 3-8. Per la complessa vicenda del mausoleo di Lazzaro nella Cattedrale di Autun, le cui sculture intere rimasteci sono oggi magnificamente esposte al Musée Rolin della città (che ne conserva molti altri frammenti) vedi Le tombeau de Saint Lazare et la sculpture romane à Autun aprés Gislebertus, catalogo della mostra, Autun 1985, e soprattutto il fondante N. Stratford, Le Mausolée de saint Lazare à Autun, pp. 11-38 (il passo citato è una mia traduzione di parte delle pp. 16-17), ripubblicato assieme al Recueil des sources pour l’étude du Mausolée de saint Lazare in Studies in Burgundian romanesque sculpture, 1, London 1998, pp. 317-371. L'esame tecnico e materiale delle sculture e dei frammenti della struttura architettonica, che mette in evidenza straordinari effetti ottenuti dalla polimateritcità e dall'arricchimento pittorico, non pochi paragoni stilistici, l'analisi dell'impiego dell'en ronde bosse, e confronti iconografici, portano a collocare l'opera del Martinus monachus citato in un'epigrafe, e degli altri artisti che lavorarono al complesso, attorno al 1135-50, piuttosto che negli anni Settanta-Ottanta del XII secolo come si è pensato per molto tempo, in assenza di una documentazione dirimente. La struttura, con pochi o forse nessun vero paragone in area europea coeva, da una parte pare guidata da una ricerca protofilologica verso le forme presuntive dell'Antico (col solito sguardo globale con cui non si distingueva tra età classica, tardoimperiale e paleocristiana), e dall'altra, forse, da quell'idea di 'replica funzionale' dei siti e degli arredi dei luoghi santi gerosolimitani e delle altre città della Terra Santa che sappiamo attivissima nel XII secolo. Sul castello di Ussé, S. Lamirault-Sorin, Le Château d'Ussé, mémoire de maîtrise d'histoire de l'art, université François Rabelais (Centre d'études supérieures de la Renaissance), 1995; eadem, Entre gothique et Renaissance: la chapelle collégiale du château d'Ussé, «Art sacré», 14, 2001, pp. 62-73; oltre alla guida che cito nel testo, Château d'Ussé («Connaissance des Arts», h. s. 454), Paris 2010. Le immagini sono di chi scrive.
Per citare questo articolo / To cite this article: F. Lollini, I compianti, la Bella Addormentata e le altre, “La Rivista di Engramma” n. 122, dicembre 2014, pp. 22-34 | PDF di questo articolo