Une indication occulte: La Belle au bois dormant e il balletto in poche parole
Stefano Tomassini
English abstract
In this supposed choreographic work there isn’t any sort of plot. It is summed up in a few words: they dance, fall asleep, and dance again. They wake up and once again start dancing. There is no peripeteia, no development of the plot, no interest to seize the spectator, to force him to follow the play’s action.
Peterburgskaya gazeta (5 gennaio 1890)
Par la mise en scène de ce ballet, j’ai failli tuer mon entreprise théâtrale à l’étranger. Cette mésaventure me servit de leçon: je vois en elle une indication occulte, car toute notre vie est faite de ces indications, que ce n’est pas mon affaire et qu’il ne m’appartient pas de m’occuper de la reconstitution des triomphes d’antan!
Serge Diaghilev
È stato un dogma del modernismo. Oltre che una grande lezione di metodo: i trionfi del passato non si dispiegano nel presente con la facilità dei ritorni. Il calcolo mette sempre in causa, almeno, l’aleatorietà dell’interesse. È questo un rischio capace di vanificare tutto il profitto della riuscita quando l’impresa commerciale ("la reconstitution"), pur fastosa e prestigiosa, non è più che un’autoreferenziale ricorrenza della lontananza.
Il nuovo, invece, ha da dialogare con il nuovo. È stato sempre questo il credo più vero, e ripagante, della ventennale vita creativa dei Ballets Russes (1909-1929), la più influente e significativa compagnia di danza la cui esperienza è all’origine della nascita del balletto moderno (Garafola 1989 e 1998).
La disavventura cui allude l’impresario Serge Diaghilev, qui nella seconda citazione d’apertura, ricorre per il revival del balletto La Belle au bois dormant che egli tentò nel 1921 a Londra, a partire dal 2 novembre presso l’Alhambra Theatre, con un cast di vero rispetto. Comprendeva, oltre a Olga Spessivtseva (Aurora) e Pierre Vladimirov (Principe), addirittura Carlotta Brianza (1867-1930) nel ruolo della fata Carabosse, quest’ultima già interprete del ruolo di Aurora nella edizione pietroburghese di Marius Petipa per i Teatri imperiali (1890, dal racconto di Perrault, libretto e costumi del marchese Ivan Vsevolozhsky).
Col titolo The Sleeping Princess, le coreografie furono affidate a Nikolai Sergeyev, regisseur proveniente dal Marinsky e che provò a ricostruire quelle originali di Petipa secondo le notazioni originali sugli spartiti ch’egli aveva portato con sé: si tratta delle notazioni nel sistema che Vladimir Stepanov, ballerino e pedagogo pietroburghese, ideò e che fu adottato dai Teatri Imperiali al ritiro di Petipa, per conservarne l’eredità e il repertorio. Il trasferimento di questo mateiale in Occidente, da parte di Sergeyev, permise per la prima volta una approfondita conoscenza dell’eredità del balletto imperiale in Occidente; le riprese londinesi di questo repertorio di classici russi da parte di Sergeyev sono all’origine della formazione del repertorio classico del Royal Ballet. E con la collaborazione coreografica di Bronislava Nijinska, appena rientrata dalla Russia, già non più imperiale, per le nuove parti integrate e le variazioni aggiunte. Le scene e i costumi, fastosi e ancóra imperiali, furono di Léon Bakst, e le musiche originali di Tchaikovsky furono orchestrate nelle parti non comprese nella partitura d’orchestra, e integrate in quelle mancanti, addirittura da Igor Stravinski. Tuttavia, l’intera operazione non ebbe un grande successo. E a dispetto delle sue centoquindici repliche, la produzione fu soprattutto un collasso economico. In termini culturali, non servì nemmeno a diffondere sulle scene musicali europee l’opera di Tchaikovsky: "œuvre si lumineuse", secondo Stravinski, la cui "écriture franche et sans artifice de sa musique" possedeva il raro dono "de la mélodie" (Igor F. Stravinsky à Diaghilev, Paris, 10 octobre 1921, in Diaghilev 2013, 430). Ma come scrisse Diaghilev, conosciuto e ammirato "trop tard en Europe" (Diaghilev 2013, 47). Troppo tardi, appunto. Alle attrattive aristocratiche della melodia erano già subentrati, nel baricentro dell’Europa di allora, i contrasti e le dissonanze delle masse. Lo si legge, in fondo già profeticamente, nella sorprendente testimonianza della stessa Nijinska:
I started my first work full of protest against myself. I had just come back from Russia in revolution, and after many a production of my own over there, the revival of the Sleeping Princess seemed to me an absurdity, a dropping into the past, mere nonentity (Nijinska 1937, 617).
Quella "mera inesistenza" di un ritorno al passato era già l’assurdo prezzo, l’interesse appunto, da pagare per le rivoluzioni sociali e i conflitti armati che altrove avevano iniziato a contagiare il secolo fino poi a devastarlo. Così come l’"indicazione occulta" di cui scrive, più o meno consapevolmente, Diaghilev è forse proprio questa: anche nelle ricostruzioni di un balletto di repertorio, nell’idea di passato ch’esso si porta appresso, non esiste alcuna neutralità politica.
Per la storia della Russia postrivoluzionaria, Christina Ezrahi, nel suo libro Swans of the Kremlin: Ballet and Power in Soviet Russia, descrive con precisione questa apertura dei bastioni dell’alta cultura imperiale zarista alle masse sovietiche, in cui però il balletto del vecchio repertorio (l’unico disponibile in epoca di guerra civile) non si trasforma in una esperienza di risveglio della coscienza socialista ma rappresenta soltanto una fuga dagli orrori della realtà rivoluzionaria. Nei primi anni dopo la rivoluzione, gli ex Teatri Imperiali sono spesso sotto minaccia di chiusura, sia perché considerati distanti e irrilevanti per la vita contemporanea e sia perché troppo costosi per il nuovo stato. Ma nel 1922 la loro chiusura risulta meno conveniente di un drastico taglio dei sussidi, e questo mantiene in vita anche la polemica ideologica sulla legittimità della loro sopravvivenza. Nel 1925 Anatoly Lunacharsky, responsabile della cultura, sostiene il ruolo fondamentale del balletto, sia artistico che sociale, nel futuro del socialismo: la preservazione della cultura prerivoluzionaria avrebbe accompagnato e favorito la nascita di una cultura autenticamente proletaria. Ma il controllo ideologico e la missione educativa che prevalsero nelle successive politiche culturali già si annivadano nell’inclinazione pluralista, ed essenzialmente religiosa, del credo di Lunacharsky: la cultura del passato, ora rivolta alle masse, si deve preservare come una sorta di training artistico su cui far progredire gli standard tecnici e costruire gli spettacoli di massa del futuro nuovo uomo socialista: "The harmony, precision of ballet movements, the full control over one’s body, the full control over the lively mass – here is the pladge of the great role that ballet can have in the organization of such performances" (cit. in Ezrahi 2012, 28).
L’educazione delle masse attraverso la civilizzazione del passato passa così attraverso le insidie ideologiche della futura propaganda che ritrova nel balletto le armi per un nuovo disciplinamento. Con la campagna del 1936 contro ogni formalismo, su tutti Svetlyi rechei (The Bright Stream o The Limpid Stream) di Fyodr Lopukhov e Dmitri Shostakovich, il balletto diventa un ‘apprendista’ del dramma, e come risultato della negoziazione con l’estetica del socialismo reale nasce il genere del dramaticheskii balet o dramabalet: "During the era of drambalet, which lasted from the mid-1930s until the cultural Thaw in the 1950s, full-lenght narrative ballets became the only acceptable type of ballet production" (Ezrahi 2012, 32).
La richiesta, dunque, di contenuto drammatico nel balletto socialista, con largo spazio ai valori di propaganda sociale ed educativa, sembrerebbe arginare ogni interesse per un racconto, invece, fantastico e d’evasione come quello proposto da La Belle au bois dorment. Eppure, dopo "the final imperial production" del 1914, la prima produzione sovietica di Sleeping Beauty curata da Lopukhov è già del 1922, e rappresenta "an attempt to reinstate that legacy as Russia’s civil war ended and the new administration solidified its power" (Scholl 2004, 103).
Tim Scholl, nel suo fondamentale studio Sleeping Beauty, a Legend in Progress esamina il ruolo fondamentale di questo balletto nel plasmare la storia della danza russa e poi sovietica nel corso di un intero secolo, e come la stessa evoluzione di questo balletto sia stata influenzata dalla storia di questa forma d’arte. A partire dall’edizione del 1890, come riportato dalla recensione citata per prima qui in apertura, la ricezione spesso critica di Sleeping Beauty ha riguardato quattro prevalenti piani: la natura sinfonica della musica, la banalità del plot ottenuto da un racconto per l’infanzia e per di più francese, il lusso e lo splendore ‘eccessivo’ dei costumi e del décor, la scelta di un genere basso (la fiaba) e non nazionale per un balletto destinato alle scene dei Teatri Imperiali. Perché l’arte del balletto era considerata ‘cosa’ russa, cemento dell’identità patriottica ed emblema ‘splendente’ della natura gerarchica del potere zarista: "Like the balletomane’s objections to the music for Sleeping Beauty, their criticism of the fairy-plot – and its foreign origins in particular – highlight anxieties concerning the nationalism of the art form" (Scholl 2004, 12).
Ma poiché, come abbiamo già visto, la lontananza non ha alcun diritto sulla propaganda quando il ritorno del passato rivela la sua natura politica, anche le riedizioni sovietiche di Sleeping Beauty reinscrivono e insieme conservano la tradizione in tutta la sua mobilità poetica con tutto il suo apparato ideologico, accompagnando di fatto la crescita della nuova burocrazia socialista.
Negli anni cinquanta, infatti, alle banalizzazioni pseudorealistiche della danza pantomima che pervade il drambalet alcuni scrittori incominciano a contrapporre "the ability of symphonic music and classical dance to express profound but generalized truths that cannot easily be captured in words" (Scholl 2004, 113). Ecco allora che le ragioni di una danza autonoma, pura, contenuta nell’esile trama di un fairy tale si riaffacciano, agli albori della guerra fredda. Si tratta delle riedizioni nel secondo dopoguerra, molto approssimative, date a Mosca nel 1944 e a Leningrado nel 1947. Ma soprattutto, poi, con pretese filologiche meno cursorie anche se non meno confuse come ben dimostra Scholl, nell’edizione del 1952 curata da Konstantin Sergeyev per il Kirov di Leningrado, rimasta poi per tanto tempo esemplare.
Ancóra: alla fine degli anni novanta del secolo scorso, quando la voga della cultura prerivoluzionaria riprende voce nella ri-nominata San Pietroburgo, la compagnia di balletto del(l’ex-Kirov) Maryinsky, grazie soprattutto a Sergei Vikharev e Pavel Gershenzon, "decided to reclaim another portion of its history: a reconstruction of the 1890 production of Sleeping Beauty, with sets and costumes built from the original designs and choreography revised from the choreographic notations recorded in the theater a century earlier", la più parte oggi conservati presso la Harvard Theatre Collection (Scholl 2004, VIII). Giustamente Tim Scholl considera i ritorni di questo balletto come esemplari per la conquista dell’autonomia della danza come arte, ma anche per ribadire tutti i tranelli di una identificazione nazionalista del balletto nella continua rinegoziazione del suo illustre passato, svelandone insieme la più grande contraddizione: "the possibility for a discussion of the revived 1890 production and its merit elicited a brief ritual silence followed by a mass of contradictions" (Scholl 2004, 171). Forse perché di nuovo, insieme al rigore e all’ossequio della ricostruzione converge, ancóra qui, nel 1999, la superstizione di "une indication occulte": riattivare il passato in tutta la sua documentata (e archiviata) grandezza coincide con la profezia già in atto di una presunta (voluta tale) nuova rinascita politica. La Russia di Putin. Il silenzio di cui scrive Scholl è forse eloquente. E non si potrebbe pretendere miglior finale.
Tuttavia, per la danza contemporanea di oggi, afflitta dalle malìe delle (ri)costruzioni storiche, dai ritorni interessati al passato, dall’indistinta sovrapposizione tra verità filologica e linearità della storia, quando non di baratto del presente, sentito come saturo e immobile, con lo splendore ideale, invece sempre disponibilissimo, del passato, viene forse da chiedersi: ma non è un po’ come credere di mettere al mondo il futuro battendo il ritmo con le mani sullo sterno di un cadavere?
English abstract
The starting point of this review is the failure of Diaghilev to restaging the Imperial Ballet Sleeping Beauty (Petipa, 1890) in London on 1921. In this case, the past it’s not more than a self-referential recurrence of the distance, because there is not a present for the past beyond any political intent. Focusing on two books about the Ballet History in the Soviet and Post-Soviet age, like those of Christina Ezrahi (Swans of the Kremlin, 2012) and Tim Scholl (Sleeping Beauty, a Legend in Progress, 2004), all attempts to reconstruction of The Sleeping Beauty, especially for the 1922, 1952, and 1999 productions, lead always to great contradictions. At the end, the collision of the past with the present in the new and old ballet as an art form engendered a certain speechlessness.
keywords | Sleeping Beauty; Ballet; Diaghilev; Petipa.
Bibliografia
- Nijinska 1937
Bronislava Nijinska, Reflections About the Production of Les Biches and Hamlet in Markova-Dolin Ballets, in «Dancing Times», February 1937. - Garafola 1989, 1998
Lynn Garafola, Diaghilev’s Ballets Russes, New York, 1989 e 1998. - Scholl 2004
Tim Scholl, Sleeping Beauty, a Legend in Progress, New Haven and London, 2004. - Ezrahi 2012
Christina Ezrahi, Swans of the Kremlin: Ballet and Power in Soviet Russia, Pittsburgh, 2012. - Diaghilev 2013
Serge Diaghilev, L’art, la musique et la danse. Lettres, écrits, entretiens, édité par J.-M. Nectoux, I. S. Zilberstein et V. A. Samkov, Paris: Centre national de la danse, Institut national d’histoire de l’art, 2013.
Per citare questo articolo / To cite this article: S. Tomassini, Une indication occulte: La Belle au bois dormant e il balletto in poche parole, “La Rivista di Engramma” n. 122, dicembre 2014, pp. 72-78 | PDF di questo articolo