Chi gratterà il dipinto della battaglia d'Arbela, per trovare sulla tela
e sotto il colore la gabbia di ferro di Callistene?
François-René de Chateaubriand, Memorie dall'Oltretomba, 1849-1850
Alexandre Dumas, il mosaico di Pompei e "la storia di un povero folle"
1842-1843. Alexandre Dumas pubblica Le Corricolo, in cui rievoca il viaggio che ha effettuato da Roma a Napoli otto anni prima, nel 1835. Il racconto, già molto vivace per l'effervescenza di una penna in quegli anni particolarmente ispirata, è arricchito da una strepitosa descrizione degli strani comportamenti del milieu culturale partenopeo, che appare ben curioso agli occhi del colto turista francese, cartesiano e illuminato.
I capitoli 39 e 40 di questo singolare e scoppiettante diario di viaggio sono dedicati alla Casa del Fauno di Pompei, da poco riportata alla luce con le sue straordinarie decorazioni parietali in stucco dipinto e i suoi eccezionali mosaici. Fra i quali emerge, tesoro fra i tesori, quello che gli scavatori hanno già battezzato "il gran musaico", con la grande scena della Battaglia, che Dumas racconta così:
Il grande mosaico è stato scoperto nel 1830: era l'anno delle rivoluzioni [...] Ora, la nostra lotta si è calmata [...] Tutto si placa, del resto, sotto la lenta e sorda pressione del tempo. Ma non è stato così a Napoli. Gli studiosi formano una specie a parte, ben più testarda, ben più tenace nell'astio e nel cavillo delle altre razze. I rancori politici non sono nulla, se paragonati a quelli archeologici, per un semplice motivo: i rancori politici uccidono, mentre quelli archeologici si limitano a ferire. È una cosa terribile, il grande mosaico! [...] Nessuna delle dieci spiegazioni che finora gli sono state dedicate è stata riconosciuta come veritiera: si sa quello che esso non rappresenta, ma ancora non si riesce a dire con certezza che cosa invece rappresenti. Mi piacerebbe avere un pennello al posto della penna, per poter farvi un disegno di questa grande opera, e chissà che da tale disegno non risulti un'undicesima interpretazione e che questa non si riveli poi quella giusta! Numero Deus impare gaudet.
In assenza di un disegno, bisogna dunque che il lettore si accontenti di una descrizione. Il grande mosaico, che può misurare sedici piedi di larghezza su otto di altezza, rappresenta una battaglia. L'artista ha scelto il momento supremo e decisivo in cui la vittoria si dichiara per uno dei due eserciti, vittoria determinata dalla caduta di uno dei personaggi principali. I due capi delle due armate sono l'uno davanti all'altro.
L'uno, che sembra avere una trentina d'anni, monta un cavallo di quelli belli ed eroici come ne aveva scolpiti Fidia nel fregio del Partenone. Egli è a testa nuda, porta i capelli corti e delle basette che si raccolgono sotto il mento ed ha come armi difensive una corazza riccamente decorata con maniche di stoffa ed una clamide che, passando sopra la spalla sinistra, ricade ondeggiando dietro di lui. Le sue armi offensive sono la spada, che egli porta al suo fianco, e la lancia, che regge con la mano e con la quale trafigge uno dei generali nemici. Quest'ultimo, ostacolato dal cavallo abbattuto sotto di lui, non ha potuto evitare il colpo e si aggrappa, torcendosi dal dolore, alla lancia del suo avversario. Sono la caduta e soprattutto la ferita terribile di questo cavaliere che sembrano decidere dell'esito della battaglia. Quanto al vincitore, egli occupa il primo piano del lato sinistro del grande mosaico. Dietro di lui si vedono tre o quattro cavalieri che, armati allo stesso modo, appartengono evidentemente allo stesso esercito. Del resto, vengono da dove viene lui, e vanno nella stessa direzione.
L'altro capo è dritto su un carro trainato da quattro cavalli ed occupa il lato opposto della scena. Ha la testa avviluppata in un copricapo che, dopo avergli avvolto la fronte, passa sotto il suo collo. Porta una tunica a maniche lunghe ed un mantello appuntato sul petto e ricadente sulle spalle; tiene nella mano sinistra un arco e tende la destra verso il cavaliere ferito, in atteggiamento di partecipazione e di terrore. Il suo cocchiere, che regge le redini con la mano sinistra, forza i cavalli a volgersi in direzione opposta allo scontro in atto e li spinge alla fuga sferzandoli con la destra. Un quarto personaggio, collocato come i tre precedenti in primo piano, tiene per le briglie un cavallo che sembra voler offrire al capo che è sul carro, quasi a suggerirgli un mezzo più sicuro per salvarsi, data l’evidente difficoltà per il carro di farsi strada attraverso i morti, i feriti e le armi di cui il campo di battaglia è pieno.
Lo sfondo della scena è occupato dai soldati del secondo capo, uno dei quali porta uno stendardo mentre gli altri, sacrificandosi per il loro generale, si slanciano fra questo ed il generale nemico. Al disopra della mischia si eleva un albero spoglio. In totale ci sono ventotto combattenti e sedici cavalli, tutti all'incirca di un terzo più piccoli della taglia di un uomo normale. Purtroppo questo splendido mosaico era stato danneggiato dal terremoto dell'anno 63 ed era in restauro al momento dell'eruzione del 79 [...] Ebbene [...] l'interpretazione [del soggetto] è diventata un argomento straordinariamente interessante. Rendetevi conto: un enigma scientifico da spiegare, un problema archeologico da risolvere! Che grande fortuna per gli studiosi!
Perciò tutti si sono precipitati sul grande mosaico e ciascuno vi ha visto una battaglia diversa. L'opinione generale ha preteso che si trattasse della battaglia di Isso, fra Dario ed Alessandro. Il signor Francesco Avellino ha ribadito che invece si trattava della battaglia del Granico. Il signor Antonio Niccolini ha detto che era la battaglia di Gaugamela. Il signor Carlo Bonucci ha preteso che l'argomento fosse invece la battaglia di Platea. Il signor Marchand ha detto che era la battaglia di Maratona. Il signor Luigi Vescovali ha detto che vi si narrava della disfatta dei Galli a Delfi. Il signor Filippo de Romanis ha sostenuto che si trattava dell'incontro fra Druso e i Galli a Lione. Il signor Pasquale Ponticelli ha detto che si trattava della disfatta di Tolomeo ad opera di Cesare. Il marchese Arditi pretende che vi si racconti la morte di Sarpedonte. Infine, il signor Giuseppe Sanchez vi vede un combattimento fra Achille ed Ettore. C'è di che scegliere, non vi pare? Ebbene, non si tratta di nulla di tutto ciò [...].
[l'Autore procede confutando una ad una le suddette ipotesi]
Ora, io potrei proporre un'undicesima interpretazione, come hanno fatto gli studiosi italiani, ma non darò loro questa soddisfazione. Racconterò loro invece la storia di un povero folle che ho conosciuto a Charenton [un asilo per malattie mentali dell'epoca, situato alle porte di Parigi, ndt], e che mi è sembrato non solo più saggio, ma addirittura più logico di tutti loro. La sua follia era di credersi un grande pittore, e a suo avviso aveva appena dipinto il suo capolavoro.
Tale capolavoro, ricoperto da una tela verde, egli l'aveva intitolato Gli Ebrei al passaggio del Mar Rosso.
Il poveretto vi conduceva davanti al capolavoro, sollevava la tela verde e lasciava così apparire una tela bianca.
– Vedete, diceva, ecco il mio dipinto.
– [...] Che rappresenta? Domandava il visitatore.
– Rappresenta Gli Ebrei al passaggio del Mar Rosso.
– Ma scusate! E dov'è il mare?
– Si è ritirato.
– Dove sono gli Ebrei?
– Sono appena passati dall'altra parte.
– E gli Egiziani?
– Stanno arrivando.
Ed ora ditemi: gli studiosi italiani che abbiamo appena citato sono forse saggi e soprattutto logici quanto il mio folle di Charenton?
Pompei: la scoperta del mosaico di Alessandro
1831. A Pompei si scavava ormai già da quasi un secolo: l'avventura archeologica che aveva appassionato il mondo era ufficialmente iniziata nel 1748. La vecchia città romana sepolta dall'eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. ritrovava progressivamente la luce; le case, gli edifici pubblici, i monumenti che venivano fuori dallo spesso strato di interro vulcanico ricevevano di volta in volta un nome che ne avrebbe costituito in qualche modo, nella pianta che si andava disegnando, l'indirizzo.
Nel 1830 era stato deciso di dare il nome di Wolfgang Goethe, allora ottantaduenne, a una casa che si rivelasse degna del grande poeta tedesco. Si intendeva così non solo onorare il letterato, ma anche ricordare la visita assai precoce che questi aveva dedicato alla città vesuviana nel 1787. Un edificio situato lungo la via di Nola, il cui scavo era stato iniziato proprio in quell'anno e che era parso rispondere ai requisiti richiesti, era stato pertanto solennemente chiamato "Casa di Goethe". Il vecchio poeta seguiva da lontano l'andamento dei lavori, regolarmente informato dal figlio e dall'amico Wilhelm Zahn che erano sul posto.
Era il 24 ottobre 1831 quando comparve, sotto le pale e i picconi degli scavatori, il primo lembo di quello che era destinato a ricevere il nome di Gran Musaico. Quattro mesi dopo, nel febbraio 1832, Goethe ricevette una lettera dell'amico Wilhelm Zahn, il quale gli annunciava che nella casa di Pompei che si scavava in suo onore era stato completamente riportato alla luce un mosaico più bello di tutti gli altri ritrovati fino ad allora, e che anzi si poteva considerare come uno dei più belli di tutta l'antichità. Il mosaico della Battaglia era stato riportato alla luce del sole e si apprestava a ricevere l'omaggio del mondo contemporaneo.
Il 10 maggio 1832, dopo aver preso visione del disegno che lo stesso Zahn aveva fatto del mosaico, Goethe dava l'avvio all'innumerevole serie di commenti ammirati che il mosaico avrebbe di lì a poco suscitato affermando con ineguagliata sintesi: "Il presente e il futuro non potranno giungere a dar giusto commento di una tal meraviglia dell'arte e dovremo sempre ritornare, dopo aver spiegato e studiato, al semplice, puro stupore".
Frattanto, in quei mesi febbrili, venivano alla luce nella stessa casa pompeiana, oltre a numerosi oggetti della vita quotidiana e allo scheletro di una donna caduta mentre tentava di fuggire con i suoi gioielli più belli, altri undici mosaici, uno dietro l'altro e uno più pregevole dell'altro. Da quel momento in poi si moltiplicarono i viaggi degli studiosi e degli appassionati d'arte del mondo intero e si infiammarono le discussioni e le proposte di interpretazione e attribuzione per la grande scena della Battaglia che ornava l'exedra posta tra i due imponenti peristilia. La grande casa nel frattempo riappariva progressivamente sotto i colpi di pala e piccone degli scavatori in tutta la sua straordinaria estensione e si rivelava, con i suoi 3000 mq, una delle più grandi non solo di Pompei, ma di tutto quanto si conoscesse del mondo antico.
Agli occhi dei fortunati addetti ai lavori essa mostrò un'austera e aristocratica decorazione parietale in stucco degna dei grandi palazzi ellenistici (Dumas 1843, 39; Breton 1870) destinata purtroppo a scomparire progressivamente per via della mancanza di una protezione adeguata, impensabile all'epoca e che tuttavia ne determinò (come è successo praticamente per tutto ciò che si è scavato a Pompei fino almeno agli anni settanta del Novecento) la definitiva esposizione agli agenti atmosferici e ad altri tipi di attacchi, di natura invece decisamente umana. Ben presto l'edificio fu ribattezzato "Casa del Gran Musaico" proprio dal capolavoro scoperto nella grande exedra e poi in via definitiva Casa del Fauno per la splendida statuetta del fauno danzante che ornava la vasca dell'impluvium. Così l'attribuzione passava dal poeta tedesco, grande protagonista del mondo delle arti, alla statuetta, eclatante manifestazione artistica essa stessa: Goethe, forse, avrebbe approvato. In ogni caso a tutti era apparso chiaro fin dal principio che il "Gran Musaico", come anche gli altri che decoravano, simili a tappeti di tessere colorate, molti degli ambienti della magnifica abitazione, non potevano essere lasciati sul posto. Innanzitutto, perché ciò avrebbe richiesto l'istituzione di un servizio di guardia apposito e costante, ma anche perché tutto l'insieme si sarebbe rapidamente deteriorato. Ma, soprattutto, si era ancora in pieno Ottocento: l'air du temps era tesa alla creazione e all'arricchimento dei musei e delle grandi collezioni di opere d'arte e i mosaici della Casa del Fauno avrebbero, da soli, fatto la fortuna di qualsiasi raccolta museale.
Il trasferimento del "Gran Musaico" dalla Casa del Fauno alla nuova, prestigiosa, sede museale napoletana – il vecchio e immenso Palazzo degli Studi trasformato in Real Museo Borbonico, che apparve agli occhi di tutti come la più naturale delle collocazioni – pose però agli addetti ai lavori un problema del tutto nuovo: le dimensioni dell'opera (che misura 5,12 x 2,71m se si esclude la cornice esterna, con la quale invece si raggiungono i 5,82 x 3,13m), il peso della stessa, la finezza e le piccole dimensioni delle tessere colorate (difficilmente rimpiazzabili con quelle, più grossolane e quasi unicamente bicolori che riempivano le casse, i cosiddetti cofani, sempre a disposizione dei restauratori) rendevano la semplice idea del distacco, del trasporto e del riposizionamento più che ardita.
Con un'operazione di recupero assolutamente eccezionale, nel 1843 il mosaico fu distaccato, trasportato e ricollocato in un solo pezzo nel Real Museo Borbonico, di cui da allora costituisce uno dei massimi tesori e incontestabilmente una delle maggiori attrazioni. Passarono i decenni e con il tempo la fama del "Gran Musaico" si accrebbe: i visitatori accorrevano da tutto il mondo ad ammirarlo.
Girato il torno del nuovo secolo fu attuata una progressiva risistemazione delle collezioni del Museo napoletano, che si erano notevolmente arricchite con il procedere degli scavi dell'area vesuviana e grazie ad alcune prestigiose donazioni: fra il 1912 e il 1915 i mosaici furono separati dalle pitture, cui prima erano uniti, ed esposti in una sezione a essi unicamente dedicata il cui fulcro fu, ovviamente, il "Gran Musaico". Collocato nell'agosto 1915 a parete, come un quadro, in uno spazio grosso modo corrispondente alle dimensioni della sala in cui era stato trovato e circoscritto da un prospetto a due colonne corinzie riproducente quello originario, da un secolo esso è là, ad attirare l'ammirazione e lo stupore del pubblico. Quanto all'exedra della Casa del Fauno, solo di recente si è vista restituire il capolavoro di cui era stata privata da più di 170 anni: il 6 ottobre 2005, con una adeguata celebrazione, una superba copia del mosaico è stata infatti rimessa in opera nell'alloggiamento originario.
Ma cosa rappresenta la grande scena del mosaico di Alessandro? Qual è il soggetto di quell'immenso quadro di tessere colorate, denso di personaggi e di oggetti e quasi del tutto privo di ambientazione paesaggistica? Senza dubbio si tratta di una scena di battaglia e diversi elementi concorrono a identificarne i protagonisti. Gli elmi dei guerrieri che occupano il settore sinistro della rappresentazione, le lunghe lance usate nello scontro, l'armatura riccamente ornata del cavaliere a testa nuda dominante tutta questa parte della scena ci dicono che si tratta dell'armata di Alessandro III di Macedonia, guidata all'assalto dallo stesso Condottiero. Dall'altra parte, l'abbigliamento degli uomini in armi che circondano protettivamente il grande carro da guerra e la figura che su tutte attira lo sguardo dello spettatore, quell'uomo volto all'indietro sul suo carro lanciato in corsa dall'auriga che sferza i cavalli, ci rivelano che si tratta dell'esercito e dello stesso Gran Re dei Persiani, Dario III Codomano, il nemico contro cui il Macedone lanciò, nella seconda metà del IV secolo a.C., la sua imponente campagna militare con una delle più grandi spedizioni armate dell'antichità.
Ma di quale battaglia si tratta? Le fonti storiche greco-romane sulle quali si basa la nostra conoscenza di questi eventi ci dicono che Alessandro incalzò Dario fin nel profondo del suo stesso territorio, battendone ripetutamente l'armata e costringendolo per ben due volte alla fuga (per una ricapitolazione della campagna militare di Alessandro vedi, da ultimo, Auberger 2001): una situazione che, nel mosaico, appare suggerita dalla posizione del carro del Gran Re, rivolto nella direzione opposta all'impeto di Alessandro e al combattimento in corso fra i due gruppi di armati.
La prima volta, Dario si sarebbe risolto alla fuga nel corso della battaglia di Isso, ora in Turchia, nel 333 a.C.; la seconda, ciò sarebbe successo a Gaugamela, nell'attuale Iraq (non lontano dalle rovine della mitica Ninive) nel 331 a.C.; ultimo atto, questo, del loro scontro personale, perché in seguito Alessandro incontrò nuovamente il Re dei Re soltanto come corpo senza vita, ucciso a tradimento nel 330 a.C. da uno dei suoi uomini, il satrapo Besso, all'annuncio del sopraggiungere del Macedone.
Il dipinto, o piuttosto il ricordo del dipinto, contenuto nell'opera di Plinio (Naturalis Historia 35, 110) ci restituisce il giudizio di un'opera "seconda a nessun'altra" raffigurante "una battaglia fra Alessandro Magno e Dario" che uno dei successori del Macedone, Cassandro, avrebbe commissionato al pittore Philoxenos di Eretria. La testimonianza di Plinio ha rappresentato senz'altro l'elemento principale nella costituzione della lettura critica, solo raramente messa in dubbio in seguito, del soggetto raffigurato nel mosaico e del suo autore (Fuhrmann1931; Bianchi Bandinelli 1977, 471, 475-476, 478; Moreno 2000). Il mosaico pompeiano sarebbe dunque una copia di tale dipinto, ammirevole soprattutto per la resa pittorica del contenuto – e dunque, presumibilmente, per l'alto grado di approssimazione all'originale.
Nei primi tempi dopo la scoperta, nel crepitare delle discussioni che questa aveva stimolato fra gli studiosi, molte furono le voci che si levarono a suggerire questo o quell'argomento alla base dell'opera: si è visto come nel Corricolo – pubblicato nel 1843, e dunque a poco più di un decennio dal ritrovamento dell'opera – Alexandre Dumas avesse elencato già ben dieci teorie diverse concernenti il soggetto del mosaico. In un primo tempo sembrò prevalere l'ipotesi che identificava la battaglia rappresentata nel mosaico pompeiano con quella di Gaugamela, cioè quella definitiva fra Alessandro e Dario, chiamata anche "la battaglia di Arbela" dal nome del villaggio più vicino al campo di battaglia (oggi Erbil, nel nord dell'Iraq, torturata dai più recenti eventi bellici). Molto presto tuttavia gli storici e gli archeologi si focalizzarono sulla battaglia di Isso, la prima delle due in cui, secondo la vulgata storiografica Alessandro avrebbe messo in fuga il Re dei Re. In seguito, soltanto di rado quest'ultima interpretazione è stata messa in discussione: c’è chi ha preferito nuovamente rivolgere l'attenzione al successivo scontro di Gaugamela, e chi ha ritenuto che invece la scena non rappresenti una battaglia in particolare, ma piuttosto una sintesi del supremo scontro fra i due sovrani e i due mondi opposti – quello greco/macedone e quello persiano – che Alessandro e Dario rappresentavano (Hölscher 1973, 122-162; Andreae 1977; Bianchi Bandinelli 1977, 471; Nylander 1983, 19-37; Zanker 1993, 49; Barbet 2001, 126; Moreno 2000, 9-10 e 83-87).
Nel corso del XX secolo gli studiosi si sono dedicati soprattutto all'analisi tecnica ed estetica del mosaico fino al consolidamento dello status quaestionis secondo cui l'opera – un mosaico in opus vermiculatum, composto di oltre un milione e mezzo di finissime tessere di pietra nella tecnica detta 'del tetracromismo' sulle tonalità del bianco, rosso, giallo, azzurro/nero – sarebbe la riproduzione di un dipinto databile forse già alla fine del IV sec. a.C., realizzata con straordinaria maestria da una bottega di mosaicisti tra la fine del II e l'inizio del I secolo a.C.
L'eccezionale copia romana, nonostante il rilievo di qualche sbavatura e qualche scollegamento, qualche fraintendimento o alterazione (dovuti o all'impiego di 'cartoni' rappresentanti singole parti dell'opera che gli artigiani dovettero usare come guida, oppure alla necessità di compattare le figure in uno spazio più ristretto di quello occupato dall'originale, oppure ancora a semplice disattenzione da parte dei copisti) probabilmente non tradisce il suo antigrafo pittorico. L'impeto drammatico della battaglia è reso in modo prodigioso da un lato attraverso il legame che sembra crearsi fra gli sguardi dei due sovrani, dall'altro attraverso la minuziosa descrizione della furibonda mischia di uomini, cavalli e armi confusi eppure distinguibilissimi in un sapiente gioco di piani sovrapposti, sottolineato dalla selva di lance puntate verso l'alto e dallo squallore dell'albero spoglio, unico elemento paesaggistico di tutta la scena.
La coerenza del lavoro sui colori e sull'alternanza d'ombra e di luce, mediante il ricorso audace alla tecnica dello sfumato che consente un inedito effetto di modellato, nonché l'eccezionale realismo sia degli equipaggiamenti militari che delle espressioni dei volti, iscrivono il mosaico a buon diritto fra le migliori realizzazioni dell'arte musiva di tutti i tempi, facendone un pezzo di assoluta eccezione (Charbonneaux, Martin, Villard 1970, 116-118; Bianchi Bandinelli 1977, 471-476; De Caro 1991, 348; Martin 1994, 531).
Ancora oggi è aperto e dibattuto il problema relativo al luogo di esecuzione del mosaico: a chi ritiene che esso sia opera eseguita in loco da un gruppo di mosaicisti itineranti (le tessere sono almeno in parte in calcare locale; indubbie similitudini avvicinano il mosaico di Alessandro a quello 'nilotico' rinvenuto nella seconda metà del Cinquecento a Palestrina, le cui grandi dimensioni escludono che sia stato eseguito altrove e poi trasportato; le stesse sbavature cui si accennava poc'anzi dimostrerebbero che la copia fu eseguita direttamente nell'ambiente della Casa del Fauno) si contrappone chi sostiene invece che l'opera sia stata eseguita e acquistata altrove, poi trasportata e collocata con alcuni accorgimenti nella sede pompeiana. Da notare, a favore di questa ipotesi, che un lungo solco separa il gruppo di figure culminanti nel ritratto di Alessandro dall'altro gruppo convergente nella figura di Dario, quasi una frattura creata ad hoc per facilitare il trasporto; varie lacune sembrano essere state colmate una volta sul posto, e giustificherebbero l'impiego di tessere in calcare locale; la cornice che avvolge l'opera è senz'altro opera di artigiani locali, e attesta la necessità di adeguare il mosaico all'esedra cui era destinato (Bianchi Bandinelli 1977, 472-474; Zevi 1996, 44; Moreno 2000, 11-15).
Altro argomento di discussione è stato l'unicità del soggetto, di cui a più di un secolo e mezzo dal ritrovamento non si conoscono altri esemplari o copie dirette, benché siano state trovate repliche in altre tecniche, tutte databili tra la fine del IV e il I secolo a.C. (Moreno 1965; Bianchi Bandinelli 1977, 473; De Caro 1999, 71). In epoca più recente si è ampiamente dibattuto circa l'interpretazione del messaggio che il dipinto originario avrebbe dovuto veicolare, nonché della valenza simbolica di quella battaglia nel senso della supremazia della civiltà greca su quella barbarica e poi, necessariamente, dell'appropriazione da parte romana di questa stessa simbologia (Rizzo 1925-26; Andreae 1977; Nylander 1982, 689-695; Nylander 1983, 219-237; Pesando 1996, 189-228).
Negli anni a noi più vicini il mosaico è stato considerato soprattutto nell'ambito più generale della sua collocazione, cioè l'aristocratica Casa del Fauno a Pompei, nel quadro di una interpretazione globale delle caratteristiche architettonico-decorative dell'edificio e della connotazione sociale dei suoi proprietari all'interno della cittadinanza pompeiana (Hoffmann 1978, 35-41; Zanker 1993, 49-50; Zevi 1991, 47-74; Zevi 1996, 37-47; Zevi 1998, 21-65; Zevi 2000, 118-137; Pesando 1996; Baldassarre-Pontrandolfo-Rouveret-Salvadori 2002, 74-77; Sauron 2009, 22-24). Ma nell'insieme il soggetto del dipinto e poi del mosaico – una battaglia e soprattutto una grande vittoria di Alessandro su Dario – e la sua originaria ragion d'essere – la celebrazione, a vantaggio dei posteri, di tale vittoria – non sono mai più stati messi in discussione.
Marco Polo, Rustichello da Pisa e il Milione
1298. Il veneziano Marco Polo era imprigionato nelle carceri genovesi, dopo la disfatta della flotta di Venezia nella battaglia navale di Curzola (avvenuta il 7 settembre dello stesso anno), dove Marco pare avesse comandato una galera. Ma Marco non era solo un soldato e un marinaio della Serenissima. Era innanzitutto un mercante, della ricca famiglia dei Polo, figlio e nipote rispettivamente di Messer Niccolò e Messer Maffeo. E con loro, già reduci da una prima, avventurosa spedizione in Oriente, egli – appena diciassettenne al momento della partenza – aveva viaggiato dalla sua città natale fino alla lontanissima Cina fra il 1271 ed il 1295, accumulando esperienze e conoscenze, registrando dati e notizie su luoghi e persone come nessun europeo prima di lui, e probabilmente prendendone accuratamente nota durante i lunghi anni di assenza dall'Italia.
In carcere Marco incontrò, prigioniero fin dall'epoca della battaglia della Meloria (1284), un attardato e poco conosciuto narratore di storie cavalleresche di origine toscana: Rustichello da Pisa (Kappler 2004, 19-20; Segre, Martignoni 1991, 311). Fu da questo incontro che probabilmente nacque il Milione (Segre, Martignoni 1991, 357; Scarpari 2005, V-VI): un testo scritto praticamente a quattro mani – e del resto nominato espressamente fin dall'inizio come "nostre livre" dai due co-autori – e consacrato interamente all'eccezionale scoperta dell'Oriente da parte di Marco, che non aveva confronti nel mondo contemporaneo. O forse sì.
Un riferimento possibile, una vaga eco c'era, lontanissima nel tempo ma ancora così presente nelle coscienze e nelle fantasie degli uomini del Duecento, con il suo carico di magnifiche gesta e di personaggi favolosi: la spedizione di Alessandro Magno in Oriente, che da storia si era fatta leggenda e aveva via via raggiunto i confini del mondo conosciuto grazie al perdurare del mito dell'Eroe. E difatti Marco e Rustichello non solo si riferirono diverse volte nella loro opera ad Alessandro e alle sue avventure nelle regioni iraniche, che il veneziano aveva da poco visitato, ma a un certo punto chiamarono direttamente in causa, per confronto, un 'libro di Alessandro', senza tuttavia mai dilungarsi oltre, o dare ulteriori delucidazioni su tale scritto. Probabilmente perché si trattava di un testo che i più già conoscevano.
Il Romanzo di Alessandro
La leggenda può diventare luce per la storia,
perché essa non è che la storia stessa
vista attraverso l'immaginazione dei popoli
Adolphe Bossert, La letteratura tedesca nel Medioevo e le origini dell'epopea germanica, 1893
323 a.C. Alessandro Magno fu colto dalla morte, inattesa e prematura, a neppure 33 anni, a Babilonia. "Alessandro aveva voluto essere dio, egli lo era. Certo non come egli aveva sognato, figlio di Zeus-Ammone, concepito dal mitico serpente. Uomo per nascita, uomo nella morte, ma al disopra dell'uomo per la vita che aveva vissuto": così scriveva James Darmesteter nel XIX secolo (Darmesteter 1878, 83), analizzando la formazione della leggenda intorno alla figura del giovane re all'indomani della sua morte. Perché il conquistatore invitto e inarrestabile, il condottiero entusiasta e mai domo, il geniale innovatore, il trascinatore di armate e di popoli, passò in un attimo dalla storia alla leggenda: gli uomini tutti e le più svariate civiltà si impadronirono infatti dell'immenso materiale costituito dalla sua vita, dalle sue imprese, dai sogni realizzati e da quelli impossibili, dalla sua prematura e fulminea morte, assorbendolo, divulgandolo, riproducendolo, mitizzandolo, esaltandolo. E rendendolo, in tal modo, universale (Briant 1987, 162-163).
Tutte le voci che circolavano sul giovane eroe defunto – i racconti dei soldati che erano sopravvissuti alla spedizione in Asia; i diari degli storiografi ufficiali, incaricati di registrare le imprese del condottiero; i resoconti dei nemici, che avevano assistito sbigottiti all'abbattersi su di loro di un simile tornado; le storie degli abitanti delle aree attraversate dall'armata macedone, che avevano visto con i loro occhi il dispiegarsi di quella straordinaria macchina da guerra – si arricchirono rapidamente, nel passaggio da una bocca all'altra, da un ricordo all'altro, da uno scritto all'altro, di elementi nuovi e di particolari che all'origine non c'erano. E concorsero a creare un'unica, grande leggenda sull'eroe, destinata a sua volta a spezzettarsi in tanti episodi diversi quanti erano stati i momenti e le vicende della sua eccezionale impresa, e quanti furono le regioni, i paesi e perfino i continenti in cui essa si diffuse. Alessandro si trasformò in eroe universale: colui che raggiunge gli obiettivi più impensabili per un essere umano, si spinge al limite estremo della sua natura mortale, esplorandone tutte le possibilità e addirittura sfidandola, e al contempo colui che è in grado di presentarsi come modello agli altri uomini, guidarli e dominarli tutti.
Con il passar del tempo, un testo in particolare emerse fra gli altri svariati racconti in circolazione: il cosiddetto Romanzo di Alessandro attribuito allo Pseudo-Callistene (Centanni 2014, 44-50, con bibliografia precedente) che, assemblato da un insieme di materiali assai disparati già a ridosso della spedizione del Macedone, raccolse in misura molto consistente e con sviluppi molto ampi proprio quegli elementi e quegli aspetti del mito che tanto avevano saputo eccitare gli animi e stimolare le fantasie. Un testo destinato a un successo immenso e straordinariamente duraturo, al punto che durante il Medioevo se ne conoscono versioni e varianti praticamente in tutta l'Europa (dalla Scandinavia alla Spagna, ai Paesi balcanici), in Africa (dove se ne conoscono varianti fino in Etiopia) e in Asia (fino in Azerbaigian, in Mongolia, India, Indonesia). "Dal castello del barone francese alla tenda del nomade arabo", secondo la felice espressione più volte adoperata da James Darmesteter (Darmesteter 1878).
L'area iranica non sfuggì alla diffusione del ciclo romanzato su Alessandro: se ne conoscono laggiù diverse ramificazioni, che investono sia i testi più propriamente letterari sia quelli più schiettamente popolari. Con una particolarità: se il Macedone fu per l'Europa intera e poi per l'Oriente un eroe popolare, in Persia egli divenne addirittura un eroe nazionale. L'orgoglio iranico infatti rifiutò di vedere nel vincitore un nemico conquistatore e gli attribuì una discendenza locale: Iskander (il nome persiano di Alessandro) diventò così il fratellastro di Dârâ (il Dario della storia) figli entrambi dello stesso padre ma di madre diversa. In tal modo lo spirito nazionale era placato: con la vittoria di Iskander la Persia era passata non sotto il giogo del nemico, ma sotto il potere di un capo legittimo almeno quanto il suo predecessore.
Una volta operata questa contaminazione necessaria all'assorbimento della leggenda, quest'ultima si diffuse per ogni dove, nell'immenso territorio del vecchio impero persiano, alimentando per secoli i racconti popolari, le cronache degli storici, la raffinata letteratura di corte. È senz'altro per questa via, cioè attraverso le diverse versioni del Romanzo, noto in diverse versioni e a diverse latitudini linguistiche e culturali, che il racconto delle favolose gesta di Alessandro Magno arrivò a essere noto a Marco Polo e al poeta-trovatore Rustichello: perciò troviamo menzione di Alessandro in molti passi del Milione (Centanni 2014, 36-37).
L'Albero secco nel Milione, nel Romanzo di Alessandro e nel mosaico della Casa del Fauno
1977. Uno dei più grandi nomi dell’archeologia italiana del Nocevento, Ranuccio Bianchi Bandinelli, ricordava in un suo scritto che nel Milione si parla, curiosamente, di una regione che Marco Polo individua a partire da un "albero solo" o "albero secco", e di cui la gente del posto dice che fu teatro di una battaglia fra Alessandro e Dario (Bianchi Bandinelli 1977, 474-475). Più precisamente, nel capitolo XL del Milione è detto estesamente (Kappler 2004, 61):
Quando si parte da questa città di Cobinan si va per un deserto per otto buone giornate [...] ed alla fine [...] si trova una provincia chiamata Tunocain [...] Questa si trova ai confini della Persia verso Tramontana. C'è una pianura molto estesa dove si trova l'Albero Solo che i Cristiani chiamano l'Albero Secco [...] Non c'è alcun albero nei dintorni a meno di cento miglia, eccetto in una direzione in cui vi sono degli alberi a dieci miglia. È là, dice la gente di questa contrada, che ebbe luogo la battaglia fra Alessandro e Dario.
Cobinan corrisponde all'attuale Kūhbonān, a 140 km circa a nord-ovest della città di Kerman, in Iran. Tunocain (o Tonocain, sempre nel Milione) è uno degli otto regni in cui secondo Marco Polo (cap. XXIII) era divisa la Persia all'epoca del suo passaggio. Il toponimo fonde i nomi di due città del Kuhistan: Tûn e Qâin.
Ma anche in altri cinque passaggi del Milione Marco Polo parla di questo, che di volta in volta definisce come l'"Albero Solo" oppure l'"Albero Secco". Nel capitolo XIX si racconta di un'ambasceria di cui i tre Polo furono incaricati verso il 1291-'92 dal Gran Khan Kublai, signore della Cina, alla cui corte i tre Polo soggiornarono per lunghi periodi, e le cui magnificenze Marco descrive con entusiasmo nel suo resoconto di viaggio. Loro compito, tra gli altri, era quello di accompagnare una principessa alla corte del re Argon, Signore del Levante, da poco vedovo e desideroso di riprender moglie. Tuttavia, giunti a destinazione, essi seppero della morte del re e fu chiesto loro:
[...] di consegnare (la donna) a Casan, il giovane figlio di Argon. Quest'ultimo si trovava allora nella regione dell'Albero Secco, ai confini della Persia (Kappler 2004, 46).
Nel capitolo XXXIII si dice:
Tutti questi regni sono verso il Mezzogiorno, tranne uno solo, Tunocain, che si trova presso l'Albero Solo (Kappler 2004, 55).
Nel capitolo CCIII è scritto:
Ora, sappiate che Abaga, il Signore del Levante, dominava numerose province e moltissime terre, e le sue terre confinavano con quelle del re Caidou, dalla parte dell'Albero Solo che nel libro di Alessandro è chiamato l'Albero Secco, fino al fiume Gion (certamente l’Amu Darya; Kappler 2004, 212).
Nel capitolo CCXV leggiamo:
E quando Argon ebbe la signoria in mano inviò suo figlio Casan con trentamila uomini a cavallo all'Albero Secco, cioè in questa contrada, per proteggere e difendere la sua terra e la sua gente (Kappler 2004, 218).
Nel capitolo successivo, il CCXVI, si trova infine:
E quando Argon fu morto, un suo zio... prese la signoria... E potè farlo agevolmente, perché Casan si trovava all'Albero Secco (Kappler 2004, 218).
L'Albero Solo, o Albero Secco, appare dunque nel Milione non soltanto come una pianta specifica, ma anche e piuttosto come un luogo reale, che Marco Polo ricorda di aver visto, sentito definire come tale, conosciuto e attraversato. Un luogo senz'altro in rapporto con la storia iranica a lui contemporanea, che in quella parte del libro egli cercava di spiegare ai suoi lettori, ma allo stesso tempo in rapporto con la grande storia antica, il cui ricordo era ancora ben vivo presso le genti locali.
È singolare che, pur avendo segnalato un elemento così interessante come la presenza di questo mitico albero nel testo medievale, in rapporto proprio con la vicenda dell'antica battaglia fra i Persiani e i Macedoni, Bianchi Bandinelli si sia però limitato solo a dedurne che "la tradizione raccolta da Marco Polo in una regione estranea allo scontro effettivo tra Alessandro e Dario può essere derivata dalla celebrità del quadro di Philoxenos" (Bianchi Bandinelli 1977, 475), e che nessuno dopo di lui – nonostante questa sua indicazione sia stata citata diverse volte per riproporre il tema – si sia dato la pena di approfondire questo argomento.
L'affermazione dello studioso italiano nasceva evidentemente dalla tacita accettazione della consolidata interpretazione erudita del mosaico, che vedeva nell'albero spoglio l'unico elemento paesaggistico di un dipinto attribuito quasi all'unanimità al pittore Philoxenos di Eretria e di cui il mosaico stesso sarebbe una magistrale copia. Tuttavia alcune osservazioni saranno sufficienti a inquadrare meglio il problema, che non è così semplice come si potrebbe evincere dal suggerimento di Bianchi Bandinelli. In primo luogo, non si può dimenticare che fra l'epoca in cui tale dipinto fu presumibilmente realizzato – la fine del IV secolo a.C. – e la missione di Marco Polo erano trascorsi all'incirca 1600 anni: un tempo lungo, perché una tradizione di per sé stessa 'colta', come la notorietà di un dipinto, possa essersi conservata in un'area vasta quanto l'Iran settentrionale, semidesertica, allora come oggi scarsamente abitata e comunque frequentata, in quelle lontane epoche come adesso, soprattutto da genti itineranti.
Inoltre – ma forse si tratta dell’obiezione principale – per quanto celebre possa essere stato il dipinto, è senz'altro più probabile che la sua fama si sia diffusa nel mondo greco-romano e nella sfera egizio-alessandrina (cioè in quello che fu il centro di diffusione della cultura fino alla fine del mondo antico) piuttosto che in quelle remote regioni dell'odierno Iran che Marco Polo visitò tanto tempo dopo – e che in ogni caso già a partire dal II secolo a.C. erano uscite progressivamente dalla sfera greco-macedone per acquisire un'indipendenza via via sempre più ampia. Infine, pur ipotizzando una grande notorietà per il dipinto ("secondo a nessun altro" nella definizione pliniana), resta il fatto che a tutt'oggi non se ne conosce alcun'altra copia diretta, all'infuori del mosaico pompeiano.
Ma la pista indicata suggestivamente da Bianchi Bandinelli è senza dubbio importante e fino ad oggi sottovalutata: mai, nel corso della ormai quasi bisecolare letteratura critica sul mosaico pompeiano, è stato preso in considerazione il valore simbolico che il tema dell'albero secco ha avuto in tutte le culture antiche del bacino mediterraneo e dell'area mediorientale. L'albero, infatti, nella sua duplice caratteristica di albero 'solo', cioè isolato in un'area per il resto desertica, oppure 'secco', cioè assolutamente privo di foglie e di frutti (ma talvolta nella doppia veste di albero 'solo' e anche 'secco') costituisce un simbolo antichissimo, che affonda le sue radici praticamente in tutte le culture della sfera euro-asiatica, con una valenza ovunque simile.
In quanto 'solo', l’albero costituisce un limite invalicabile. È la pianta che si erge ai confini del mondo conosciuto e stabilisce il limite dell'ignoto, quell'aldilà in cui tutto si fonde e si confonde per la mancanza di cognizione e di riferimenti: l'inferno e il paradiso, il tempo e lo spazio, il timore e la speranza, la luce e il buio. Gli archetipi di questa simbologia si ritrovano nelle civiltà mesopotamiche e, in area ebraica, nella Genesi (2, 9; 18, 1-3), in due profezie di Ezechiele (17, 24; 20, 47), nell'ultimo libro dell'Antico Testamento, il Libro di Daniele (scritto nell'epoca turbolenta delle lotte dei Maccabei contro i successori di Alessandro) e poi ancora nei Vangeli, dove è il fico sterile, albero del peccato e del pentimento.
In un'ampia parte della tradizione, nella coppia Albero Solo/Albero Secco si ritrova una variante, e l'Albero Solo diventa l'"Albero del Sole"; in questa variante lo si ritrova nella leggenda che fiorì intorno alle gesta e alle conquiste di Alessandro Magno e che alimentò il fortunatissimo Romanzo. Arrivato nella mitica India, al limite delle sue conquiste, Alessandro incontra infatti gli alberi oracolari del Sole e della Luna, l'uno maschio e l'altro femmina, i quali gli predicono, in lingua indiana e greca, che diventerà sovrano del mondo intero ma che non rivedrà mai la sua terra (Yerasimos 1980, 19; Kappler 2004, 246-247; Guéret-Laferté 1994, 345).
È significativo che, fra le illustrazioni dell'episodio dell'incontro fra Alessandro e gli alberi oracolari del Romanzo attestate in vari codici, una versione latina interpolata conservata alla Biblioteca Nazionale di Parigi (Cod. Lat. 8501), originaria dell'Italia meridionale e datata alla fine del XIII secolo, presenti in primo piano i due alberi del Sole e della Luna, con le chiome frondose nelle quali si individuano, appunto, i due astri, mentre in secondo piano compare, all'estremità sinistra, un albero secco, che si ritrova (nella dicitura arbor sicus) anche fra le iscrizioni di accompagnamento. La ricerca di altri documenti simili è tuttora in corso.
Del resto, se questo elemento finora è sfuggito ai commentatori di Marco Polo come a quelli della versione greca del Romanzo di Alessandro, è noto già da tempo che nel Romanzo medievale in prosa l'Albero Secco è comunque associato agli alberi del Sole e della Luna in un episodio in cui Alessandro incontrava dapprima, nella foresta, un albero "durement hault qui n'avoit ne fueille ne fruit" (Yule 1866, 138-139; Kappler 2004, 246).
Attraverso diversi secoli e varie leggende l'Albero Solo/Secco si ritrova – limitandosi alle sole attestazioni in Occidente – in varie forme letterarie: nei testi teatrali, come il Jeu de Saint Nicolas, datato al 1200, dove compare un "Emiro dell'Oltre-Albero Secco", o nei romanzi, come il Romanzo del Conte di Poitiers, risalente probabilmente alla metà del XIII secolo, in cui Costantino, re di Bisanzio, minaccia l'emiro di Babilonia di distruggerne l'impero "fino all'Albero Secco". E poi se ne ha traccia nel testo di Odorico da Pordenone, viaggiatore della metà del XIV secolo, in quello dell'ambasciatore spagnolo Gonzales de Clavijo, dell'inizio del XV secolo, oltre che nel Voyage autour de la Terre di Jean de Mandeville, del 1356: tutti autori che hanno incontrato, in un punto-limite delle loro peregrinazioni, un Albero Secco. E ancora, nell'accezione di "Albero del Sole", è citato nel manoscritto veneziano del Milione che l'umanista Ramusio utilizzò per il suo Delle navigationi et viaggi del 1559. Il tema dell'Albero Secco si ritrova inoltre in tutta la tradizione collegata alla presa di Costantinopoli da parte dei Turchi (Yerasimos 1980, 22-23; Kappler 2004, 26, 246-247). A conclusione di questo breve excursus, si ricorderà che le più note e le più precise fra le carte geografiche medievali, come per esempio quella della cattedrale di Hereford (riprodotta in Kappler 2004, VI e 247) avevano spesso, in un punto o in un altro, un Albero Secco, a significare i limiti dei luoghi allora conosciuti.
Ritorniamo a Marco Polo e al suo "Albero Solo" e "Albero Secco", alla ricerca di qualche ulteriore indizio che possa illuminare l'indagine. Riprendendo il discorso da un punto di vista più generale, ecco le segnalazioni offerte da Marco:
1) a più riprese, nel Milione si trova menzione di un "Albero Solo", che è chiamato anche "Albero secco", o del quale si specifica "che i cristiani chiamano Albero Secco" oppure "che nel libro di Alessandro è chiamato Albero Secco", e lo si definisce anche come una "regione" o "contrada". In tal modo si caratterizza quello che è sicuramente un luogo mediante un toponimo, che tuttavia non trova riscontro nella terminologia geografica né nella cartografia dell'epoca e neppure, per quanto se ne sa, delle precedenti;
2) Nel capitolo XL Marco descrive quest'albero con dei particolari molto precisi, che hanno indotto gli studiosi della materia a riconoscervi un platanus orientalis (Kappler 2004, 37, 61, 246), pianta molto longeva e a quanto pare ancora presente nelle regioni semidesertiche della Persia, dove però è senz'altro rara e di sicuro più grande e imponente rispetto al resto della scarsa vegetazione (può raggiungere infatti i 30 m di altezza). In sostanza, un albero che si può immaginare isolato al centro di una grande pianura e venerato, anche per la sua longevità, come sacro;
3) Ancora nel capitolo XL si trova scritto che "là (cioè presso l'albero) la gente di questa contrada dice che ebbe luogo la battaglia fra Alessandro e Dario".
Le parole di Marco Polo si prestano a diversi livelli di interpretazione. Di sicuro, quello che egli ha visto ha tutta l'aria di essere un albero vero e proprio (Kappler 2004, 246). E altrettanto reale sembra essere il ricordo, da parte della "gente del posto", della battaglia fra Alessandro e Dario, anche se certamente il dato non può corrispondere alla realtà storica. Marco nomina infatti l'Albero Secco/Albero Solo sempre a proposito di una zona specifica: un'area che corrisponde all'odierna piana fra le città di Tûn e Qâin (Tunocain, nel Milione), nella regione del Kuhistan, nell'est dell'attuale Iran: "Una sorta di altopiano montagnoso, circondato da ogni lato dal grande deserto salato dell'Iran" (Kappler 2004, 243). Il veneziano ne parla sia a proposito del suo personale itinerario attraverso quella regione, sia quando racconta della lunga e aspra guerra che oppose, in questa stessa zona, i signori dei Tartari del Levante. Ma la zona, in ogni caso, è troppo a Oriente rispetto all'area in cui si erano affrontati, molti secoli prima, Alessandro Magno e Dario.
Tuttavia, è ben reale il fatto che la regione in questione, fra l'Iran e l'alto Afghanistan, era stato l'ultimo rifugio delle tribù appartenenti ai regni indo-battriani dei successori di Alessandro. Ed è vero pure il fatto che, ancora ai tempi di Marco Polo, le genti che abitavano quelle contrade e soprattutto le loro famiglie principesche si fregiavano della discendenza da Alessandro Magno (Kappler 2004, 65, 248). Del resto, ancora sei secoli dopo, in pieno XIX secolo, questa tradizione compare nell'opera di Rudyard Kipling (Kipling 1888) ed è tuttora attestata in Afghanistan, in Uzbekistan e fin nelle lontane regioni fra il Pamir e il Kashmir (Yerasimos 1980, 18; Bircher 1962, 30, 37; Lane Fox 1973, 15; Biondi 2005,140-152). A proposito di questa salda persistenza del ricordo del Macedone in quelle remote regioni è possibile avanzare alcune spiegazioni. Innanzitutto si può ricordare che lo stesso Alessandro, per rafforzare il proprio mito e per indurre le genti locali al perenne timore dei suoi uomini in armi, si premurò di lasciare qua e là, lungo il suo itinerario di conquista dell'Oriente, dei 'testimoni' del proprio passaggio. Racconta Plutarco (Vita di Alessandro, 62):
Inventò molti e ingannevoli stratagemmi per innalzare la sua gloria. Infatti fece costruire armi più grandi del normale e mangiatoie per i cavalli, e freni più pesanti del solito, e lasciò questi sparsi qua e là. Eresse poi altari agli dei che i re degli Indi adorano ancora ai nostri giorni, quando vi passano accanto, e sui quali fanno sacrifici secondo i riti dei Greci.
È dunque possibile che con il passar del tempo, con l'estendersi della fama delle gesta di Alessandro e con la progressiva appropriazione di questa fama da parte di tutte le culture del mondo allora conosciuto, anche le popolazioni delle terre solo marginalmente toccate, o addirittura lontane, dalla sua avanzata abbiano comunque assorbito elementi del mito proprio perché conservavano brandelli della monumentale campagna ideologico-propagandistica promossa dallo stesso Alessandro. E, se ciò è avvenuto, è allora anche possibile che fra tali elementi di propaganda si possa annoverare, in quella specifica area del vecchio impero che Alessandro aveva conquistato, anche un albero-reliquia, raro, isolato, imponente, estremamente longevo (e dunque già solo per queste qualità venerato come sacro) e per di più corrispondente (per le medesime qualità) alla descrizione che se ne fa nella leggenda di Alessandro.
In un capitolo successivo del Milione, il XLVII, dove si tratta della regione del Badakhshan, si osserva che i sovrani:
Discendono tutti per lignaggio da Alessandro e dalla figlia del re Dario, il grande signore della Persia. E tutti continuano a chiamarsi Culcarnein nel loro linguaggio saraceno, il che in francese vuol dire Alessandro (Kappler 2004, 65).
La sintesi qui operata da Marco Polo è la seguente: Culcarnein, Dhu 'l-Qarnayn in arabo, ("colui che ha due corna") è il soprannome dato costantemente nel Corano ad Alessandro Magno, molto probabilmente a partire dalla fortunata effigie monetale impressa per la prima volta negli stateri aurei di Tolomeo I ad Alessandria d'Egitto, che lo rappresentava con la fronte ornata dal corno dell'ariete (una raffigurazione che ricordava la rivendicata paternità di di Zeus-Ammone, il dio ariete; De Polignac 1998, 275-276; Kappler 2004, 248; Yerasimos 1980, 18. Gaïd 1986). Il che induce a credere che ancora nel XIII secolo, benché certamente la continuità dinastica rivendicata dai locali capi tribù dovesse essersi ormai da tempo interrotta, il ricordo di questa fosse invece ancora ben vivo proprio per la sovrapposizione e la fusione fra il mito di Alessandro sempre rinnovatosi nella memoria popolare e l'autorevolezza del testo sacro del mondo musulmano.
Dopo averlo individuato in quanto "Albero Solo" e descritto al centro della sua vasta pianura Marco Polo non esita a identificare l'Albero con quello che "i cristiani chiamano Albero Secco", trapiantandolo dunque dalla geografia della regione che sta attraversando in un'altra sfera, quella delle leggende escatologiche. E qui si apre un altro discorso, peraltro già abbondantemente esplorato dagli studiosi del Milione, per i quali tuttavia l'Albero Solo/Secco costituisce tuttora "uno dei punti oscuri della narrazione di Marco" (Yerasimos 1980, 25).
Avendo in precedenza ricordato e descritto gli archetipi della simbologia dell'albero nel bacino eurasiatico, ora forse è possibile tentare di ricostruire la riflessione di Marco Polo davanti al 'suo' Albero. Innanzitutto egli si trova ad attraversare una regione di confine per i viaggiatori e gli esploratori occidentali: al limite della Persia con una vasta area desertica, non eccessivamente lontano dal fiume Gion (per noi, l'Amu Darya) che nelle tradizioni eurasiatiche è anche uno dei fiumi del Paradiso Terrestre. Un luogo, dunque, prossimo al limite del mondo conosciuto. In questa contrada Marco individua un albero di una specie a lui ignota, certamente imponente e forse considerato sacro dalle genti del posto per le sue dimensioni, la rarità nella regione, la longevità che lo caratterizza e l'isolamento di cui gode. Lo riconosce dunque come l'Albero Solo della leggenda. Le foglie verdi dell'albero sono però anche bianche dall'altro lato (come si è detto, è probabile che si tratti di un platanus orientalis): possono cioè essere viste come le foglie contemporaneamente verdi e secche dell'albero leggendario, nell'altra sua versione.
Conoscendo evidentemente la doppia origine della simbologia dell'Albero, Marco afferma dunque che si tratta effettivamente di quello che "i cristiani", cioè l'Europa cattolica, "chiamano Albero Secco". Nello stesso tempo, egli ambienta la sua narrazione in un luogo preciso, che è quello di cui "la gente del posto", cioè la tradizione locale, gli ha parlato come del luogo della battaglia fra Alessandro Magno e Dario e che dunque è anch'esso, nella sua valenza intrinseca di luogo di scontro fra due opposte civiltà, un limite plausibile di separazione fra due mondi.
Di fronte alla millenaria reliquia vegetale, Marco Polo opera dunque una sintesi fra le proprie conoscenze storiche, le memorie e le tradizioni letterarie delle popolazioni locali assorbite durante il viaggio e l'osservazione diretta dei luoghi che attraversa. Ma alla sua sintesi si aggiunge senz'altro, in fase di stesura dei suoi appunti di viaggio, la cooperazione con Rustichello da Pisa. Se infatti si riconosce Rustichello come co-autore e non solo redattore passivo del Milione (come la definizione di "nostre livre" data dai due nell'introduzione lascia presupporre) e se si considera la formazione di quest'ultimo, chansonnier profondamente imbevuto della lirica trobadorica e della tradizione narrativa epico-cavalleresca – la quale alla sua epoca, come si è detto, si era già appropriata del mito di Alessandro – allora si può agevolmente immaginare che la spinta finale alla sintesi della leggenda dell'Albero provenga proprio da lui, da Rustichello, sulla base dei ricordi di viaggio di Marco e degli indubbi collegamenti fra questi e le sue personali reminiscenze letterarie. Non va inoltre dimenticato che all'interno della tradizione manoscritta fra XIII e XIV secolo il testo del Romanzo circola spesso insieme a quello del Milione; l'esempio più celebre in questo senso è fornito da uno dei più splendidi tra i manoscritti miniati medievali, il ms. Bodley 264 della Bodleian Library di Oxford, in cui alle avventure leggendarie di Alessandro segue il resoconto dei viaggi di Marco Polo (Centanni 2014; Ciccuto 2014).
Per tutto quanto abbiamo cercato di mostrare fin qui le ragioni della presenza dell'albero secco nel mosaico pompeiano della Casa del Fauno e il collegamento con il Milione vanno cercate in una direzione diversa da quella indicata da Bianchi Bandinelli secondo il quale, ricordiamo, si tratterebbe di una reminiscenza, ancora al tempo di Marco Polo, del dipinto di Philoxenos di Eretria. Se è infatti molto improbabile che la continuità e l'estensione millenaria della fama della epocale battaglia di Alessandro e Dario sia dovuta alla celebrità del dipinto di Philoxenos, in aree culturalmente e geograficamente così lontane dall'evento storico, al contrario, è possibile che sia stata proprio la fulminea diffusione della conoscenza di quest'evento ben al di là della regione in cui esso si era verificato, ad aver offerto non solo alle arti figurative, e già alla fine del IV secolo a.C., il soggetto sviluppato nel mosaico di Alessandro, ma anche alla letteratura e soprattutto all'insondabile universo del racconto orale e della leggenda un argomento destinato a tramandarsi fino a Marco Polo.
I diari astronomici babilonesi
A una tale distanza è ancora possibile condividere le esperienze degli uomini,
perfino quelle di un Alessandro; e dopo duemila anni la ricerca, benché mai facile,
è spesso viva, sempre degna di essere condotta.
Robin Lane Fox, Alexander the Great, 1973
1988-1996. Le tavolette astronomiche babilonesi del British Museum vengono finalmente rese note al pubblico in una serie di successive pubblicazioni (Sachs, Hunger 1988-1996). Autori e compilatori di queste tavolette, che costituiscono un testo noto come Enûma Anu Enlil, scoperto nel palazzo del re Assurbanipal a Ninive, furono diverse generazioni di astronomi, scienziati di corte dei sovrani mesopotamici e interpreti dei presagi celesti.
I diari astronomici che appaiono sulle tavolette del British Museum registrano alcuni fenomeni celesti in correlazione con importanti eventi storici e politici. La tavoletta più antica conservata fino a oggi riguarda l'anno 652/651 a.C.; la più recente, il 61/60 a.C. In particolare, è conservata una tavoletta che ricorda gli eventi dell'anno 331 a.C. e racconta la battaglia di Gaugamela, vista e interpretata dagli astronomi di corte alla luce degli eventi celesti che si verificarono proprio nei giorni dello scontro (e che sono riportati anche dalle fonti classiche greco-romane). Raccontata, in ogni caso, dal punto di vista degli altri, cioè dei babilonesi che assistettero allo sfaldamento completo e definitivo degli eserciti del Gran Re, alla personale disfatta di lui e alla fine annunciata dell'impero persiano (Van der Spek 2003a; Van der Spek 2003b, 289-346; Lendering 2004b; Geller 1990, 1-7; Bernard 1990, 514-541).
Ed è proprio la lettura della versione della battaglia dalla prospettiva opposta che sconvolge, se non capovolge del tutto, la versione tramandata dalle fonti della tradizione occidentale. Nei dieci giorni che precedettero la battaglia, cioè fra il 20 settembre e il 1 ottobre dell'anno 331 a.C., nei diari astronomici babilonesi sono segnalati diversi fenomeni celesti considerati estremamente gravi nella simbologia degli astronomi caldei. Il primo di tali fenomeni fu un'eclissi totale di luna la notte del 20 settembre, ricordata anche dalle fonti classiche; queste ultime però non riportano tutti gli eventi successivi, che invece la tavoletta babilonese elenca con freddo rigore. Il giorno 23 fu segnalata infatti l'apparizione improvvisa di una meteora e la sera successiva fu vista quella che è definita come una "pioggia di fuoco" (presumibilmente una caduta di meteoriti) che poi si ripeté il 26 settembre. Nel catalogo delle profezie babilonesi una simile concatenazione di eventi cosmici era interpretata come anticipazione di un disastro non solo per la vicina città di Babilonia, ma per tutto l'impero. E il fatto che la prima di queste manifestazioni, l'eclissi di luna, fosse stata, nella sua spettacolarità, anche la più grave, era considerato particolarmente funesto per il futuro del regno.
Tali eventi dovettero quindi far crescere progressivamente nel campo persiano la tensione fino al parossismo. Ma degli stessi eventi abbiamo riscontri anche dalle fonti occidentali, in particolare delle paure scatenate dai presagi in campo macedone: le fonti classiche (Plutarco, Vita di Alessandro XLIII; Arriano, Anabasi di Alessandro III, 4; Curzio Rufo, Storie di Alessandro IV, 10) raccontano infatti che l'ansia e la preoccupazione suscitata dall'eclissi indussero Alessandro a richiedere riti e sacrifici per scongiurare la sorte nefasta. Curzio Rufo in particolare, parlando della sosta delle truppe macedoni presso il fiume Tigri, racconta nei dettagli l'eclissi, il "velo di sangue" che sembrò macchiare la luce della luna, e la profonda impressione che questo fenomeno suscitò nei soldati, i quali ne dedussero che "era contro la volontà degli dei il fatto che li si trascinasse fino alle estremità della terra", costringendo in tal modo Alessandro a ricorrere al responso dei sacerdoti egizi che seguivano l'armata. Senonché poi, avendo questi ultimi decretato che l'evento annunciava la rovina per Dario e non per Alessandro, le truppe sentirono rinascere in sé la speranza.
Il primo di ottobre i due eserciti si diedero battaglia. Qualche commentatore contemporaneo ha giustamente osservato che nessuna delle fonti classiche racconta esattamente lo svolgimento dello scontro, come era stato invece il caso per altre battaglie del Macedone (Lendering 2004a; Lendering 2004b). Sull'avvio delle ostilità a Gaugamela c'è invece un buco e i resoconti antichi si concentrano piuttosto sulla possente, feroce carica finale di Alessandro contro Dario e sul suo esito (Curzio Rufo, Storie IV,15; Arriano, Anabasi, 3,5: entrambe le fonti, che di solito abbondano nei dettagli, nel caso di Gaugamela danno invece un gran peso ai discorsi sostenuti dai generali di ambo le parti e agli schieramenti iniziali, ma lasciano poco spazio alla descrizione di quanto avvenne poi realmente sul campo di battaglia).
Una spiegazione logica per questo silenzio sullo svolgimento della battaglia c’è: il polverone, alzatosi quasi subito a causa dell'irruenza dell'impatto di una moltitudine di uomini, animali e carri concentrati in quell'immensa piana sabbiosa, dovette rendere ben presto impossibile per gli uni come per gli altri la visione globale di quanto accadeva. Del resto già Lane Fox (1973, 239-240) aveva giustamente rilevato che "nessuno storico sarebbe stato in grado di osservare la scena ad occhio nudo". Più di recente, quando ha girato la scena della battaglia di Gaugamela per il film Alexander, il regista americano Oliver Stone – che si è avvalso della consulenza storica dello stesso Lane Fox – ha voluto riprodurre anche gli effetti del turbinio della polvere sui combattenti; memore, fra l'altro, della sua personale esperienza di guerra in Vietnam, già riportata nel precedente e premiatissimo Platoon. E ha poi raccontato:
Tutti quelli che arrivavano in Vietnam erano colpiti dal calore e dalla polvere. La stessa cosa deve essersi verificata per le truppe di Alessandro: nella battaglia di Gaugamela la sua strategia abituale era impossibile. Forzare le truppe di Dario? Ma come, dato che la polvere doveva essere tale da non riuscire nemmeno a vedere le linee nemiche? Eppure, l'ha fatto. Ma ha vinto in una nebbia oscura (Stone 2004).
Il che dunque, ritornando alla cronaca dell'evento, azzerava le possibilità di un racconto corretto e diretto dello svolgimento dei fatti. La cronaca degli eventi non può dunque essere stata messa insieme che dopo la fine della battaglia, attraverso la fusione dei resoconti dei diversi settori e dei momenti successivi dello scontro. Ora, però, le testimonianze delle fonti dei due campi riservano, se comparate, delle sorprese. E non solo nella diversità dei racconti fra un campo e '’altro, ma anche nella discordia delle voci all'interno del solo campo macedone, dove alcuni resoconti coincidono singolarmente con quelli offerti dalle tavolette babilonesi.
Se Arriano (Anabasi IV, 5) e Plutarco (Vita di Alessandro XLVII) sostengono che il Gran Re fuggì di fronte alla carica di Alessandro (versione riprodotta nell'opera originale che è alla base del mosaico pompeiano, se si ritiene che il soggetto di tale opera fosse proprio la battaglia di Gaugamela), le tavolette babilonesi raccontano invece che "le truppe abbandonarono il loro re (Dario) e tornarono alle loro città... (e) fuggirono nei territori orientali" (Astronomical Diaries, -331/330, obv. 15-18), confortate in questo da Diodoro Siculo (Bibliotheca Historica XVII, 60, 3-4; 61, 1) e Curzio Rufo (Storie IV, 15), i quali riferiscono che Dario continuò a combattere anche quando i suoi lo abbandonarono.
Il quadro della battaglia conclusiva fra Alessandro Magno e Dario che emerge dallo studio delle fonti babilonesi e dal confronto fra queste e le fonti occidentali offre alcune importanti conferme ma allo stesso tempo è dunque straordinariamente nuovo. Se ne deduce infatti che, sebbene non si possa mettere in discussione l'effettivo scontro fra i due eserciti, questo dové essere tuttavia di molto facilitato per l'armata macedone dalla rapida ritirata dei Persiani, spaventati senz'altro dall'impeto della carica nemica, ma di certo già atterriti dalle previsioni nefaste degli eventi dei giorni precedenti e pronti pertanto ad abbandonare il terreno alla prima avvisaglia di esito negativo per il loro campo. Tuttavia la significativa divergenza nella versione dei fatti proposta dalle diverse fonti occidentali, mentre da un lato è la migliore delle prove della diversa origine delle fonti dirette cui essi attinsero, dall'altro induce a rivedere il giudizio erudito tradizionale sulla validità di quelle stesse fonti.
In sostanza troviamo, infatti, innanzitutto la conferma a quanto già si sapeva, cioè che Diodoro Siculo e Curzio Rufo trassero buona parte delle loro informazioni da Clitarco, mentre Arriano e Plutarco attinsero fondamentalmente da Tolomeo e da Callistene. Ma dalle diverse descrizioni degli eventi che si leggono nei loro resoconti ci accorgiamo che probabilmente la vox populi riportata da Clitarco e successivamente ripresa in parte da Diodoro Siculo e Curzio Rufo si doveva avvicinare alla realtà degli avvenimenti più della versione propagandistica dettata dal Comando Generale macedone per esaltare la vittoria appena ottenuta. Una versione, quest'ultima, motivata dalla ragion di stato e finalizzata senz'altro a facilitare la piena assunzione, da parte di Alessandro, del potere che era stato del Gran Re, in vista dell'imminente ingresso a Babilonia e dell'annessione di tutta la Persia.
E, se è vero che nella realtà i fatti andarono come si racconta da parte babilonese e come ricordano Diodoro Siculo e Curzio Rufo, se cioè Dario fu abbandonato dai suoi e non voltò indietro il suo carro per fuggire davanti al nemico – almeno non con la codarda rapidità attribuitagli in alcune versioni – ma fu costretto a saltare su una giumenta quando non poté più manovrare la sua macchina da guerra, allora cade anche la più recente delle ipotesi sul dipinto all'origine del mosaico pompeiano: la teoria che vede in tale dipinto l'opera del sommo nome della pittura greca di quell'epoca, quell'Apelle di cui si sa che era il pittore di corte di Alessandro, che sarebbe stato presente a Gaugamela e avrebbe riprodotto in un dipinto estremamente realistico lo svolgimento esatto della carica del Macedone e il suo epilogo (Moreno 2000, 15-28).
È ovvio che Apelle avrebbe potuto dipingere non tanto ciò di cui sarebbe stato testimone oculare (e che in ogni caso né lui né alcun altro guerriero o spettatore avrebbe potuto vedere, se non si fosse trovato proprio nel settore preciso in cui ebbe luogo l'assalto decisivo, data la nuvola di polvere e sabbia sollevata in ore e ore di combattimento) ma piuttosto, e solamente, il successivo resoconto dello scontro, enfatizzato e propagandistico, che il vincitore aveva scelto di offrire al mondo.
Ancora, a proposito del luogo della battaglia – e dunque del sito preciso che appare nel mosaico (e che doveva apparire anche nell'opera originaria): non sarà inutile ricordare che le fonti occidentali insistono sul totale spianamento, a Gaugamela, dell'area destinata all'affrontamento dei due eserciti, che Dario aveva accuratamente scelto e preparato facendo abbattere tutti i possibili ostacoli alla manovrabilità dei suoi carri. Arriano (Anabasi III, 4) racconta specificamente che il re persiano "ebbe cura di spianare tutti i dislivelli del terreno..." perché "i suoi cortigiani attribuivano la disfatta di Isso alla difficoltà dei luoghi"; Curzio Rufo (Storie IV, 9) afferma che:
La piana era vasta e adatta alla cavalleria; né un arbusto né un cespuglio ne occupavano il suolo [...] Dario volle ancora che si spianassero le più piccole alture [...] e la superficie vi fu livellata in tutta la sua estensione [...].
Non c'era dunque alcun albero, a Gaugamela, in un orizzonte che si presentava vasto e spoglio.
Quanto al sito della battaglia di Isso, quella cioè che la tradizione critica più spesso associa al mosaico della Casa del Fauno, la dettagliata descrizione che ugualmente ne abbiamo dagli storici occidentali (in particolare Arriano, Anabasi II, 4-5; Plutarco, Vita di Alessandro XXVI; Curzio Rufo, Storie III, 8-9) offre un'ulteriore conferma del fatto che l'oggetto del dipinto, e successivamente del mosaico, non può essere stato una descrizione realistica della battaglia, se pur di quella battaglia si tratti. Il sito di Isso è descritto infatti come stretto fra il mare, il fiume Pinaro e una catena di montagne dalle gole profonde: un'ambientazione precisa, un bell'encadrement che tuttavia nel mosaico manca totalmente.
Esclusi dunque il realismo descrittivo e l'oggettività della narrazione storica, resta, quale soggetto del mosaico e dell'opera che esso riproduce, il racconto allegorico. I dati raccolti e gli spunti offerti finora inducono a ritenere che la scena illustrata nel mosaico pompeiano non rappresenti né la battaglia di Isso né quella di Gaugamela, ma più in generale l'impatto decisivo fra i due eserciti (e fra i due mondi): il persiano e il macedone. Non si tratta dunque di una rappresentazione realistica e neppure di una riproduzione fedele dell'evento storico, a meno che la fedeltà della restituzione non venga intesa in senso simbolico: la riproduzione della narrazione dello scontro dei due re quale questo era stato sentito e vissuto dagli uomini che vi avevano partecipato, quale era rimasto nella loro memoria e da quella era poi passata alla leggenda. La riproduzione, in sostanza, dell'atto conclusivo di cui Alessandro si era reso protagonista con l'attacco sferrato al Gran Re in un'area situata all'estremità del mondo fino allora conosciuto dai suoi e da lui stesso: la forzatura dei limiti, la violazione delle frontiere della conoscenza, lo scavalcamento dell''albero secco'.
Un nuovo sguardo sul mosaico di Alessandro
E mentre si voltava indietro non aveva niente da vedere
E mentre si guardava avanti, niente da voler sapere
Ma il tempo di tutta una vita non valeva quel solo momento
Alessandro così grande fuori, così piccolo dentro
Roberto Vecchioni, Alessandro e il mare, 1989
Ritorniamo al "Gran Musaico". Occorre andare a riguardarlo da vicino per riscontrarvi le nuove informazioni emerse da questa indagine. E occorre, ovviamente, guardare con occhi nuovi soprattutto quell'albero secco che svetta, fortunatamente conservato, in posizione preminente nella composizione:
1) L'albero secco è, nel mosaico, l'unico elemento paesaggistico. E, cosa davvero singolare, non è neppure un semplice albero secco, spoglio ma integro nelle sue ramificazioni: è invece scarno e mozzo. La lettura convenzionale degli elementi della rappresentazione sottolinea come esso, insieme alle lunghe e fitte lance dei soldati, garantisca alla composizione il senso della natura circostante, dello spazio e della profondità, nell'assenza di altre indicazioni ambientali e nell'uniformità del fondo chiaro della scena. Ma nella sua essenzialità, l'albero contrasta decisamente con il descrittivismo naturalista dell'insieme della rappresentazione. L'albero si trova alle spalle di Alessandro, immediatamente alle sue spalle: in ogni caso, decisamente più vicino ad Alessandro che a Dario. Occupa dunque una posizione che lo mette in rapporto diretto con la figura di Alessandro e con quanto accade intorno a lui.
2) Quanto a Dario, dritto in piedi sul suo carro già voltato in posizione di ritirata, invece di proteggersi dalle lance nemiche – atteggiamento che ci si aspetterebbe dopo l'atto vigliacco della fuga – tende un braccio verso il suo avversario. L'esasperazione della gestualità fa parte, certo, del codice espressivo dell'arte antica, non solo in età ellenistica ma già dall'epoca arcaica: dalla pittura vascolare agli affreschi, fino alle sculture e ai bassorilievi, vediamo spesso restituite pose e posture particolarmente enfatiche, specie in situazioni in cui è chiara l'intenzione di sottolineare il registro convulso-tragico della scena. In questo caso però, quello di Dario è un gesto che appare strano e inaspettato. Strano gesto se si tratta, come la critica unanimemente riconosce, della celebrazione di una vittoria che prevedrebbe da una parte un netto vincitore e dall'altra un vinto in chiaro atteggiamento di sconfitta e di resa
3) Alessandro, infine, appare piccolo sulla sua cavalcatura, privo di elmo, scuro di capelli e mal rasato, con lo sguardo fisso davanti a sé, spiritato, con un'espressione quasi invasata – senz'altro ingigantita dal restauro già antico (Moreno 2000, 13-14, 23) – che scaturisce comunque dalla postura generale del suo corpo, teso contro il nemico. Un fascio di superba energia, il giovane Alessandro. Di certo non il solare e olimpico eroe che egli stesso aveva voluto apparire nelle immagini propagandistiche offerte di sé al mondo. La critica suggerisce che il pittore del dipinto di cui il mosaico sarebbe copia fosse stato assai vicino alla corte macedone, tanto da poter rappresentare realisticamente i tratti del giovane re, nel frattempo già morto – trovando in tal modo un'indiretta conferma alla notizia di Plinio il Vecchio, secondo cui sarebbe stato l'immediato successore di Alessandro in Macedonia, Cassandro, a commissionare il dipinto celebrativo della battaglia al pittore Philoxenos di Eretria.
Già l’insieme degli elementi così descritti sarebbe sufficiente a suggerire una possibile lettura per piani sovrapposti della composizione pittorica che è alla base del mosaico: gli atteggiamenti e le posizioni reciproche dei due protagonisti e dell'albero secco indicano la volontà dell'artista di proporre anche qualcos'altro, rispetto a quel che appare a prima vista, un qualcos'altro che tuttavia doveva emergere chiaramente ed essere facilmente riconosciuto dal pubblico dell'epoca. In pratica: in primo piano, dichiaratamente evidente, il racconto celebrativo della vittoria militare e politica; in secondo piano, al di sotto del primo, un racconto simbolico, e tuttavia leggibile con pari chiarezza dagli osservatori.
Riesaminando l’insieme della rappresentazione alla luce di quanto detto finora, anche questo secondo piano risulta leggibile.
1) L'albero secco è, nel mosaico, l'unico elemento paesaggistico perché è l'albero-limite del Romanzo, il confine del mondo conosciuto (da Alessandro e dai suoi soldati) che, con la vittoria sul ben più numeroso e possente esercito di Dario, Alessandro si apprestava a varcare. In questo senso ha dunque un'importanza secondaria l'individuazione della battaglia in senso storico – se cioè si tratti di Isso o di Gaugamela – perché nel Romanzo l'avanzata in terra persiana, i contatti, epistolari e sul campo, fra i due sovrani e gli affrontamenti decisivi, pur con riferimenti indubbiamente confrontabili con la storiografia ufficiale, si confondono e si perdono nel generale tono narrativo e fiabesco. È evidente che, proprio in quanto simbolo del limite delle conoscenze, l'albero escluda dunque ogni altro tipo di paesaggio: oltrepassandolo, Alessandro si tuffa nell'incognito. Inoltre, l'albero è secco, non semplicemente spoglio: è dunque condivisibile l'idea secondo cui "la colpa scava l'albero, o addirittura lo spezza. La sezione [dell'albero] può leggersi come un'indicazione della rottura, ma ci si può vedere anche un segno che indica l'apparizione della morte" (Wajeman 2007, 62);
2) Nel mosaico l'albero-limite è situato proprio alle spalle di Alessandro: nello slancio del suo cavallo che si trova proprio in corrispondenza dei rami, egli sembra apprestarsi a superarlo, mentre dietro si intravedono alcuni cavalli e almeno l'elmo di un cavaliere già oltre quella linea. Prendendo a prestito la terminologia cinematografica, si potrebbe dire che quello che viene qui rappresentato è il fotogramma precedente il 'salto nell'ignoto';
3) A ulteriore conferma della drammaticità del passo che il giovane e irruento condottiero sta per compiere e della condizione di incantamento, quasi di sortilegio, di cui egli è vittima in quell’istante, dall'altra parte, cioè oltre la linea dell'albero, il re Dario sembra attirarlo, tendendo il braccio verso di lui mentre, circondato dai soldati che proteggono la sua ritirata, ha lo sguardo puntato su Alessandro;
4) Alessandro avanza con sprezzo del pericolo, nel suo slancio verso l'impossibile: è quasi una prefigurazione di quella "nostalgia dell'ignoto", senza direzione di tempo, che lo porterà nel Romanzo a varcare i confini della realtà, verso luoghi e paesaggi leggendari (il fondo del mare, la valle dell'Eden, il volo nel cielo con i grifoni e in generale le avventure ai confini del mondo).
In sostanza, e a conclusione di questa rilettura, appare da rivedere il collegamento proposto dall'erudizione ottocentesca e mai più successivamente messo in discussione, fra il mosaico di Alessandro della Casa del Fauno e un dipinto celebrativo di una battaglia fra il Macedone e il re Persiano, concepito e realizzato in ambiente macedone o greco – ma in ogni caso da un artista greco – in un'epoca non molto distante dalla morte del giovane condottiero.
Si delinea invece un rapporto tra l'iconografia da cui il mosaico deriva e la leggenda di Alessandro, quale essa andò costituendosi, come si è detto, già poco dopo la morte del re e in ambiente decisamente alessandrino, e quale dovette confluire assai presto nelle più antiche redazioni del Romanzo di Alessandro. Se è vero che in nessuno dei manoscritti del Romanzo si fa riferimento all''albero secco', è pur vero che l'antichità, l'ampiezza della diffusione soprattutto in ambiente orientale e la persistenza nel tempo di questo simbolo sono indiscutibili, e che proprio l'origine e l'ambientazione alessandrina sia del Romanzo che dell'opera di cui il mosaico pompeiano è copia possono spiegarne l'impiego da parte di un artista e per un pubblico per i quali doveva trattarsi di un riferimento senz'altro noto.
In questo senso, è ipotizzabile che assai presto, nei racconti che andarono a costituire la vulgata e che si diffusero nel nuovo universo alessandrino, il valore simbolico di conquista dell'estremo e di salto nell'ignoto che i veterani avevano attribuito alla campagna persiana sulla base delle scelte, dei comportamenti e anche degli stupefacenti e impensati progressi bellici del loro condottiero, si sia fuso al valore simbolico estremo attribuito in ambiente orientale all'Albero Secco.
La battaglia decisiva – la battaglia per eccellenza, l'unica che le riunisce tutte, lo scontro delle due civiltà – diventa allora la Battaglia dell'albero secco, o meglio la Battaglia all'albero secco, al limite ultimo di ciascuno dei due mondi che uno dei due capi difende accanitamente e l'altro, spinto dalla sua insaziabilità, tenta di valicare. E così diventa anche plausibile che, più di mille e cinquecento anni più tardi, Marco Polo abbia potuto ritrovare il ricordo dell'albero secco e un brandello di quella leggenda che, nel corso dei secoli, si era diffusa in territori ancora più remoti rispetto al reale teatro delle battaglie tra Alessandro e Dario.
La fattura del mosaico pompeiano, com'è del resto il caso di tutti i mosaici della Casa del Fauno, rivela una provenienza alessandrina – o quantomeno, alessandrini erano certo gli artigiani che ne furono autori. A conclusione di questa indagine, appare plausibile che anche il modello da cui il mosaico pompeiano deriva sia da riportare all'ambiente culturale alessandrino dove si operò la fusione fra la cultura greco-macedone e quella orientale (piuttosto che a quello greco-macedone tout court, come finora si è sempre sostenuto). Appare altresì plausibile che il soggetto di tale opera sia una delle più antiche illustrazioni di uno dei passaggi chiave della leggenda che si andò costituendo proprio ad Alessandria all'indomani della morte del re – se non addirittura una delle illustrazioni della redazione originale del Romanzo di Alessandro. Allo stato attuale delle conoscenze, il soggetto potrebbe senz'altro essere ricondotto a un dipinto famoso, forse facente parte di un ciclo di dipinti, presumibilmente realizzato ed esposto, forse in un edificio pubblico o in un grande palazzo, nell'area del delta del Nilo.
La presenza dell''albero secco' nella pittura antica
Un albero-limite dunque, un simbolo a tutti noto che nel mosaico della Casa del Fauno appare raffigurato, suggerito all'immaginazione degli osservatori nelle modalità proprie alla pittura. Ricordiamo, per confronto, un'altra rappresentazione di alberi in una raffigurazione pittorica, sempre in Campania, che appare estremamente significativa proprio in relazione alla valenza simbolica liminare conferita all'albero secco. La cosiddetta Tomba del Tuffatore, scoperta a Paestum nel 1969, è stata immediatamente celebrata per gli affreschi – datati al 480 a.C. circa – che ne ricoprono le quattro grandi lastre di pietra delle pareti e, caso assolutamente unico nella pittura funeraria magnogreca finora nota, anche la faccia interna di quella di copertura. Sui lati lunghi di questa tomba a cassa appaiono raffigurate scene di simposio, con i convitati sdraiati da soli o a coppie su letti; in uno dei lati corti un giovane si allontana da un tavolo su cui poggia un grosso cratere; nell'altro due uomini in corteo seguono un musicante; nella faccia interna della lastra di copertura, il giovane tuffatore che ha dato il nome al monumento si lancia da una costruzione di blocchi quadrati verso uno specchio d'acqua, in una scena delimitata da due alberi sinteticamente definiti dall'esile tronco sinuoso da cui si dipartono pochi rami con sottili foglie simmetriche.
Questa singolare decorazione ha suscitato un acceso dibattito scientifico, a partire dalla polemica tra l'archeologo scopritore – Mario Napoli – che ne metteva in evidenza l'eccezionalità, e Ranuccio Bianchi Bandinelli che la definiva piuttosto opera artigianale e provinciale, ridimensionandone il valore artistico.
Particolarmente discussa è stata l'unicità del tipo di decorazione adottato per il monumento, in considerazione del fatto che la mentalità che sta alla base della scelta di dipingere l'interno delle tombe pare decisamente "non greca". È apparso evidente dunque il carattere culturalmente ibrido di questa pittura, difficilmente inquadrabile nella produzione magnogreca e pestana coeva (Rouveret 1990, 329; Pontrandolfo 1996, 458), che trova riscontri in affreschi più antichi (VI sec. a.C.) rinvenuti in Licia, in alcuni affreschi macedoni databili agli inizi dell'Ellenismo e, in Italia, nelle tombe dipinte etrusche di Veio, Chiusi, Tarquinia, Cerveteri risalenti al VII sec a.C. (Pontrandolfo 1996, 458). Tale carattere ibrido rende difficilmente scindibili nella pittura poseidoniate l'aspetto "greco" e quello "non greco", lasciando intuire nella Poseidonia greca della prima metà del V sec. a.C. "altre forme di aggregazione diverse e polari rispetto a quelle che il corpo civico manifestava in maniera ufficiale" (Pontrandolfo 1990, 352).
Il programma decorativo della tomba oltrepassa comunque senz'altro il significato immediato delle diverse scene rappresentate, mettendo in risalto in modo inequivocabile la valenza trascendente delle stesse, attraverso un insieme di simboli che, se propri al linguaggio greco, si avvicinano tuttavia indubbiamente a quelli riscontrabili nella pittura funeraria etrusca (Pontrandolfo 1990, 352; 1996, 459), e connettendo in una sintesi indiscutibilmente unitaria l'esperienza conoscitiva realizzabile attraverso l'abbandono alla musica, al canto e all'eros durante la partecipazione al rito simposiaco all'esperienza conoscitiva accessibile attraverso il simbolico "tuffo nell'al di là" che unanimemente è stato riconosciuto nella straordinaria scena della lastra di copertura.
La scena del tuffo è infatti indubbiamente la più intrigante di tutto questo programma decorativo: di essa è stata sottolineata la "dimensione nuova", che si coglie nella sobrietà del disegno e della composizione ed è stata definita come "un frammento di immaginario arcaico", "la suggestione di una realtà trascendente" (Rouveret 1990, 329-330). Ma prima ancora, già all'indomani della scoperta, l'archeologo Mario Napoli aveva avvertito l'eccezionalità della raffigurazione e ne aveva offerto un'interpretazione la cui compiutezza si rivela ancor più pregnante oggi, alla luce dell'indagine effettuata sul significato simbolico 'liminare' dell'albero secco. Lo studioso si era ampiamente soffermato, infatti, sulla presenza, al di là dello specchio d'acqua e al di qua del trampolino, dei due alberi: "Non è possibile dire di che piante si tratti – osservava l'archeologo – però crediamo che il pittore non abbia voluto rappresentare questa o quella pianta ma, convenzionalmente, degli alberi" (Napoli 1970, 151). Lo sfondo della scena, come di tutte le altre scene affrescate nella tomba, è uniformemente bianco e assume ovunque il significato di uno "spazio illimitato […] di uno spazio che non è quello nel quale viviamo, di un cielo che non è il nostro: di qui la suggestione di un qualcosa di astratto, di un qualcosa, cioè, fuori di ogni tempo, di ogni spazio reale" (Napoli 1970, 181-182).
Lo scopritore indicava anche un confronto per questo tipo di raffigurazione: una scena, rappresentata nella celebre Tomba etrusca della Caccia e della Pesca, rinvenuta a Tarquinia e più antica di una cinquantina di anni rispetto a quella pestana, in cui ugualmente un giovane si tuffa in mare mentre un altro si inerpica lungo un pendio verso la cima del quale si trova un arbusto contorto e quasi privo di foglie (Napoli 1970, 159-161). Offrendo la propria interpretazione di entrambe le scene, proprio a partire dalle osservazioni fatte a proposito degli alberi e dello sfondo bianco, Mario Napoli diceva: "Non crediamo a una scena di vita vissuta o di vita reale, come non vi crediamo per nessun'altra delle pitture arcaiche" (Napoli 1970, 201) e si soffermava poi sul tuffo, osservando acutamente che, nonostante l'ampia documentazione di cui disponiamo sulle attività agonistiche della Magna Grecia in epoca greca (nelle quali fra l'altro gli atleti italioti, secondo le fonti, si distinsero spesso e in numerose discipline), mancano del tutto documenti sulla presenza dei tuffi fra queste attività agonistiche, e manca perfino, nella lingua greca, il nome indicante il trampolino (Napoli 1970, 157).
Lo scopritore ricordava quindi la diffusione, nei miti e nelle leggende greche, di un significato di purificazione, di ricerca di immortalità e di sopravvivenza oltre la morte correlato con l'immersione (del resto molte volte rappresentata nella produzione ceramica in scene di lavacri, immersioni, bagni) e con il tuffo in mare. Ricordava che l'espressione "un tuffo nel Tartaro" si ritrova, nel V secolo a.C., nella commedia I minatori di Ferecrate, in cui si parla dei beni e della vita facile e gaudente dell'Ade. Una commedia che gli studiosi contemporanei sono soliti considerare come una satira delle teorie orfico-pitagoriche che suggerivano la possibilità dell'immortalità, nel senso di sopravvivenza oltre la morte (Napoli 1970, 164-165, 213).
In conclusione, Mario Napoli affermava che con ogni probabilità gli affreschi della Tomba del Tuffatore, e in particolare quello del tuffo sulla lastra della copertura, devono essere interpretati in chiave pitagorica come una "allegoria della liberazione dell'anima dal peso corruttibile del corpo, per la sopravvivenza della purificata anima al di là della morte" (Napoli 1970, 165) e concludeva ricordando l'ampia diffusione del pitagorismo in tutta la Magna Grecia e anche a Paestum, rilevando come "solo una forte fede verso l'al di là è il presupposto indispensabile perché si abbiano delle tombe dipinte nell’interno" (Napoli 1970, 165).
Detto ciò, e a seguito dell'indagine condotta sull'albero secco/spoglio, il fatto di ritrovarlo qui schematicamente codificato in due elementi simbolici, e pertanto assolutamente non naturalistici, ci spinge a ritenere che anche in questo caso il loro valore allegorico sia quello che abbiamo riconosciuto nella scena del mosaico pompeiano della Battaglia. Entrambi gli alberi della Tomba del Tuffatore definiscono un limite: quello al di qua del trampolino, la vita terrena che l'atleta ha appena abbandonato, e quello oltre lo specchio d'acqua, l'inizio di quell'aldilà su cui si appuntano tutte le incognite e le speranze dell'umanità inquieta. Il tutto circoscritto da uno sfondo uniformemente bianco e, come tale, astratto. Analogamente, l'arbusto spoglio che si trova lungo il pendio della rappresentazione della Tomba della Caccia e della Pesca definisce l'ardua salita degli ultimi istanti di vita, prima del tuffo verso l'aldilà sconosciuto e imprevedibile.
Infine più recentemente, e parallelamente a studi specifici sulle "rovine nella cultura antica" (Papini 2009; Colpo 2010) è stato osservato come anche in ambito romano "tanto le ruinae quanto i putres trunci non siano da considerare elementi di pura invenzione, ma facessero parte di una realta ben presente allo spettatore dell'epoca, al contempo committente e fruitore delle immagini" (Colpo 2011, 580). È stato notato altresì come "la pittura romana recepisca il motivo iconografico dal mondo ellenistico", dato comprovato "dalla loro ben nota presenza tanto nell'affresco dalla tomba di Filippo II, dove, con funzione deittica, circondano il personaggio a cavallo al centro della composizione, quanto nel mosaico con la battaglia di Alessandro e Dario" (Colpo 2011, 580). Inoltre, nelle raffigurazioni che presentano putres trunci è apparsa chiara "una pertinenza preferenziale degli alberi alla sfera del sacro", poiché sembra che "la funzione svolta dai putres trunci sia sempre quella di segnalare la presenza di un culto, ossia di definire uno spazio sacro all'interno della composizione" (Colpo 2011, 577). Le spoglie vegetali finiscono quindi con il segnalare nelle rappresentazioni figurative di epoca romana "in maniera semanticamente forte un concetto di 'diversità', un 'altrove', che a seconda del contesto può assumere connotati differenti" (Colpo 2011, 580), la cui comprensione è certamente affidata alla memoria e alla capacità interpretativa dello spettatore-fruitore, "in un ambito sociale e culturale in cui l'abitudine alla funzione semantica delle immagini era ben radicata" (Colpo 2011, 580).
Anche alla luce di questi esempi più antichi ma anche più recenti, riteniamo che l'interpretazione della rappresentazione dell'albero nel mosaico pompeiano risulti confermata e ulteriormente motivata: il pubblico, che fosse quello degli ascoltatori delle leggende, dei miti e dei testi sacri, dei seguaci delle teorie filosofiche oppure dei committenti e degli estimatori di scene pittoriche – per la propria dimora, come a Pompei, oppure per la propria tomba, come a Paestum o a Tarquinia – doveva ben conoscere e riconoscere il marcato significato dell'albero secco/spoglio come simbolo del passaggio irrevocabile di un limite.
Appendice
Tutto quanto detto porta naturalmente a porsi anche un'altra domanda, relativa all'inserimento e alla comprensione del mosaico di Alessandro all'interno della decorazione della ricca casa pompeiana che l'ospitò. Giacché, se nelle decorazioni parietali in stucco dipinto e nei pavimenti a mosaico è stata già da tempo felicemente individuata ed estesamente descritta (Zanker 1998, 564, 593-598) la predilezione ellenistica per la rappresentazione figurativa della gioia di vivere dionisiaca, in questa lettura sicuramente convincente il grande mosaico dell'esedra non trova però un posto soddisfacente; e infatti finora è stato sempre studiato separatamente rispetto all'insieme della decorazione della Casa del Fauno (Zanker 1998, 595).
Tutti coloro che se ne sono finora occupati hanno messo soprattutto in evidenza, oltre alla monumentalità e alla ricchezza intrinseca dell'opera, che dovevano evidentemente destare la meraviglia dei visitatori, e alla notorietà del soggetto trattato, che doveva renderlo facilmente riconoscibile, l'appropriazione da parte dei padroni di casa di un grande soggetto della storia, o semplicemente in omaggio alla più grande figura del mondo ellenistico, oppure a ricordo di un qualche coinvolgimento familiare in imprese collegate con il mondo macedone, oppure ancora con un intento di propaganda politica (Zanker 1993, 50; Zevi 1996, 45-46; Pesando 1996, 224-227). Eppure, per quanto di volta in volta convincentemente motivate, tutte queste precisazioni nulla dicono quanto alla scelta di un tale soggetto in rapporto con le altre rappresentazioni musive della casa, se non che alla fine per l'accumulazione di tutte queste opere d'arte la grande dimora dovette necessariamente diventare notissima fra i pompeiani, assumendo l'aspetto quasi di un museo, di una vera e propria "galleria di mosaici ellenistici" (Adamo Muscettola 1982, 722; De Caro 1999, 66).
Un rapporto, invece, deve esserci stato: nella ricerca di un effetto globale e sicuramente nella volontà di allusione del proprietario della grande casa, in cui come è stato dimostrato (Zevi 1996, 46; Sauron 2009, 22), non solo le prospettive architettoniche ma anche l'insieme delle decorazioni converge verso la grande esedra fra i due peristili. Un filo conduttore deve aver guidato la scelta generale dei criteri decorativi, la selezione dei soggetti artistici e la distribuzione di questi nei vari ambienti delle abitazioni, permettendo al dominus di comporre una sorta di messaggio programmatico (Sauron 1998, 52-53; Sauron 2009, 10-11) quale si ritrova in diversi altri esempi di abitazioni, risalenti alla stessa epoca e situate nella stessa area geografica (si pensi alla Villa dei Misteri nella stessa Pompei, alla Villa dei Papiri di Ercolano, alla villa di Publio Fannio Sinistore a Boscoreale, a quella più recentemente rinvenuta a Terzigno (D'Arms 1979, 65-86; Mielsch 1987; Neudecker 1988; Carandini 1989; De Caro 1996, 22-27; Pappalardo 2001, 39-50; Dunbabin 2003; Moorman 2006).
Un messaggio che però oggi è senz'altro difficile individuare, data la perdita di tanta parte delle decorazioni originarie e dato soprattutto il filtro della sensibilità moderna, sicuramente diversa e lontana da quella degli antichi. Il dominus dové concepire in sostanza un programma decorativo e allo stesso tempo dimostrativo dei propri principi e ideali, e lo fece realizzare per sé, per i suoi familiari e per una ristretta cerchia di amici che tali ideali e principi dovevano condividere e che, soprattutto, dovevano comprenderli e riconoscerli, sotto e dentro le forme artistiche che il dominus aveva prescelto per illustrarli.
La ricerca attualmente in corso, di cui questo saggio è da considerarsi il primo capitolo, si propone di dimostrare in maniera esaustiva quale sia stato questo intento (Margherita Tuccinardi, L'albero secco: la chiave di lettura della decorazione musiva della Casa del Fauno, in corso di pubblicazione).
Riferimenti bibliografici
- Adamo Muscettola 1982
S. Adamo Muscettola, Le ciste di piombo decorate, in La regione sotterrata dal Vesuvio. Studi e prospettive, Napoli 1982, 736-752. - Andreae 1977
B. Andreae, Das Alexandermosaik aus Pompeji: mit einem Vorwort des Verlegers und einem Anhang, Goethes Interpretation des Alexandermosaiks, Recklinghausen 1977. - Auberger 2001
J. Auberger, Historiens d'Alexandre, Paris 2001. - Baldassarre-Pontrandolfo-Rouveret-Salvadori 2002
I. Baldassarre, A. Pontrandolfo, A. Rouveret, M. Salvadori, Pittura romana. Dall'ellenismo al tardo-antico, Milano 2002. - Barbet 2001
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English abstract
The paper presents a new interpretation of the mosaic of the Battle of Alexander from the House of the Faun at Pompeii (now Naples, National Archaeological Museum) in light of the presence in the picture of a dry tree, which is the only natural feature that can be seen in an otherwise completely blank landscape. A connection between a leafless tree and Alexander is in fact attested in Marco Polo’s account of his travels; according to him, a Dry tree existed in a remote area of Central Asia referred to by local people as the place where ‘the famous battle between Alexander and Darius’ took place.
This connection provides the starting point for a re-examination of the entire status quaestionis concerning the Pompeii mosaic, which, the author argues, is not about the actual representation of a battle between Alexander and Darius, but rather evokes the Alexander of the late-ancient and medieval Romance, driven by a burning desire to reach beyond the end of the world and prove that no limit is given to human ambition and achievements.
keywords | Mosaic; Pompeii; Alexander the Great; Dumas; Battle of Alexander.
Per citare questo articolo: L’albero secco nel mosaico pompeiano di Alessandro Magno, M. Tuccinardi, “La Rivista di Engramma” n. 124, febbraio 2015, pp. 11-54 | PDF dell’articolo