Guerre, armi, arieti, Marte. James Hillman sul terribile amore per la guerra
antologia a cura di Silvia De Laude
English abstract
In quel giardino io ero nella Psiche,
mi accorgevo che tutto era psicologia intorno a me,
tutto parlava psicologicamente.
Il mondo è come un giardino in quanto si manifesta;
è un mondo di cose come alberi, sentieri, ponti;
è anche un mondo di intuizioni, di metafore, di insegnamenti –
a disposizione di ogni anima che passa –
dati con la facilità dei riflessi sul lago:
il giardino rende più intellegibile e più bella l’interiorità dell’anima.
James Hillman, intervista rilasciata a Silvia Ronchey (2014)
Se Lei parla di Zeus, egregio professore,
voglio pensare che deporrà in tal modo
un ramo d’olivo sull’altare della Memoria Memor, così che ella invii un Perseo
a liberare l’incatenato di Kreutzlingen e questi possa portare,
di ritorno a casa, un’offerta in ringraziamento alla Minerva Medica.
Aby Warburg, lettera a Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff (1924)
Il terribile amore per la guerra è il titolo di un libro di James Hillman, uscito per Adelphi nel 2005, e recensito da Monica Centanni e Daniela Sacco con la nota Per una fenomenologia politeista della guerra in Engramma n. 45. Da anni lo studioso americano, fra gli ultimi allievi di Carl Gustav Jung, sta cercando di insegnarci come un “politeismo poetico”, nel senso in cui lo intendeva Johan Wolfgang Goethe (“Siamo panteisti come naturalisti, politeisti come poeti e monoteisti nella morale”, n. 807 delle Massime e riflessioni), possa essere esteso dall’esperienza estetica all’inclinazione etica. Per Hillman, una sfida paradossale, connessa in particolare al suo cielo astrologico (ma anche etico e caratteriale) di “figlio di Marte”. Le biografie lo danno nato ad Atlantic City, nel New Jersey, il 12 aprile 1906, alle ore 9.05 antimeridiane, segno Ariete e ascendente Gemelli. Politicamente scorretto? Teoreticamente scorretto? Scorretto e basta?
Già allora (sono passati dieci anni), Hillman invitava a smascherare la finzione prospettica delle guerre ‘giuste’, ‘necessarie’, e magari anche ‘preventive’. Ha continuato nel capitolo dedicato a Marte del suo ultimo libro tradotto in italiano, Figure del mito (2015). Esiste, e sarebbe sbagliato illudersi che non esistesse, un vero “amore per la guerra”: perché la guerra – sembra – esercita un fascino irresistibile sui suoi attori e sulle sue stesse vittime. Il mito greco non ha rimosso questo amore terribile: Afrodite con la sua dolcezza e la sua grazia vitale prova per Ares un’attrazione che dice la commistione di crudeltà e bellezza; Ares è assassino ma anche musico, e danzatore. Niente di peggio che fingere la sua inesistenza. Chi non lo ama, anzi soprattutto chi non lo ama, deve avere la forza di guardarlo in faccia.
Da Figure del mito, in cui un intero capitolo è dedicato allo scomodo, odioso, imbarazzante dio che è Ares, sono tratti i brani che seguono; la titolazione dei paragrafi è nostra.
“Dio mi perdoni, lo amo più della mia vita”
Chi ha visto il film Patton, generale d’acciaio, ricorderà la scena in cui il generale americano, comandante della Terza Armata nel 1944-1945, mentre attraversa la Francia diretto in Germania ispeziona un campo dopo la battaglia. Terra sconvolta, carri armati incendiati, cadaveri. Il generale prende tra le braccia un ufficiale morente, lo bacia e, posando lo sguardo su quella devastazione, esclama: “Come amo tutto questo. Dio mi perdoni, lo amo più della mia vita”.
Quella scena mette a fuoco il mio tema: l’amore della guerra, l’amore nella guerra e per la guerra che è più forte della vita, un amore che evoca un dio, che è alimentato da un dio, che si manifesta sul campo di battaglia, un lembo di terra devastata reso sacro da quella devastazione.
Sono convinto che non potremo mai parlare con costrutto di pace e di disarmo se non penetriamo in questo amore della guerra. Se non entreremo nello stato in cui l’anima è marziale, non potremo comprendere la forza di attrazione della guerra. E in questo speciale stato dell’anima bisogna entrare in modo rituale: dobbiamo essere “arruolati”, e la guerra deve essere “dichiarata” (così come si è dichiarati pazzi, uniti in matrimonio o insolventi). Dunque proveremo ora ad “andare alla guerra”; e questo in base a un principio fondamentale del metodo psicologico secondo cui qualunque fenomeno, per essere compreso, va immaginato empaticamente. Per conoscere la guerra dobbiamo penetrare nell’amore della guerra. Nessun fenomeno psichico può essere scardinato dalla sua fissità se prima non spingiamo l’immaginazione fino al suo cuore.
Sigmund Freud: la guerra è un tema della psicologia
La guerra è un tema della psicologia, che Freud riconobbe e trattò in diversi scritti. E un tema che tocca alla psicologia affrontare, perché la filosofia e la teologia non hanno saputo coglierne la suprema importanza. La guerra è stata delegata alla storiografia, di cui diventa un sottocapitolo denominato “storia militare”. Oppure è stata espulsa dalla corrente principale del pensiero e affidata ai think-tank. Occorre dunque interrompere questa rimozione generale e cercare di applicare alla guerra una immaginazione che sappia rispettare la sua primordiale pregnanza.
“Il mio metodo, è esso stesso marziale”
Il mio metodo, che consiste nel prendere di petto, nel penetrare dritto al cuore, anziché girare intorno o riflettere, è esso, stesso marziale. Dunque entrando direttamente in argomento, ci troveremo a invocare il dio del nostro argomento. Nei cinquemilaseicento anni di storia scritta, sono state registrate almeno quattordicimilaseicento guerre: due o tre guerre per ogni anno di storia umana. Prendendo spunto dal libro di Edward Creasy, che descrive quindici battaglie decisive (Fifteen Decisive Battles, 1851), ci è stato insegnato che i momenti di svolta della civiltà occidentale avvengono in coincidenza di battaglie come Salamina e Maratona, Cartagine, Tours, Lepanto, Costantinopoli, Waterloo, Midway, Stalingrado... La determinazione ultima del destino storico, ci viene insegnato, dipende dalle battaglie, il cui esito dipende a sua volta dal genio invisibile di un capo o eroe, attraverso il quale si manifesta uno spirito trascendente. La battaglia e la sua incarnazione personificata diventano, nella storia secolarizzata, rappresentazioni salvifiche. Le statue dei nostri parchi, i nomi delle vie più maestose e le festività civili del nostro calendario commemorano l’aspetto salvifico della battaglia.
Eroi senza cantori, morti invano, cause perse
Eroi senza cantori, morti invano, cause perse. La ferocia del combattimento può avere poco a che vedere con il suo esito, il suo esito poco a che vedere con l’esito della guerra. Verdun, nella Grande Guerra del 1914-1918, ne è un esempio: un milione di morti e nessun esito decisivo. L’importanza, il significato di una battaglia non è dato dalla guerra, ma dalla battaglia stessa. […] Perfino il Nuovo Testamento è organizzato in modo tale che il capitolo finale, l’Apocalisse, che funge da appendice riassuntiva, ha come momento culminante la grande battaglia dello Armaghedòn.
Nelle elaborazioni più alte del pensiero umano, la filosofia indiana e la filosofia platonica, si immagina necessaria al benessere dell’umanità una classe di guerrieri, la quale, nella natura umana trova il suo corrispettivo nel cuore, inteso come le virtù del coraggio, della nobiltà, dell’onore, della lealtà, della saldezza di principi, dell’amore cameratesco, sicché la guerra è collocata non solo in una classe di individui ma in un livello della personalità umana organicamente necessario al giusto funzionamento dell’insieme. Sono riuscito a dimostrare la mia prima tesi, che le battaglie e l’elemento marziale non sono mere ricadute in un arcaico stato precedente la civiltà? Il marziale non può essere fatto derivare semplicemente dall’imperativo territoriale della nostra eredità animale: “Questo è il mio territorio, il mio spazio alimentare e procreativo; vattene o ti ammazzo”. Né le guerre nascono semplicemente dal capitalismo industriale con le sue crisi economiche, dalla mistica tribale e nazionalistica, dalla giusta difesa dello Stato, dal maschilismo patriarcale, da indottrinamenti sociologici né dalla paranoia e dall’aggressività psicologiche. (Paranoia e aggressività, prese come principi esplicativi, richiedono a loro volta una spiegazione.)
No, le guerre non sono soltanto opera dell’uomo; testimoniano anche di qualcosa di intrinsecamente umano che trascende l’umano, in quanto evocano potenze che sfuggono alla piena comprensione umana. Non soltanto gli dèi combattono tra loro e contro altri dèi stranieri, essi santificano le guerre umane, e vi partecipano e vi intervengono, come quando nel mezzo della battaglia i soldati odono voci divine o hanno visioni divine. È a causa di questa irruzione del trascendente che le guerre sono cosi difficili da dominare e da comprendere. Quello che avviene in battaglia è sempre in qualche misura misterioso, e pertanto imprevedibile, non è mai del tutto nelle nostre mani. Le guerre “scoppiano”. Un tempo i generali cercavano segni nel cielo, nel volo degli uccelli; oggi, fantastichiamo l’origine di una guerra in un incidente al computer. La dea Fortuna: nonostante i piani di battaglia più meticolosi e le ripetute esercitazioni, l’esperienza della battaglia è una ridda di sorprese. Ci occorre dunque una spiegazione della guerra che metta in conto il suo momento trascendente, una spiegazione che si ancori nelle archái, i princìpi primi dei greci: arché, non solo come in “arcaico”, termine delle spiegazioni storiche, ma come in “archetipico”, che evoca lo sfondo trans-storico, quel momento di epifania divina che è nella guerra?
Auctoritates: un passo del diario di Ernst Jünger
Ecco un brano del diario di Ernst Jünger, che registra l’inizio dell’ultima offensiva tedesca nel 1918:
Il grande momento era giunto. Dalle prime trincee si levò una cortina di fuoco. Ci alzammo in piedi, marciammo all’unisono, irresistibilmente diretti verso le linee nemiche. Fremevo di una furia folle, che si era impossessata di me e di tutti gli altri in maniera incomprensibile. Il desiderio travolgente di uccidere mi mise le ali ai piedi. La brama mostruosa di annichilimento, che aleggiava sul campo di battaglia, avvolgeva come una nebbia rossa il cervello dei soldati. Ci chiamavamo l’un l’altro con singhiozzi e frasi smozzicate. Un osservatore neutrale avrebbe forse pensato che eravamo in preda a un eccesso di felicità?
Lo iamatologo Donald Keene ha raccolto centinaia di tanka e altri scritti che testimoniano i sentimenti di grandi scrittori giapponesi (anche di quelli progressisti, di sinistra e cristiani) durante la Seconda guerra mondiale.
[…] Lo studioso di letteratura inglese Honda Akira annotò: “È stata una sensazione come di nuovi spazi che si aprissero. Adesso che l’espressione ‘guerra santa’ è chiara è sgorgato un nuovo coraggio e ogni cosa è diventata più facile a farsi”.
Testimonianze di vissuti positivi: che si fa?
Questi vissuti positivi lasciano perplessi. Ed è con questi che dobbiamo fare i conti, perché la ferocia e la confusione, lo sfinimento e la diserzione corrispondono alla realtà oggettiva dei fatti e non hanno bisogno di spiegazione. Ma l’uccidere con animo spensierato, la gioia di buttarsi nella mischia, il fatto che fanti con la baionetta innestata, cecchini in appostamento, siluristi sui cacciatorpedinieri dicano di non avere provato un odio particolare per il nemico né particolari aspirazioni eroiche, ma semmai indifferenza per la vittoria e perfino per la causa per cui pure mettevano a repentaglio la vita, magari essendosi offerti come volontari: questo sì che disorienta! A volte i soldati riferiscono di stati di percezione alterata, di un acuirsi della vitalità, di una nuova consapevolezza della bellezza della terra e della vicinanza del divino: la loro piccola storia, la loro misera squallida vita d’improvviso addolcita da un senso di trascendenza. “È un bene che la guerra sia così orribile” disse il generale Lee “o ce ne innamoreremmo troppo”.
L’amore è nella guerra
E al di là di tutto c’è il forte legame affettivo per il plotone, l’equipaggio, il proprio compagno. L’amore nella guerra. Tommaso d’Aquino osserva che i compagni d’arme mostrano una forma specifica di amicizia. L’amore in battaglia è complesso, delicato, altruistico e ardente. Non può essere ridotto alle formulette della moderna psicologia: rafforzamento della virilità con codici d’onore maschilisti, pressione del gruppo dei pari che inibisce la codardia, scoperta e liberazione, nello stress del combattimento, di tendenze omosessuali represse. Oltretutto, questo amore è così forte e trascende talmente gli scopi stessi della guerra, che è più facile che, per non venire meno ai compagni, un soldato spari al suo ufficiale che non al nemico di fronte.
Per illustrare questo amore dentro la guerra, condenserò un episodio della drammatica ritirata degli americani dal fiume Yalu, dopo la fallita invasione della Corea del Nord, descritto da S.L.A. Marshall. L’unica via di scampo passava per una stretta gola sotto tiro nemico.
[…] Amore e guerra sono stati tradizionalmente abbinati nelle figure di Venere e Marte, Afrodite e Ares. È un’allegoria convenzionale che troviamo riflessa in formule convenzionali: fate l’amore non fate la guerra, in amore come in guerra tutto è lecito; e nell’alternarsi di certe pratiche: riposo, ricreazione e riabilitazione nei bordelli delle retrovie, seguiti dal ritorno alle caserme di soli maschi.
Invece di questi accoppiamenti, che in realtà separano le due divinità ponendole come alternative, esiste un’esperienza venusiana all’interno dello stesso Marte. Essa si manifesta nell’esperienza fisica di amore per la vita nel bel mezzo del combattimento, nella cura per i particolari pratici che è incorporata in tutti i regolamenti marziali, nell’andare in giro a pavoneggiarsi agghindati come damerini dei soldati (oggi chiamati “i nostri ragazzi”) in libera uscita. Di chi sono figli costoro, di Marte o di Venere?
Perplessità mitologiche
Insomma, occorre considerare più attentamente l’aspetto estetico di Marte. Anche lì si cela un amore. Visti da bordo campo, dal punto di vista dei civili, i riti e la retorica militari appaiono kitsch e pomposi. Ma proviamo a considerare questo linguaggio e queste procedure come un modo per sensibilizzare l’immaginazione fisica attraverso la ritualità. Pensiamo alle infinite varietà di lame, affilature, punte, metalli e tempere che sono usate per i vari tipi di pugnali, spade, lance, sciabole, daghe, asce, scimitarre, aste, picche, alabarde, tutti mantenuti amorosamente affilati con lo scopo di uccidere. Pensiamo alle ricompense per avere ucciso: Croce di ferro, Croce della Regina Vittoria, Medaglia d’oro al valore militare, Croix de guerre; e agli accessori: frustino, pistole dal calcio in avorio, spalline, stellette, bastone di bambù. E poi, la musica: la Sveglia e il Silenzio, tamburi e cornamuse, pifleri e tamburi, trombe, corni, ottoni, marcette e bande militari, uniformi con galloni e cordelline. La sartoria militare: gli stivali alla Wellington, il montgomery, le cinture di Sam Brown, berretti verdi, giubbe rosse, il bavero alla marinara? Formazioni, ranghi, promozioni. Vessilli, stendardi, le parate con le bandiere in testa. La mensa ufficiali: assegnazione dei posti, brindisi. Il galateo militare: il saluto, l’addestramento, i comandi. La ritualità marziale dei piedi: dietrofront, segnare il passo, di corsa, le danze dei guerrieri. E la ritualità degli occhi: fissi! delle mani, del collo, della voce, la schiena dritta: “In dentro quella pancia, soldato!”. I nomi: Ussari, Dragoni, Ranger, Lancieri, Granatieri; e i nomignoli: giubbe rosse, teste di cuoio, uomini rana. Le mura e i bastioni di severa bellezza costruiti da Brunelleschi, Leonardo, Michelangelo, Buontalenti. Le bardature dei cavalli, le tacche sul calcio del fucile, gli stemmi colorati sul materiale in metallo, lettere dal fronte, poesie. Tutto lustro e perfetto; taci e ubbidisci. Grasso di vacchetta; armaioli, spadai; lo Scudo di Achille con sopra inciso il mondo.
La coscienza americana ha grossi problemi con Marte
I nostri documenti e miti fondativi descrivono il taglio intrinsecamente non marziale della nostra democrazia di civili. Lo si rileva nel Secondo, Terzo e Quarto emendamento della Costituzione, che limitano drasticamente il potere dei militari nella sfera civile. Lo si rileva nei racconti sui “minutemen” del Massachusetts contro i mercenari europei e le giubbe rosse e sui “Green Mountain boys” del Vermont e i guerriglieri di Francis “Swamp Fox” Marion: tutti civili. E lo si rileva nei texani alla battaglia di San Jacinto, trasandati e individualistici, a fronte degli ufficiali messicani, addestrati secondo il modello europeo.
Rispetto al nostro retroterra culturale europeo, noi americani siamo degli idealisti: non c’è posto per la guerra; la guerra non dovrebbe esistere. Non è un’esperienza gloriosa, trionfale, non ha creato una classe di guerrieri come in Europa, dai romani ai normanni passando per le crociate fino alla Battaglia d’lnghilterra. Saremo magari un popolo violento, ma non un popolo bellicoso; odiamo talmente la guerra da ricorrere alla violenza contro la guerra stessa. La volontà di mettere fine alla guerra fu tra le motivazioni del progetto Manhattan e della decisione di Truman di sganciare l’atomica su Hiroshima e poi anche su Nagasaki: una bomba per “salvare vite umane”, una bomba per fermare le bombe (la stessa idea della guerra per porre fine a tutte le guerre) – “obiettivo della guerra” si legge sulla statua del generale Sherman a Washington “è una pace più perfetta”. I nostri discorsi sul valore deterrente delle armi, che gli altri accusano di ipocrisia, riflettono veramente il nostro modo di pensare. La guerra è male, sradichiamo la guerra e manteniamo la pace con la violenza: spedizioni punitive, guerre preventive, mandiamoci i Marines!
Perplessità mitologiche, e altre
Maggiore potenza di fuoco significa pace più sicura. Noi mettiamo in atto la cecità del dio cieco (Mars Caecus, lo chiamavano i romani, e anche insanus, furibundus, omnipotens), vedi i soldati di Grant e di Lee nella battaglia del Wilderness, vedi il bombardamento di Dresda: la strage come sistema per porre fine alla guerra. Il controllo della vendita di armi da fuoco è un altro esempio significativo che suscita profonde perplessità nella società civile. Il diritto di portare armi è costituzionale e la nostra nazione e la sua storia territoriale sono dipese, nel bene e nel male, dalla dimestichezza con le armi da parte di milizie formate dai cittadini. Ma questo risale ai tempi in cui cavalieri solitari attraversavano le praterie con il fucile e la Bibbia (ed eventualmente la loro donna e il loro cane). Il fucile era protetto da un dio; quando stava appoggiato in un angolo della casa, la punta in alto, come la lancia dei romani che era Marte stesso, si rinnovavano il ricordo del dio e il reverente timore che egli suscitava e anche in parte la sua ritualità.
L’approdo su questa sponda dell’Atlantico
Il nostro sogno, nell’approdare su questa sponda dell’Atlantico, di sfuggire all’arruolamento nei giochi mortali di Marte sui campi di battaglia d’Europa non riesce a conciliare Marte con l’utopia americana. Di qui il paradosso della leva in tempo di pace, con la violenta ribellione che a volte questo determina. Il cozzo tra due prospettive archetipiche, quella civile e quella militare, risalta nettamente nell’episodio in cui, nel 1943 in Sicilia, il generale Patton, in visita in un ospedale da campo, schiaffeggiò due reclute ricoverate per stati ansiosi. Per l’indignato generale (un figlio di Marte) i due soldati erano dei lavativi, dei vigliacchi che non si preoccupavano dei compagni. Per l’indignata società civile americana, era Patton il vigliacco, che schiaffeggiava dei malati inermi e non aveva comprensione per il prossimo. Tra l’altro, il linguaggio corrente tradisce un pregiudizio in favore del civile già nel definirlo “civile”. Se stessimo parlando dalla prospettiva del militare, i civili li chiameremmo “mercanti”; “guerrieri” e “mercanti”: erano questi infatti i nomi tradizionali per indicare le due classi di cittadini in molte società, tra cui l’India e il Giappone, nonché nella suddivisione platonica della società, in cui i mercanti costituivano una classe inferiore a quella dei guerrieri (Fedro, 248 d), ai quali invece era proibita la proprietà privata (Repubblica, IV).
Due distinzioni ulteriori: città e campagna, nucleare e marziale
Nella Roma repubblicana, dove più si era elaborata la differenziazione del dio in una figura distinta, il suo culto era collocato nel Campo Marzio: un campo, un terreno. Marte era talmente legato alla terra, che molti studiosi rintracciano le origini del suo culto nell’agricoltura. Questo non fa che rafforzare la mia tesi: Marte non apparteneva alla città. Fino a Giulio Cesare e al cesarismo, alle truppe era proibito l’ingresso in Roma. Di norma il fine dell’attività marziale è sempre stato la conquista non tanto delle città quanto del territorio e la distruzione degli eserciti che lo occupavano. Perfino la guerra navale nel Pacifico (1941-1945) seguì la classica finalità della conquista territoriale. Il comandante marziale deve percepire la configurazione del terreno. E un geografo. Il cavallo (uno degli animali di Marte) era così fondamentale per i popoli marziali, perché i cavalli erano in grado di realizzare la strategia della conquista di terre. La strategia marziale è archetipicamente geopolitica.
L’immaginazione nucleare, al contrario, ha per misura le città e le sue fantasie di distruzione includono necessariamente i civili. E sulla città (e di conseguenza la civiltà, non importa se annientata dai missili balistici intercontinentali o conservata intatta, come premio al vincitore, dalla bomba al neutrone) che si concentra l’immaginazione nucleare. Le terre tra Kiev e Pittsburgh (e dunque l’Europa) rivestono una importanza relativa.
Una seconda differenza tra il marziale e il nucleare: Marte ti viene vicino, a distanza di braccio, Mars proprior, Mars propinquus. Bellona è una furia, la marea offuscata dal sangue, la nebbia rossa dell’immediatezza veemente. Non c’è distanza. Le abilità acquisite messe in atto istantaneamente, come nelle arti marziali. L’immaginazione nucleare, al contrario, si inventa distanze sempre più grandiose: intercontinentali, in fondo agli oceani, nello spazio cosmico.
A causa del ritardo temporale determinato dalla distanza, il computer diventa l’arma nucleare indispensabile. Il computer è l’unico mezzo per recuperare l’istantaneità data archetipicamente con Marte. Il computer comanda le armi nucleari, è il loro signore. Laddove il marziale è tenuto a freno non tanto da dispositivi faidate e da calcoli razionali quanto dalla ritualità militare della disciplina gerarchica, dell’esercizio, della ripetizione, del codice, dell’ispezione. E dagli ostacoli materiali della geografia: reperimento di viveri e materiali, boscaglie, brutto tempo, vari impedimenta. La nostra repubblica di civili non ha preso del tutto coscienza della distinzione che sto cercando di mettere in luce. Il soldato con l’anima del civile si ribella ai rituali militari, li trova insensati. Non coglie il fatto che essi servono a tenere a freno il Dio della Guerra e vanno quindi seguiti religiosamente (come insisteva Patton), come se l’esercito fosse un ordine religioso. Alla stessa stregua, la nostra repubblica di civili non sa vedere con sufficiente chiarezza la distinzione tra il militare e il nucleare, tant’è vero che affida il controllo delle esplosioni nucleari all’ordine militare nella persona del generale Grove. Se pensiamo alla infiammabile commistione del Dio della Guerra con il fascino spirituale e apocalittico del nuclearismo, è un miracolo se fino a oggi si sono avute soltanto esplosioni sperimentali.
Esplosioni sentimentali, altre esplosioni e e altre precisazioni
Un’altra differenza tra il marziale e il nucleare sta nelle rispettive visioni della trascendenza. Esse presentano due diverse immagini dell’elemento fuoco: la guerra e il fuoco della terra; l’apocalisse e il fuoco dell’etere o aria. E due diversi animali: l’ariete del territorio e del cozzo frontale; l’aquila del penetrante attacco a sorpresa e l’estasi ascensionale dell’esplosione nucleare. Inoltre, l’immaginazione nucleare non ha genealogia. Niente da ricordare, niente a cui attingere. Non ci sono precedenti nella storia. Nell’atroce, istantanea estinzione collettiva delle armi nucleari si è spezzato il nesso, per usare l’espressione di Robert Lifton, con la morte quale era stata configurata dagli antenati. L’immaginazione marziale, per contro, è imbevuta di commemorazioni. Le battaglie del passato e le biografie di militari sono i suoi testi sempre in via di scrittura. Percorriamo i campi di battaglia, meditiamo nei cimiteri di guerra. Ci sono dipinti di battaglie di scuola elvetica, per esempio, in cui si vedono scheletri mescolati fra la truppa: gli antenati combattono in mezzo a noi.
L’oratoria marziale nei diari, nelle poesie e nei ricordi di guerra parla di attaccamento a luoghi, compagni, oggetti specifici di questa terra. Il trascendente è nel particolare concreto. Scrive Hemingway che dopo la Grande Guerra “parole astratte come gloria, onore, coraggio sembravano sconce accanto ai nomi concreti dei villaggi e dei fiumi, ai numeri delle strade e dei reggimenti, alle date”. Chi conosce più la data del test nucleare di Alamogordo (o sa dove sia) o la data della bomba di Hiroshima, quella dell’esplosione della prima bomba all’idrogeno, o il nome delle persone, delle località e delle unità coinvolte? Sfumati nella nebbia dell’astrazione. Scrive Glenn Gray: “Ciascuna unità di combattimento deve avere un obiettivo delimitato e specifico. Gli obiettivi fisici (un tratto di terra da difendere, un nido di mitragliatrice da distruggere, un caposaldo da attaccare) tendono più facilmente a suscitare un senso di cameratismo”.
La psicologia marziale trasforma gli avvenimenti in immagini
La psicologia marziale trasforma gli avvenimenti in immagini: immagini dotate di fisicità, di confini, di un nome proprio. Hürtgenwald, Vimy Ridge, Iwo Jima. Quella spiaggia, quel ponte, quel passaggio a livello: i luoghi delle battaglie diventano iconici e sacri, immagini fisiche che reclamano l’amore umano più alto, un amore che vale più della mia vita. Ben diversa è l’esperienza trascendente della palla di fuoco nucleare. L’emozione, qui, è lo sbigottimento davanti alla distruzione in sé anziché un acuirsi del rispetto per ciò che viene distrutto. La devastazione nucleare non è semplicemente un cannoneggiamento più assordante o un bombardamento più spinto. È di natura diversa; è archetipicamente diversa. Evoca l’apocalittica trasformazione del mondo in fuoco, la terra che sale al cielo in una colonna di fumo, un fuoco epifanico che disvela l’intimo spirito di tutte le cose, come nel sermone del fuoco del Buddha:
Tutte le cose, o monaci, sono in fiamme. L’intelletto è in fiamme. Le idee sono in fiamme. La coscienza tramite l’intelletto è in fiamme.
[…] C’è un’ultima distinzione da sottolineare, una distinzione che potrebbe rivelarsi della massima importanza sul piano terapeutico. Mentre il nuclearismo provoca uno stato di “ottundimento psichico”, di stordimento, di sbigottimento, Marte opera in direzione esattamente contraria. Rende più acuti i sensi e intensifica il sentimento di solidarietà nell’azione, introduce quella energia rivitalizzante che i romani esprimevano come Mars nerio e Moles Martis: mole, massa, impeto nell’azione. Mobilitazione. Marte offre una risposta allo sconforto e al disorientamento e senso di impotenza che ci prendono di fronte alle armi nucleari ridestando in noi la paura, Fobos, suo compagno o figlio in Grecia, e rabbia, ira, furore.
Marte è l’istigatore, il militante primordiale
Marte è l’istigatore, il militante primordiale. Ovvero, per esprimere la contrapposizione in linguaggio escatologico, Marte è il Dio degli Inizi, il suo segno zodiacale è l’Ariete, il suo mese è Marzo, e anche Aprile, Mars apertus, l’apertura che fa succedere le cose. L’apocalisse sarà pure rivelazione, ma di certo chiude ogni futuro nella soluzione finale, veramente finale, dopo la quale non si dà riapertura, non si danno “ricorsi”. Spezzata è la ruota.
Può sembrare che abbia perorato la causa del minore di due mali e la mia evidente predilezione per Marte mi avrà fatto passare per guerrafondaio. Ma questo vorrebbe dire che mi avete ascoltato con orecchi soltanto letterali. Prendetemi piuttosto per un cultore di arieti, un amante di Marte. Prendete il mio discorso alla stregua di un rito devozionale dell’immaginazione, volto a costellare il suo potere risvegliatore. In questo modo potremo evocare il dio e nello stesso tempo deletteralizzarlo.
Omeopatia: cercare rimedio a un’afflizione rivolgendosi al principio stesso che l’ha causata
Era un uso degli antichi, ed è tuttora un metodo della psicologia, quello di cercare rimedio a un’afflizione rivolgendosi al principio stesso che l’ha causata. La cura del Marte che ci atterrisce è il dio stesso. E per poter differenziare i suoi affetti, occorre viverli da vicino. L’Inno omerico ad Ares lo chiarisce bene:
Ascoltami, protettore dei mortali, dispensatore della balda giovinezza,
riversa dall’alto sulla mia vita la tua mite luce
e la tua forza guerriera, così che io possa
allontanare da me l’odiosa viltà
e piegare nella mia mente la passione che inganna l’anima
e frenare la forza travolgente dell’ira, che mi spinge
a gettarmi nella battaglia agghiacciante; tu invece, o beato,
concedimi il coraggio di rispettare le norme inviolabili della pace
sfuggendo al tumulto dei nemici, e alla morte inesorabile.
Si direbbe che quanto più sapremo amare Marte, come in questo inno, tanto più riusciremo a discriminare tra le sue emozioni: a discernere (secondo le parole dell’inno) la passione che inganna l’anima, la forza travolgente dell’ira che spinge alla battaglia agghiacciante, e nello stesso tempo ad allontanare l’odiosa viltà.
Questa immaginativa devozione a Marte permette di deletteralizzare il dio al di là dell’interpretazione del suo significato, al di là dell’atto intellettuale del vedere in trasparenza. E per deletteralizzare intendo qui: il lasciarsi penetrare in maniera essenziale da una potenza archetipica, il partecipare al suo stile d’amore talché la sua coazione si sciolga nella sua immaginazione, nella sua angelica sagacia portatrice di un annuncio. Allora il dio è esperito nell’evento come immagine dell’evento e l’evento non ha più bisogno delle mie psicologizzazioni affinché l’immagine si riveli.
Non possiamo prevenire
Appunto questo è il mio scopo ora, mentre parlo: non già quello di indagare la guerra o l’apocalisse al servizio della prevenzione, ma di vivere la guerra e l’apocalisse in modo che trovino piena realizzazione le loro immaginazioni, diventino esse stesse una realtà. Non possiamo prevenire; solo le immagini possono soccorrerci; solo le immagini offrono providentia, protezione, prevenzione. Questa è sempre stata la funzione delle immagini: attuare la magia di una protezione sacra.
Non siamo più capaci, oggi, di immaginare esseri divini. Abbiamo perduto l’immaginazione angelica e la protezione che essa sa dare. […] Immaginiamo guerre del tutto prive di anima, di spirito, di dèi, così come immaginiamo la vita biologica e psicologica, i rapporti sociali e la politica, l’organizzazione della natura: senza anima né spirito né dèi. Le guerre rendono palese questo declino della ritualità e il prevalere del positivismo a partire da Napoleone e dalla guerra di secessione americana (1861-1865). La Grande Guerra del 1914-1918 fu stolidamente pervicace, pervasiva, prosaica, le “cupe officine sataniche” ora dislocate nelle Fiandre, sessantamila caduti britannici in un unico giorno sulla Somme, la stessa battaglia ripetuta ancora e ancora, sempre uguale, come un’argomentazione logica positivista. Ripetizione dell’insensatezza. Le guerre diventano insensate quando non c’è un mito dietro.
Congelare, disinnescare, smantellate, disarmare?
Le soluzioni letterali le conosciamo tutti: congelare, disinnescare, smantellare, disarmare. Disarmiamo il positivismo, piuttosto, ma riarmiamo il dio: restituiamo le armi e il loro controllo alle realtà mitiche che ne sono i governanti ultimi. Soprattutto: risvegliamoci. Per risvegliarci, abbiamo bisogno di Marte, il Dio dei Risvegli. Lasciamo che ci pungoli la coscienza, perché si possa sfuggire “alla morte inesorabile” nella “battaglia agghiacciante” e vivere la pace marziale della militanza.
“Una immaginazione bloccata”: su come rimuovere gli dèi antichi possa avere pericolose controindicazioni
Ho messo in relazione il nostro ottundimento con una immaginazione bloccata e la immaginazione bloccata con la rimozione di Marte e della sua forma di amore. Ma cinquanta minuti, come la psicoterapia ci insegna, non sono sufficienti per intaccare una tale rimozione. Spero tuttavia di essere riuscito a evocare Marte almeno un po’, quanto basta per farvelo avvertire mentre si agita nella vostra rabbia e nella vostra paura e nell’estensione dell’immaginazione verso il mondo esterno, così da affrontare domande come queste: Come possiamo predisporre il giusto campo d’azione per Marte? In quali modi l’amore marziale per l’uccisione e per la morte e l’amicizia marziale possono essere posti al servizio della società civile? Come possiamo spezzare la fusione tra il marziale e il nucleare? Quali modalità esistono per distogliere il marziale dalla violenza diretta e indirizzarlo verso la ritualizzazione della violenza? E possibile fare penetrare questi interrogativi nella coscienza postmoderna della psicologia immaginale, della decostruzione e della teoria delle catastrofi? È possibile decostruire il positivismo e il letteralismo (incarnati dall`assurda conta delle testate nucleari) che informano le politiche attuali prima che tali politiche decostruiscano, letteralmente e scientificamente, la nostra vita, la nostra storia, il nostro mondo?
Una invocazione a Marte
Rivolgiamo dunque una invocazione a Marte. Già un’altra volta almeno, in questo secolo, egli ci ha indicato la strada. Negli anni del suo regno – dal 1914 al 1918 – Marte distrusse la mente ottocentesca facendo nascere la coscienza moderna. Chissà che rivolgendoci a lui oggi non accada qualcosa di simile. Ma con Marte non basta la riflessione, ci vuole altro. L’ariete non si ferma a ragionare e il ferro non si specchia nella sua lustra superficie. Marte esige penetrazione fino all’essenza, il suo slancio aumenta nel folto del pericolo, e il pericolo oggi risiede nel groviglio irriflesso delle nostre menti anestetizzate. Occorre battere, martellare, torcere il ferro delle spade per farne aratri. Nonostante tutto, io credo che la decostruzione sia già in atto, con modalità talmente banali che non ce ne accorgiamo.
Il trasferimento della guerra dal campo di battaglia fisico allo schermo televisivo e alla fantascienza, la traduzione della guerra letterale in guerra mediatica – guerra mediata – e il linguaggio di fantasia dei war game; teatri di guerra e guerre teatrali, azioni di massa, scenari possibili, regia e strategia, prove generali, gli “attori” del conflitto: che tutto questo segnali un nuovo modo di ritualizzare la guerra nell’immaginazione? Se questo è vero, allora la guerra televisiva del Vietnam non è stata perduta. Quei caduti non morirono soltanto per la loro causa (se ci credevano) o per il loro paese (se gliene importava). Furono piuttosto attori sacrificali di un rituale che potrebbe decostruire completamente la guerra, trasformandola in una operazione immaginale. Forse, quella immaginata da Carl Sandburg – “Un giorno faranno una guerra e nessuno ci andrà” – è una fase che è già iniziata. Non occorre andarci, perché il servizio in onore di Marte è officiato ogni sera a casa nostra, alla TV. In una società mediatica, non è forse logico attendersi che la base dei profitti di guerra del capitalismo passi dal complesso militare-industriale al complesso militare-comunicativo/informativo, attuando con ciò la piena simbolizzazione della guerra?
Se non è possibile contenere la guerra nell’immaginazione, perché lo stesso non dovrebbe avvenire con la bomba nucleare? Il trasferimento dell’atomica nella immaginazione la metterebbe al sicuro sia dal marzialismo dei militari sia dal cristianismo dei civili. Ne sarebbero contenti entrambi: i primi avrebbero la loro arma, i secondi la loro apocalisse. E del resto, l’immaginazione sembra essere l’unico posto sicuro in cui conservare l’atomica: non esiste sulla terra alcun luogo letterale dove tenerla (né dove scaricare in sicurezza le sue scorie), così come non possiamo localizzare i nostri missili MX se non come immagini su di un monitor. Nondimeno, il contenere la bomba atomica nella mente come immagine richiede una straordinaria estensione delle nostre facoltà immaginative e un coraggio straordinario, una vera e propria rivoluzione dell’immaginazione che la insedi come la realtà più importante, perché l’atomica che l’immaginazione dovrà contenere è l’immagine più potente del nostro tempo.
Neutralizzare la fantasia apocalittica
La traduzione dell’atomica nella immaginazione è una transustanziazione di dio in imago dei, un atto che libera il nome ultimo di dio da tutte le letteralizzazioni, dal positivismo alla teologia negativa, un dio che è tutte le immagini. E, al pari degli altri nomi di dio, esso non può essere posto sotto il controllo della sola ragione né essere preso del tutto letteralmente senza conseguenze terribili. Compito di una psicologia del nucleare è il culto ritualizzato dell’atomica in quanto immagine, che non la lasci mai ricadere dalla sua colonna di nubi, lassù nei cieli dell’immaginazione, in una pioggia distruttiva sulle città della pianura.
La spada di Damocle della catastrofe nucleare che pende sulle nostre menti sta già producendo schemi di pensiero assolutamente nuovi sulla catastrofe stessa, una nuova tecnologia, una nuova scienza, una nuova psicologia, che non si limitano a gravare la mente con l’idea di una fine ineluttabile, ma la obbligano a entrare nella coscienza postmoderna, dislocando, decostruendo e facendo piazza pulita di ogni cristallizzata certezza. Questo è il sintomo che segnala una delle necessità psichiche di questa èra. Per sgombrare questa fine di secolo dalle sue coagulate nozioni occorrono la spietatezza disciplinata e il coraggio di Marte. Decostruire la mente bloccata, aprire una via di fede con la nostra rabbia e la nostra paura, stimolare i sensi anestetizzati: questa è militanza psichica nella forma più intensa.
[…] In altre parole: facciamo esplodere i concetti; che salgano in lingue di fuoco. Facciamo esplodere la mondanità, e non questo mondo; gli inferni e i paradisi; la salvazione, la redenzione e il viavai dei Messia: non ci basta la presenza continuativa del qui e ora? Chiudiamo nuovamente la speranza nel vaso di Pandora e guariamo dal vizio di farcene una dose quotidiana. Sgombriamo la continuità da tutte le fini e i nuovi inizi e le rinascite palingenetiche. Liberiamo la continuità dalla Storia: pensiamo agli animali e ai popoli arcaici, che conoscono la continuità senza la Storia. (Perché dovrebbero essere distrutti a causa delle nostre sacre scritture?). Allora la vita fuori dal tempo storico potrà continuare a rivelarsi senza bisogno di Rivelazioni; una volta perforati dall’intelligenza i veli del letteralismo, la vita ora si svelerà ora si celerà alla mente che immagina e dunque ama i veli. Nessuno squarcio improvviso, nessun finale apocalittico; ma un essere fuori dal tempo, inteso come la straordinariamente amorevole, amabile, terrificante continuità della vita sempre in atto.
This essay delves into the intricate relationship between humanity and war, particularly exploring the morbid fascination that some individuals hold for conflict. Drawing inspiration from the iconic scene in the film "Patton," where the general expresses a profound love for the devastation of war, the author probes the concept of a "love for war" that transcends reason and taps into deep-seated human impulses. The analysis extends to mythological figures like Mars, the god of war, and philosophers such as Plato, highlighting the historical association of war with virtues like courage and honor, and its perceived necessity for societal well-being. The author introduces the figure of Ernst Jünger, a German soldier and writer, who reflected deeply on his wartime experiences, underscoring both the positive and negative aspects of conflict.The second part of the essay contrasts traditional warfare with the threat of nuclear annihilation. While traditional war was tied to specific locations, rituals, and a sense of belonging, nuclear warfare presents an abstract and impersonal threat looming over all of humanity. The author then proposes a psychological exploration of war, suggesting that understanding and addressing conflict requires delving into the human imagination. By analyzing myths, symbols, and cultural representations of war, the author invites readers to demystify the figure of Mars and reconsider our relationship with violence. In conclusion, the essay offers a complex and multifaceted view of war, urging readers to move beyond simplistic notions of conflict as merely a negative event. The author suggests that comprehending the psychological and cultural depths of war is the first step towards transforming our relationship with it.
keywords | war, psychology, mythology, Mars, Ernst Jünger, nuclear weapons, imagination, violence, culture.
Per citare questo articolo/ To cite this article: Guerre, armi, arieti, Marte. James Hillman sul terribile amore per la guerra. Antologia a cura di Silvia De Laude, “La Rivista di Engramma”, n. 127, maggio-giugno 2015, pp. 243-359 | PDF