Giorgio Pasquali (1930) e Mario Praz (1934)
Due significativi contributi italiani su Aby Warburg
English abstract
Nell’ottobre del 1929 moriva ad Amburgo Aby Warburg: a pochi mesi dall’evento Giorgio Pasquali dedicava allo studioso una ‘memoria’‚ pubblicata nella rivista “Pegaso” che Gertrud Bing ebbe più tardi a definire “tra i tributi più belli e intelligenti che siano stati dedicati a Warburg”.
Nei primi mesi del 1933 usciva in Germania presso l’editore Teubner l’edizione delle Gesammelte Schriften di Warburg; poco dopo‚ a seguito dell’avvento al potere del Partito Nazional Socialista‚ “sotto la pressione degli avvenimenti politici” (come scrisse Gertrud Bing), l’Istituto Warburg venne trasferito a Londra. Nel 1934 Mario Praz nella rivista “Pan” recensiva la pubblicazione e commentava l’esilio a Londra dell’importante Istituto culturale.
Quando nell’autunno passato le riviste scientifiche cominciarono a diffondere per il mondo, o almeno per il mondo internazionale dei dotti, la notizia della sua morte, qui da noi molti anche tra gli universitari si saranno chiesti se quel nome era, oltre che di un’istituzione, anche di un uomo. Che l’amburghese “Biblioteca Warburg per [la] scienza della cultura” era più celebre del suo fondatore e direttore e (insieme con altri della sua famiglia) principale finanziatore. La biblioteca Warburg è già ora la più completa tra le raccolte specializzate di stampati e di materiale iconografico per chi voglia studiare in genere storia della cultura, ma in particolare storia della cultura del Rinascimento e segnatamente del Rinascimento nostro, fiorentino e italiano; e si trasforma una volta il mese in sala di conferenze su discipline varie, filosofia, storia delle religioni, delle arti figurate, dell’astronomia e dell’astrologia, in quanto tutte gravitano verso la storia della cultura: conferenze che sono ciascuna un avvenimento scientifico, tenute da competenti di ogni nazione (dei nostri ha parlato Arturo Farinelli); e si è fatta promotrice di due serie di volumi, iniziate da pochi anni, ma già celebri tutt’e due. Che l’uomo Warburg, il grande ricercatore Warburg, scompaia, scomparisse già da vivo, dietro all’istituzione da lui voluta, è conforme alle sue intenzioni: egli ha voluto essere innanzi tutto un maestro e un organizzatore, ha voluto che certi suoi pensieri scientifici, non molti forse di numero ma grandi e svolti organicamente, vivessero e fruttificassero soprattutto nelle menti dei suoi discepoli, che egli fin da principio considerava collaboratori e destinava successori. Né è caso che, mentr’egli si è per lo più tenuto pago di pubblicare le sue scoperte maggiori in forma straordinariamente succinta e compressa, per lo più quale resoconto o riassunto di conferenze, le sue idee, ancora lui vivo, siano state esposte nella loro connessione organica dallo scolaro che gli era da molti anni più vicino, Fritz SaxI.
Ma la sua personalità scientifica e umana fu forte, e sarebbe male che se ne tacesse in Italia. A Firenze egli ha vissuto gran parte della giovinezza, in intimità fraterna con quella generazione di studiosi di storia dell’arte che ora dirige le nostre gallerie; vi è tornato poi dalla sua Amburgo, credo, ogni anno sino alla guerra, e poi di nuovo, da quando glielo consentirono la pace e il progressivo allontanarsi di ansie che avevano, come vedremo più innanzi, turbato il suo spirito, fino a quest’ultimo autunno, che doveva suggellare con l’euthanasia una vita che per ragioni non contingenti ma essenziali, non fu sempre felice. E a Firenze soprattutto, mentre contemplava arte fiorentina e tentava raffigurarsi alla fantasia l’animo dei Fiorentini del Rinascimento, l’anima del nostro Rinascimento, gli si affacciò per la prima volta il problema, che già è in qualche modo formulato nella sua tesi di laurea, che doveva rimanere fondamentale per lui in tutta la sua attività di quarant’anni. Firenze fu uno dei poli della sua vita scientifica, che n’ebbe per vero più di due.
I
Parrà strano che parli qui del Warburg non uno storico dell’arte, di quelli che gli furono amici sin dalla giovinezza prima, ma uno che di conoscenza di arte figurata e di Rinascimento non fa professione, un filologo classico serio serio, uno studioso senz’occhi. Ma forse non è male sia così: il Warburg, che in quel primo lavoro era partito da considerazioni stilistiche, non si era già allora in quelle acquetato, e non mostrò poi mai, che io sappia, tenerezza, per problemi o tecnici o estetici puri: egli indagò sin d’allora l’arte quale espressione di cultura.
Fin da ragazzo Aby Warburg ha sdegnato le strade comode: il figliolo di una ricca famiglia di banchieri israeliti di Amburgo (ma nelle sue vene scorreva anche il sangue di un’ebrea italiana; una Del Banco virtuosa di canto, passata nel secolo XVIII da Modena ad Amburgo, e a lui questo non dispiaceva) era stato avviato a quegli studi medi che sono i più consueti e i più comodi per i ragazzi di quella classe sociale, al “ginnasio reale”, il prototipo del nostro liceo scientifico, cioè senza greco; il greco egli se l’è dovuto conquistare da sé quand’era già alle porte dell’Università: l’indagine alla quale egli consacrò la vita, ha appunto uno dei suoi sbocchi nella cultura ellenistica.
Studiò a Bonn, Monaco, Berlino, studiò e si addottorò a Strasburgo con una dissertazione sulla Nascita di Venere e la Primavera di Sandro Botticelli; ma aveva già passato uno degli anni universitari qui in Firenze lontano dalle università tedesche, lavorando sotto la guida di A. Schmarsow. E a Firenze tornò ben presto dopo la laurea; a Firenze, in italiano e in una strenna festiva del nostro Istituto musicale, egli pubblicò il lavoro che cronologicamente segue immediatamente la laurea; a Firenze egli aiutò lo Schmarsow a fondare l’istituto tedesco di storia dell’arte, che ora è istituzione statale, possiede una biblioteca mirabile e mirabilmente liberale, ed è uno dei centri internazionali più operosi per lo studio della nostra arte. Di qui nel ’95 mosse per un lungo viaggio che lo portò sino tra le Pelli Rosse del Pueblo. A Firenze ritornò, sposo di fresco nell’ottobre del ’97 e vi rimase fino al ’901.
Firenze e gl’Indiani dell’America del Nord: uno studioso d’arte fiorentina che s’interessa per l’etnografia di tribù primitive. Più sopra abbiamo nominato la cultura greca, ellenistica. Quale la sintesi di tali contrasti? A trovarla giova aggiungere ancora i nomi di due città tedesche, Bonn e Basilea: Bonn dove il Warburg udì le lezioni dello storico dell’arte Justi, ma anche del grande filologo Hermann Usener; Basilea dove hanno insegnato e scritto il Burckhardt e il Nietzsche.
Già nella dissertazione di laurea il Warburg tentava dimostrare che Sandro Botticelli attinge all’antichità, chiede aiuto ai modelli antichi, si giova di formule figurate desunte da sarcofagi, proprio là dove vuol rendere corpi in movimento. Questa non sarebbe secondo il Warburg una sua peculiarità ma si ritroverebbe in Agostino di Duccio, nel Pollaiuolo e, da un certo punto in poi, nel Ghirlandaio. Il Rinascimento fiorentino avrebbe scoperto nell’antichità il movimento, avrebbe considerato il movimento quale specificamente antico; il Rinascimento tutt’intero, non soltanto i pittori e gli scultori: il Poliziano prende a imitare da Ovidio la descrizione di femminili vesti scomposte e chiome scarmigliate. Leonardo, teoretico dell’arte, scrive: “Et imita, quanto puoi, li greci e latini col modo del scoprire le membra, quando il vento appoggia sopra di loro li panni”. E, come il Warburg espose più tardi, nelle figurazioni dell’antichità colpiva gli uomini del Rinascimento non solo il movimento delle vesti e dei corpi umani, ma anche il movimento, il turbamento dell’anima, l’emozione. Orfeo lacerato dalle Baccanti è ancora una scena fredda e insipida di cavalieri e dame medievali nelle illustrazioni dell’Ovide moralisé, che è del secolo XIV; diviene una rappresentazione tumultuosa ed atroce in un rame dell’Italia Settentrionale, che attinge a modelli antichi: di mezzo c’erano state le strofe del Poliziano. Una donna che piange in un rame del Mantegna, la Deposizione, non è disegnata dal vero, ma riproduce una maschera antica. Filippino Lippi non conosceva ancora il gruppo del Laocoonte, quando della morte di Laocoonte e dei suoi figlioli tracciò un disegno terribile. Il Laocoonte fu appunto tanto ammirato subito dopo la scoperta, perché gli uomini del Rinascimento erano internamente preparati a sentire l’arte rodia. Su chi fosse venuto dall’arte classica e dalla concezione classicistica di essa quel gruppo avrebbe fatto un’impressione di barocco; per gli uomini del Rinascimento fiorentino, classico o antico significava tutt’altro che olimpico, che apollineo.
Mi sbaglio, se già in questo primo lavoro del Warburg io sento una concezione dell’antichità che non è più quella tradizionale dei retori della serenità greca? Il Warburg conosce all’antichità classica due facce, l’apollinea e la dionisiaca, anche se non adopra queste espressioni. La vecchia fola stupida di popoli e di età che non sapevano il dolore, non ha già allora più presa su lui: egli sa che anche l’arte più classica è figlia della sofferenza, perché è figlia della vita, sa che essa conosce l’ebrezza, la passione, sin la follia. Ora, molti già prima del Nietzsche avevano osservato quanta ricchezza di contrasti si celasse nell’anima antica, avevano concepito cultura antica e spirito antico come sintesi di opposti. Ma nessuno aveva definito questa conoscenza in una formula sia pure, da un punto di vista storico, arbitraria ma chiara e che s’imprime nelle menti, nel contrasto fra apollineo e dionisiaco. Questa concezione della vita greca è stata poi ancora sviluppata e arricchita da un amico del Nietzsche, il Rohde, che forse gli aveva per primo suggerito, se non quei nomi, quei concetti, e da un suo avversario, il Wilamowitz, concordi tra loro più che per molti anni non ne abbiano avuto consapevolezza. Ed essa ha vinto sull’altra, considerata ormai astorica, antistorica, illuministica da tutti tranne da un pugno di provinciali retrivi.
Il Warburg si è accostato al Rinascimento fiorentino già con la scorta della nuova concezione dell’antichità, e ha subito osservato che i Fiorentini almeno da un certo tempo in poi avevano ammirato e imitato nell’arte classica proprio l’elemento non classicistico, dionisiaco. Imitare, è già forse un termine errato: al Rinascimento l’antichità fornisce i mezzi per chiarificare ed esprimere impulsi e sentimenti che già da tempo si celavano nei cuori, per disintossicarsi esteticamente, direi con frase che al Warburg almeno più tardi fu cara e gli era suggerita dalla Poetica di Aristotele (Aristotele l’aveva presa, con ogni probabilità, dalla medicina ionica). Un’età che avesse soltanto mirato a riprodurre il passato, non avrebbe prodotto nessuna opera grande; e gli uomini del Rinascimento non sono stati, grazie al cielo, soltanto umanisti, tanto meno poi puristi dell’età degli Antonini.
La deliberazione di andare nel Far West alla ricerca di indigeni non ancora contaminati da quella modernità che tutto livella, ha radici anche più profonde. Il Warburg a Bonn era stato scolaro di Hermann Usener, e non se ne dimenticò mai più. Hermann Usener fu forse il filologo più ricco d’idee tra i grandi Tedeschi della seconda metà del XIX secolo, e in molti campi della filologia classica impresse tracce profonde. Ma presto egli lasciò da parte la grande letteratura, ch’è sempre opera di spiriti ai quali gli dèi hanno concesso il privilegio della personalità e che quindi ai volghi sono sempre straniati, anche se nascono di popolo; e, Tedesco romantico, herderiano, si occupò specialmente del fenomeno nel quale meglio si esprime l’anima popolare, la religione, che può anche voler dire superstizione, astrologia, magia. Egli si fece editore di vite di santi nella speranza, per lo più vana, di ritrovare in essi le fattezze delle divinità pagane che essi hanno sostituite; e tracciò la storia più antica del Natale con implacabile forza di ragionamento e insieme con pietà vera (il libro è dedicato a un fratello pastore). Ma anche ricercò negli antichi Greci e Romani i resti di credenze e di sentimenti che testimoniano di tempi nei quali quelle razze sarebbero state primitive, ancora al livello degli Australiani e, appunto, delle Pelli Rosse di oggi. In un certo periodo della sua vita l’Usener volle essere, ancora più che filosofo e storico, psicologo. Egli credette che a certi gradi di sviluppo sociale debbano ugualmente su tutta la terra corrispondere determinate forme di religione; credette alla possibilità, in questo campo, di una tipologia storica.
Un altro maestro di Basilea, il Burckhardt, aveva già scorto chiaramente quanta parte la fede nella magia e un’altra superstizione in veste scientifica, l’astrologia, occupassero nell’anima complessa e non sempre armonica degl’Italiani, dei Fiorentini del Rinascimento. Il Warburg si ricordò dell’Usener, e, per intendere i Fiorentini del Rinascimento (non sembri un paradosso), varcò l’Oceano e traversò il continente americano. S’intende che anche su lui l’Usener operò come l’antichità classica sul nostro Rinascimento, svegliando, anzi esasperando curiosità che già gli sonnecchiavano dentro.
II
Nel ’901 il Warburg torna a stabilirsi in Amburgo. So poco della sua vita esterna negli anni immediatamente seguenti, e non importa. Avrà vissuto come ogni altro dotto che non sia inceppato dal bisogno di guadagnarsi la vita o distratto in mille direzioni da un molteplice insegnamento, che costringe a trattare problemi per i quali, solo man mano che uno li tratta, si sveglia l’interesse (maestro di scuola, parlo per esperienza). Ma quelli furono anche gli anni nei quali il Warburg (come soleva, lentamente) approfondì studi già iniziati e pensieri già balenati nel periodo fiorentino. Non mi riferisco al grosso fascicolo sugli affreschi di Domenico Ghirlandaio in Santa Trinita, pubblicato subito dopo il ritorno in patria, e nemmeno all’articolo più recente intorno al testamento del commettitore di quelle pitture, Francesco Sassetti. Certo, il trovare nel pio testamento di un cattolico romano osservante nominata sul serio quale forza cosmica attuale, quale, si oserebbe dire, divinità vera non detronizzata dalla religione nuova, la pagana Fortuna, quella stessa del cui simbolo Giovanni Rucellai volle ornata la Facciata di Santa Maria Novella; ma anche, del resto, quella stessa il cui simbolo appare già alla fine del XII secolo in Verona, sulla facciata di S. Zeno, quella stessa la cui capricciosa onnipotenza è ancora oggi esaltata ogni momento nei discorsi di qualsiasi popolano fiorentino, induce a riflettere, quanto più complessa e contraddittoria che non paresse anche al Burckhardt, fosse l’umanità del Rinascimento. Ma, insomma, che i più anche tra gli umanisti sentissero molto meno il contrasto con l’èra precedente, medievale, e con la concezione cristiana e cattolica della vita, questo tendono a provare anche opere recenti di nostri connazionali, che rivelano senso profondo del problema anche quando paiono frettolose. E che il Rinascimento non sia soltanto umanesimo letterario, che in esso abbiano avuto parte quasi preponderante anche classi che sapevano poco di latino, artigiani e artisti rivolti verso la matematica, verso l’esperimento, verso le invenzioni meccaniche, tutta gente che ficcava lo sguardo non nel passato ma nell’avvenire, è stato mostrato in questi ultimi anni con larghezza ed evidenza di particolari da un altro Tedesco italiano, Leonardo Olschki.
Quando parlo di studi nuovi del Warburg, approfonditi negli anni di Amburgo, tra il ’901 e la guerra, intendo parlare degli studi sulla magia e sull’astrologia del Rinascimento, sulle loro fonti, sulle connessioni culturali da essi testimoniate. Il frutto più saporoso di questi studi, maturatosi sotto il cielo di Amburgo, egli offerse a un’assemblea radunatasi in Italia, a un’assemblea internazionale ma nella quale gl’Italiani, crederei, prevalevano, al congresso per la storia dell’arte, tenuto a Roma nel ’912.
L’astrologia aveva dominato durante il tardo Impero incontrastata: la nostra settimana cristiana battezza i suoi giorni dalle divinità planetarie, dai “signori del tempo” che secondo l’astrologia decidono dei destini degli uomini; ma già un poeta dell’èra augustea, Tibullo, conosce la potenza del giorno sacro a Saturno, il sabato. Il cristianesimo ha poi saputo compiere anche questo miracolo, di uccidere l’astrologia: al principio del Medioevo essa qui in Occidente non è più una forza viva. Torna a essere nel XIII secolo, proprio nell’età che nella nostra Italia segna una rinascita. Essa era fuggita dinanzi alla Chiesa, ricoverandosi nell’Oriente islamitico. Dall’Islam si riaffaccia nell’VIII secolo a Bisanzio già orientalizzata; nel XIV ritorna anche nei paesi di antica cultura latina dall’estremo lembo occidentale della Spagna, che fu nel Medioevo araba. Un manuale di pratiche magiche, compilato nella cerchia di un re di Castiglia sospetto di “paganesimo”, Alfonso “el Sabio”, morto nel 1281, rende testimonianza di una concezione della natura, che oppone l’uomo quale piccolo mondo, microcosmo, al grande mondo, al macrocosmo; di una concezione che consente all’uomo di credersi capace, grazie ai talismani, a immagini delle potenze cosmiche, di costringere le cose a piegarsi al proprio volere: basta che la materia del talismano e il giorno e l’ora della sua fabbricazione corrispondano alla natura del dio ch’esso riproduce. Gli dèi principali sono ancora una volta le divinità planetarie. Il titolo del manuale che il Warburg scoperse, Picatrix, ci conserva il nome di un savio ionico leggendario, che fu originariamente un medico esistito davvero, seppure uno di cui non abbiamo, tra il gran numero di scritti falsamente attribuitigli, neppure un’opera autentica, Ippocrate. Greco l’autore presunto; la concezione storico-religiosa presupposta, non più greca antica ma ellenistico-orientale, derivata in ultima analisi dalle religioni astrali dell’Asia Anteriore, di Babilonia, penetrate nel bacino del Mediterraneo in quel periodo nel quale il mondo orientale si vendica della conquista di Alessandro, riversando sull’ellenismo la propria cultura o pseudocultura, dal II secolo a. C. in poi.
Le descrizioni dei talismani contenute nel Picatrix ci riportano a opere grandi di plastica antica, al Giove di Olimpia, per esempio, e a un famoso gruppo di Marte e Venere, ma anche a tipi di dèi mescolati di ferino, schiettamente orientali. Una preghiera a Saturno s’accorda, in un modo che non può esser casuale, con preghiere di astrologi greci conservate in manoscritti bizantini. Arte e religione greca ri-tornano in Occidente riorientalizzate attraverso l’ellenismo e l’Islam.
L’ astrologia rinnovata si è dalla Spagna diffusa per tutta Europa: seguace suo ardente fu Ruggero Bacone; qui da noi Cecco d’Ascoli ha suggellato col martirio la sua fede. Le dottrine del Picatrix informano di sé, pare, l’opera medica De vita triplici del grande platonico fiorentino Marsilio Ficino; il quale nell’altra sua opera De vita coelitus comparanda (dove coelitus deve intendersi del cielo empirico, non del paradiso cristiano e teologico) volle fondare sull’astrologia le regole della vita contemplativa per l’umanista, il litteratus ipocondriaco, suddito ma anche protetto di Saturno. E umanista (questa, secondo me, è osservazione che ha molta importanza per la concezione del nostro Rinascimento) il Ficino si sente proprio nell’astrologia, tanto da richiamarsi, contro il dubbio razionale sui poteri occulti, alla credenza concorde dell’antichità in essi. Quello che noi saremmo tentati di considerare nel Rinascimento elemento ancora medievale, è in verità greco, cioè ellenistico! Il famoso rame di Alberto Durero, che rappresenta la Melancholia, cioè il temperamento derivato da Saturno, è ispirato al Ficino, l’epistolario del quale era stato stampato nel 1497 proprio da un compare del Dürer. Questo pensiero, accennato chiaramente dal Warburg, è stato sviluppato in un libro particolare da due suoi seguaci ricchi d’ingegno e di dottrina, E. Panofsky e Fr. Saxl.
La ricerca del Warburg non è stata mai così fruttuosa come quando ha potuto incontrarsi con quella di un filologo classico puro, che sentì poeti greci, come i suoi scolari ci testimoniano ora dopo la sua morte, con tutto il calore e la chiarezza di un vero umanista, ma che scrisse soprattutto sull’astrologia ellenistica e le sue relazioni con l’Oriente, Franz Boll. In appendice alla sua opera principale, sulla Sphaera barbarica, sono stampati per opera dell’orientalista Dyroff il testo arabo e la versione tedesca dell’ “Introduzione” del maggiore astrologo del medioevo islamitico, Abu Ma’ zar († 886). Ora grazie ad Abu Ma’ zar riuscì al Warburg di decifrare il fregio mediano degli affreschi che Borso d’Este fece dipingere nel suo palazzo ferrarese di Schifanoia da Francesco Cossa. In esso, oltre ai segni dello zodiaco e ai loro signori, sono rappresentati tre simboli astrali, tre “decani”, cioè divinità sotto il dominio di ciascuna delle quali stanno i tre gruppi di dieci gradi che sommati formano i trenta gradi spettanti a ciascun segno dello zodiaco. Questi decani si ritrovano nell’astrologo arabo, ma hanno molto d’indiano, perché l’Arabo li ha desunti dall’opera di un Indiano, Varahamihira. Questi rifaceva alla sua volta l’opera greca di Teucro detto il Babilonio, ma nato a Cizico nel Nord dell’Asia Minore.
Quest’astrologia giunse probabilmente a Ferrara da Padova, dalla città universitaria e umanistica: gli affreschi originari della Sala della Ragione, che rappresentano pianeti, segni zodiacali e le professioni che sono sotto l’influsso dei singoli astri, erano stati compiuti già nel principio del secolo XIV, e furono forse ideati dal noto incantatore Pietro da Abano. La sala dipinta dal Peruzzi nella Farnesina dei Chigi simboleggia in divinità astrali la natività di Agostino così precisamente da consentire a un astronomo moderno di calcolarne l’anno.
Dall’Italia umanistica, anzi proprio da Padova, dove tanti Tedeschi sono stati studenti, l’astrologia prosegue il suo cammino trionfale verso la Germania della Riforma. La polemica contro e pro Lutero fu condotta anche da astrologi. Se Lutero non credette all’influsso degli astri, vi credette Melanchthon, e gli amici di Lutero consentirono nell’interesse di un presagio favorevole a spostare di un anno la sua nascita contro il suo volere, contro la testimonianza di sua madre. L’astrologia ellenistico-orientale approda alfine nelle figure dei calendari compilati al principio del XVI secolo per i contadini della Germania del Nord. Il Warburg parlava audacemente quanto spiritosamente di un itinerario Cizico-Alessandria-Oxene-Bagdad-Toledo-Roma-Padova-Ferrara-Augusta-Erfurt-Wittenberg-Goslar-Lüneburg. Qualche tratto minore fu forse percorso in senso inverso, com’è possibile fare anche sulle ferrovie dello Stato con i biglietti circolari, ma la direzione generale e le più tra le tappe sono sicure: averle stabilite, è il frutto grandioso di un’indagine che durò tutta una vita.
III
Il Warburg ha diretto lo sguardo specie sugli elementi dionisiaci e su quelli demoniaci che il nostro Rinascimento attinge dall’ellenismo, rispettivamente attraverso l’arte imperiale romana e manuali del medioevo orientale e islamico. Uomo nella ricerca equilibrato, egli non ha mai inteso negare che il Rinascimento abbia desunto dall’antichità anche elementi di serenità e di gravità, “apollinei”. La reazione contro il Winckelmann non l’ha mai trasportato a disconoscere quel molto di vero, seppure di troppo parziale ed esclusivo, che è contenuto nella concezione tradizionale dell’antichità. Ma egli si è chiesto: la concezione e il sentimento nuovo della cultura e dell’arte nel Rinascimento italiano e fiorentino è vittoria: vittoria su che? Che cos’era, il mondo estetico il cui giogo hanno scosso i grandi artisti fiorentini del Rinascimento? Il Warburg risponde con una formula sintetica: il naturalismo fiammingo. Alla sua indagine universale confini di territori, di nazioni, di razze non riescono alla lunga a sbarrare il passo. Egli sapeva che il nostro mondo occidentale era nel Medioevo meno livellato che ora, ma percorso con altrettanta facilità, seppure con rapidità un po’ minore, da movimenti spirituali. Gl’Italiani del Medioevo ultimo e del Rinascimento, e specie i mercanti fiorentini, hanno viaggiato, e le Fiandre erano nel secolo XV in certo senso meno lontane dall’Italia e da Firenze che oggi. I rappresentanti delle grandi case commerciali fiorentine, i quali divengono poi i capistipiti del nostro patriziato, ch’è appunto mercantile, si fanno ritrarre nelle Fiandre dai grandi artisti di lassù; i Medici decorano i loro palazzi di “tele fiandresche”; in pitture di qua figura gente vestita “alla franzese”. Ma le osservazioni iconografiche e stilistiche servono anche questa volta al Warburg a intendere un contrasto culturale, un’evoluzione nell’anima dei tempi di cui l’arte è quasi un simbolo. Egli prosegue il nascere e le vicende di questo naturalismo fiammingo nelle figurazioni degli dèi olimpici, contenute nelle illustrazioni a un libretto medioevale, al Libellus de imaginibus deorum di un certo Albricus, che non si sa bene chi sia, ma che forse è tutt’uno con quell’AIexander Neckam de Sancto Albano, chierico dotto morto nel 1217 a Londra. Egli, e del pari l’altro Inglese francescano che inserisce nelle sue edificanti considerazioni descrizioni di divinità antiche, il cosiddetto Fulgentius metaphoralis, attingono non all’arte figurata, ma, attraverso compilazioni latine, a filosofi greci del tempo imperiale stoici e neoplatonici, che, per salvare gli dèi li riducono a simboli. Ma Albricus, che non aveva scritto per pittori, è presto illustrato: e le illustrazioni si rinnovano continuamente nei tre secoli che il libriccino impiega per arrivare dall’Inghilterra passando per Francia e Borgogna, nell’Italia Settentrionale. Gli illustratori primi sono davvero medioevali o vedono negli dei simboli e nulla più; ma ben presto i Francesi subiscono influssi meridionali, giotteschi, imparano presto a dare alle loro miniature unità, restringendo il numero dei personaggi. Più tardi anche questo stile muta: ai compositori giotteschi, così severi nella loro architettura, sottentra il nuovo naturalismo; le illustrazioni divengono più narrative, si compiacciono di raccontar miti come mai sin allora, e non si fanno più scrupolo di allontanarsi dal testo, introducendo figure; né si peritano di disegnare corpi nudi, se pure corpi non ancora classici, anticheggianti. Quest’arte discende in Italia verso il 1420 e si trasforma colà di nuovo: un codice scoperto dal Warburg nella Vaticana, scritto probabilmente in Pavia, ci mostra una gioia di vita ormai incontenibile; un interesse estetico che sa allontanarsi dalla tradizione, ogniqualvolta l’arte lo richieda; una sintesi felice d’italiano e di francese. Verso il 1460 le carte da giuoco cosiddette del Mantegna proseguono la tradizione nordica, francese dell’AIbricus; ma le figure sinora piatte sono divenute plastiche; e una di esse, anzi, riproduce una delle antiche opere di arte più celebri nel secolo XV, un Hermes del V a.C. portato in Italia da Ciriaco d’Ancona. Questo il primo contatto tra illustrazioni che vogliono mostrarci gli dèi dell’antichità, e statue veramente antiche di dèi!
Il fregio mediano di Schifanoia mostra, abbiamo detto, influssi orientali, arabi e indiani; quello superiore che rappresenta il trionfo degli Olimpi, per quanto ispirato nel complesso a un poeta classico riscoperto di fresco, Manilio, non nasconde in certe figure influssi nordici o, se volete, occidentali, di Fiandra e di Francia. Gli dèi incedono su carri trionfali, come solevano incedere le figure mascherate nelle feste del tempo, appunto i “trionfi”. Quelle feste volevano essere classiche, ma erano insieme una continuazione di forme già familiari all’età di Dante e insieme delle cerimonie della Francia medievale, il paese dell’Europa d’allora più festoso e più cavalleresco; un’altra radice sarà stata, come già sapeva il Burckhardt, la processione, che è anche istituzione cristiana e medievale. Anche per questo rispetto al Rinascimento è sintesi più complessa che non si creda comunemente. Il Warburg voleva delineare la storia delle relazioni culturali tra Nord e Sud, giovandosi appunto delle feste; e proprio su feste italiane, toscane, aveva raccolto nella sua biblioteca un materiale abbondante e raro. Ancora una conferenza tenuta in Firenze pochi anni or sono trattava quel tema: io sono lieto di essere stato fra gli ascoltatori.
IV
Il Warburg, per rimaner fedele alla sua Amburgo e alla biblioteca che già andava radunando, rinunzia due volte a salire cattedre di storia dell’arte, offertegli, con la consueta libertà di spirito, dal Ministero prussiano. Ma poiché egli non volle andare alla montagna, la montagna venne da lui. Quando in Amburgo dalle Vorlesungen, libere letture in qualche modo appoggiate al glorioso Istituto Coloniale, sorse l’Università, il Warburg fu nel ’913 nominato professore onorario di storia dell’arte.
Maestro egli era nato, tant’è vero che le sue scoperte più importanti sono, più spesso che ragionate in memorie, esposte in suntini di conferenze, in fogli volanti o in appendici di giornali, difficili talvolta a trovarsi se non per chi li abbia avuti in dono da lui, anche in questo generosissimo. E del maestro egli aveva la dote più necessaria, più costitutiva, la calda umanità: il Warburg non ha mai fatto sentire, perché non ha mai sentito egli stesso, la distanza tra sé e il giovane che per la prima volta lo accostava con sentimenti stranamente divisi, per metà fiero di un modesto resultato raggiunto, per metà trepidante nel dubbio che cosa ne avrebbe pensato l’uomo celebre. E in tempi difficili ha considerato quale proprio dovere aiutare i principianti anche finanziariamente senza umiliarli, procurando loro lavoro scientifico a pagamento, facendone tanti collaboratori della sua impresa maggiore, la biblioteca Warburg.
Il Warburg sentiva il bisogno di espandersi. Quest’uomo turbato da ombre paurose riacquistava di colpo la letizia, sapeva essere sereno e arguto, ogniqualvolta parlava in una cerchia di gente disposta a capirlo. Io ho ascoltato di lui parecchie conferenze. Non so s’egli fosse o no buon parlatore nel senso convenzionale, retorico della parola; ma so che parlava a volte di séguito per ben più a lungo dell’ora accademica, perfino due ore, perfino più di due ore: eppure non mi sono mai stancato. Poiché non pensava mai alla forma ma sempre alla cosa, riusciva sempre efficace, e mai noioso. Parlava senza manoscritto, spesso senz’appunti, senza aver dinanzi agli occhi altro che il materiale figurativo necessario. Parlava ex plenitudine cordis senza far nulla per celare quel suo accento di signore amburghese, che urtava più ancora certi Tedeschi del Sud che noi stranieri. E non si peritava di intrecciare frizzi al suo discorso, se frizzi gli venivano in bocca, di rivolgersi personalmente a qualcuno dell’uditorio, quando sapeva che qualche particolare avrebbe interessato questo in modo particolare. Un parlatore, dunque, spontaneo; qualche mio collega lo avrebbe probabilmente trovato privo di dignità accademica. Ma già il suo stile didattico (e il suo stile era sempre didattico) era più vivo che austero, e non rifuggiva da immagini della vita comune, da frasi di moda tratte a un nuovo senso, da adagi: se volete, diatriba cinico-stoica, o anche dialogo socratico-platonico; conferenza sofistica mai.
Era un maestro divertente, perch’era un uomo divertente. Io credo che molti, Tedeschi e stranieri, cioè Italiani, si ricorderanno con piacere delle ore passate in compagnia dell’omino piccino, coi baffi color pepe e sale e cogli occhi indicibilmente dolorosi. Ed era una vera festa, quand’egli, profittando di un talento più diffuso fra i Tedeschi che in qualunque altro popolo (ho visto io un grande filologo di Berlino, Fregoli nuovo e maggiore, rifare un’adunanza di Facoltà con ventiquattro membri presenti), imitava tipi o persone che lo avevano colpito. Non so se parlasse perfettamente l’italiano, ma sapeva riprodurre i modi e l’accento fiorentino in tal modo che, pregato di sostituire momentaneamente un venditore di biglietti di lotteria allontanatosi per spicciolare in una bottega una sua banconota troppo grossa, accettò, e trasse in inganno un altro popolano che veniva anche lui a comprare il biglietto, finché una risata degli accompagnatori del Warburg non gli ebbe rivelato l’errore.
Un uomo di questa fatta doveva avere molti amici tra i coetanei e tra i giovani. Fascino di simpatia è necessario a chiunque voglia conquistare al servizio della sua scienza i propri compagni di umanità. Grazie principalmente all’umano calore che si sprigionava dalla personcina del Warburg, egli ha potuto trar profitto per la sua storia della cultura da vecchi e da giovani, da teologi, filologi classici, archeologi, orientalisti, medievalisti, storici puri, filosofi, astronomi, medici. E grazie a questi suoi pregi d’animo, che si combinavano in lui con la facoltà organizzatrice, la sua opera sarà anche dopo la sua morte proseguita in tutte le direzioni, anche in quelle in essa appena accennate.
V
Dal ’18 al ’24 il Warburg ha combattuto con una malattia mentale. Testimoni autorevoli ci rivelano ora dopo la sua morte ch’egli a un certo momento aveva cominciato a vivere i suoi problemi non soltanto quali storicità. L’impulso a ricercare quale eterna realtà abbia animato la magia, e l’astrologia dell’ellenismo e del Rinascimento, ma anche la magia degli uomini primitivi, vivo in lui almeno da Bonn in qua, divenne a poco a poco, nell’animo suo, centrale. Egli credette, in certo senso, alla magia, risentì tutti i timori irrazionali dell’uomo primitivo. La malattia fu in un certo senso la continuazione della sua ricerca scientifica; e, che è più strano, egli continuò durante la malattia, profittando di quelle esperienze morbose, la sua attività scientifica. Il suo scolaro più caro narra: “Nel 1920 il professore parla nel pomeriggio di Lutero” (la memoria, profonda ma sana, su Lutero e l’astrologia della Riforma è stata finita durante la pazzia), “scrive nel pomeriggio le pagine meravigliose su logica e magia; la mattina era stato un uomo magico, che credeva al demonismo delle cose inanimate”. Ma alla malattia egli seppe resistere, vincendola per mezzo del pensiero scientifico e dell’attività scientifica: in uno strano sdoppiamento il Warburg non cessò mai di osservare se stesso, e in se stesso di scoprire l’uomo primitivo che ha nella magia la sua logica.
Gli anni dopo la guarigione furono, e anche questo è singolare, i più sereni della vita del Warburg; io l’ho riveduto più quieto e più lieto al suo ritorno in Italia, nel ’27, di come l’avevo lasciato nel ’15, spaventato al pensiero della guerra inevitabile tra Germania e Italia, che avrebbe, egli temeva, scavato per sempre un abisso tra i due paesi che amava. È morto improvvisamente, ma la sua vita è in certo senso compiuta. Egli lascia pronto per la pubblicazione un atlante figurativo, che prende nome dalla memoria, Mnemosyne, e deve mostrare come i diversi paesi e le diverse generazioni, l’Oriente mediterraneo del Medioevo e il Medioevo Europeo, il Rinascimento italiano e tedesco, infine la generazione e la cerchia del Rembrandt (sul Rembrandt egli aveva pronto un lavoro) abbiano successivamente concepito, e concependo trasformato, l’eredità “patetica”, dionisiaca dell’antichità. In quell’atlante egli ha voluto vivere per i posteri. Gli studiosi giovani opereranno secondo le sue intenzioni, secondo il suo spirito, se non accetteranno senz’altro concezioni che sono strettamente legate con la potente personalità di lui, se invece di quell’atlante si serviranno come di una pietra di paragone dei propri pensieri. Gli storici dell’arte e gli scienziati della cultura hanno il dovere di rendere fruttifera l’opera del Warburg, lasciando che essa operi su loro, cioè trasformandola.
Aby Warburg, Gesammelte Schriften
Hrsg. von der Bibliothek Warburg, unter Mitarbeit von Fritz Rougemont, Hrsg. von Gertrud Bing‚ Teubner, Leipzig-Berlin, 1932, due voll. illustrati, Mk. 40 (“Pan” II, 1934, 624-626)
Mario Praz
Di Aby Warburg e della sua opera parlò Giorgio Pasquali in “Pegaso” (aprile 1930) in modo tale che anche i lettori che prima ignoravano fino il nome dell’umanista israelita non avranno dimenticato “l’omino piccino, coi baffi color pepe e sale e cogli occhi indicibilmente dolorosi” che era un maestro grande e divertente. Umanista è un titolo comodo e capace, ma al Warburg mi pare che meglio si confaccia del nome di dotto col quale i più connettono freddezza e aridità. Ardore di ricerca e disinteresse erano invece tratti così salienti del Warburg che le sue opere più gli premeva diffonderle fra i discepoli che farle rendere fino all’ultima stilla d’inchiostro. Di certe sue vaste concezioni non è serbato nei saggi ora raccolti che il canovaccio; ed è evidente che occorre illuminare l’opera con l’uomo, per non rischiare di confonderlo con un paziente coordinatore di curiose notizie, con uno spigolatore ai margini del prato vivo della storia. Alto era il suo disegno se la ricerca era minuta e pareva perdersi in infinitesimi. Studiare le sfumature dei trapassi da periodo a periodo in quella storia della cultura che era la sua passione, ecco il suo compito; e la trasmissione dell’eredità classica fu il pernio delle sue ricerche. Un particolare del costume osservato in un disegno, la ricorrenza di un motivo ornamentale, uno svolazzo di veste, una chioma fluttuante, una piega ovale, un exvoto di cera, un coperchio di scatola effigiante un’impresa d’amore, tutte queste cose che gli uomini di alta statura e di grandi gesti non curano, l’omino piccino le accarezzava con le sue mani amorose di collezionista; ma i suoi occhi vedevano lontano e profondo e non è detto che quella ossessione che lo dominò per un lungo periodo d’anni, ossessione di poteri occulti operanti dietro le piccole cose e le grandi, fosse in tutto e per tutto pazzia. Forse quell’ “impaziente aspirazione ad un punto di vista più ampio” contro cui egli insorge (nel saggio sulle Imprese amorose nelle più antiche incisioni fiorentine) come quella che fa troppo in fretta sorvolare su particolari significativi, conduce al superficialismo non solo nella storia della cultura: e per mancare di quella impaziente e comoda aspirazione i suoi occhi divennero “indicibilmente dolorosi”.
I due bei volumi delle opere editi dal Teubner mettono ora a disposizione d’ogni biblioteca il contenuto di quegli opuscoli esauriti o difficili a trovarsi che i suoi amici e discepoli avevano la fortuna di ricevere in dono dal Warburg. Sulla moltitudine delle osservazioni singole presiedono quei motivi conduttori che il Pasquali ha così chiaramente riassunti per i lettori di “Pegaso”; è un arsenale in cui ogni studioso della storia della cultura trova di che giovarsi, anche se le idee del Warburg non toccano direttamente il suo periodo speciale. Che i Fiorentini del Quattrocento, per esempio, cercassero negli antichi soprattutto schemi dinamici (il cosiddetto elemento dionisiaco), spiega non soltanto l’arte del Rinascimento; spiega pure il perché del contrasto tra quell’arte e il neoclassicismo esaltato dal Winckelmann e trionfante nello stile Impero, ispirato a un ideale di solenne calma; e un capitolo della storia del gusto che il Warburg avrebbe saputo condurre da pari suo, potrebbe mostrare il diverso trattamento, nei due periodi, dei medesimi motivi ornamentali desunti dagli antichi, e, insieme, la curiosa deformazione o cristallizzazione neoclassica di motivi rinascimentali. Da un medesimo punto di partenza classico si giunge ai due estremi del nervosismo di Botticelli e Filippo Lippi, e della statica freddezza di tante opere neoclassiche.
Quella imponente raccolta di materiale per servire alla storia della cultura che va sotto il nome di Biblioteca Warburg, non è più ora un vanto di Amburgo. Gli uomini di alta statura e di grandi gesti, fissi nella loro impaziente aspirazione a un punto di vista più ampio, non si sono accorti, o, se se ne sono accorti, non si sono curati che la bella raccolta passasse al di là del Mare del Nord. Una questione di razza, basata su categorie metafisiche e culminante in manifestazioni d’un vertiginoso sintetismo, ha determinato un’altra di quelle piccole tragedie individuali il cui cumulo influisce sul corso della storia non meno efficacemente dei grandi gesti. Quando gl’israeliti tedeschi cominciarono a cercar rifugio in Inghilterra, gl’inglesi, popolo quant’altri mai attaccato alla propria razza, di fatto il solo popolo del mondo che ancor conservi una concezione aristocratica all’antica, decisero di ospitarli, poiché sapevano che quegl’israeliti portavano con sé come fardello d’esilio non i luridi stracci e gli avari forzieri e i leggendari sacrifici umani dei ghetti, ma le più feconde idee scientifiche e i più vasti tesori di cultura del mondo germanico. E si parlò allora dei greci che migrarono da Bisanzio nel Rinascimento, e aprirono nuovi orizzonti all’Occidente. Ora la Biblioteca Warburg risiede al pianterreno di un modernissimo palazzo di Westminster, Thames House, a pochi minuti dal Parlamento. Forse la riva del Tamigi non è così diversa dalla riva dell’Elba; anche qui il traffico fluviale si svolge sotto un grigio cielo, e gli studiosi israeliti tedeschi ospitati da Thames House potranno sentir meno la nostalgia della patria che li ha ripudiati.
English abstract
Two important Italian contributions to the history of Aby Warburg and the transfer of the Warburg Institute to London. In October 1929, Aby Warburg died in Hamburg. A few months after the event, Giorgio Pasquali dedicated a ‘memory’ to the scholar, and published it in “Pegaso”. Gertrud Bing would later describe it as amongst the most beautiful and intelligent tributes to Warburg. In the first few months of 1933, Warburg’s edition of Gesammelte Schriften was published by Teubner. Shortly after, following the rise to power of the National Socialist Party, and under ‘pressure of political events’ (as Gertrud Biing wrote), the Warburg Institute was transferred to London. In 1934, Mario Praz reviewed and commented on the exile to London of the valubale cultural Institution in the journal “Pan”.
Per citare questo articolo / To cite this article: Seminario Mnemosyne, Giorgio Pasquali (1930) e Mario Praz (1934). Due significativi contributi italiani su Aby Warburg, “La Rivista di Engramma” n. 25, maggio/giugno 2003, p. 7-25 | PDF