Un inedito umanistico sul mito di Prometeo
Celio Calcagnini, Epitoma super Prometheo et Epimetheo
Introduzione, testo latino e traduzione a cura di Alessandra Sandrolini
English abstract
Il manoscritto latino 7192 della Biblioteca Vaticana di Roma è un codice miscellaneo che contiene 58 diversi testi latini e greci; alle carte 203-210 si trova l’Epitoma super Prometheo et Epimetheo scritta, come si legge nell’intestazione, da Celio Calcagnini per Niccolò da Correggio. Dato che l’Epitoma non fu compresa nell’edizione dell’opera omnia di Calcagnini pubblicata a Basilea nel 1544, il testo è rimasto finora inedito. La calligrafia, una cinquecentesca facilmente leggibile, non pone particolari difficoltà di decifrazione.
La scoperta del testo di Calcagnini è recente e, pur essendo l’autore molto noto, non è stato oggetto di particolare interesse da parte della critica. Il primo che scoprì il testo nel manoscritto fu Paul Oskar Kristeller, che ne diede notizia a Dora e Erwin Panofsky, autori di un testo sul mito di Pandora[1]. Poiché il manoscritto in questione è un’epitome sul mito di Prometeo, vi si trovano anche alcuni accenni alla nascita di Pandora, creata da Zeus per punire l’umanità del furto del fuoco, accenni che vengono brevemente citati (peraltro con qualche errore di trascrizione) da Panofsky.
Solo due anni dopo, in un interessante articolo pubblicato sul “Journal of the Warburg Institute” scritto da un’iconologa italiana, Olga Raggio, ritorna una rapida menzione del manoscritto, del quale la studiosa venne a conoscenza tramite una riproduzione in fac-simile fornitagli da Panofsky[2]; in questo caso, però, il modo sbrigativo in cui viene liquidato il nostro inedito non appare giustificato dall’esigenza di limitare le divagazioni erudite rispetto al nucleo centrale del discorso, visto che lo studio della Raggio è dedicato proprio alla storia artistica e letteraria del mito prometeico.
Nel 1976 il belga Raymond Trousson, studioso della civiltà e della letteratura francese del XVIII secolo, pubblica un saggio completo sulla storia letteraria del mito di Prometeo, nel quale compare solo una nota di commento al manoscritto vaticano, l’esame diretto del quale, secondo lo studioso, non avrebbe rivelato nulla di originale, visto che l’autore si limiterebbe a raccogliere fonti mitografiche già molto note ai suoi tempi[3].
Per quanto riguarda l’aspetto mitografico, il manoscritto presenta invece alcuni aspetti interessanti che vale la pena mettere in luce: innanzi tutto siamo di fronte a un testo coltissimo, pieno di rimandi e citazioni da autori della classicità, non solo da quelli più noti, che nella loro opera hanno dato molto spazio alla storia del Titano (come Eschilo nel Prometeo Incatenato, Platone nel Protagora, Luciano nei Dialoghi), ma anche da autori più tardi, vicini alla cristianità e sicuramente più noti nel Medioevo, quali Igino, Claudiano o Servio. Non mancano inoltre numerosi riferimenti ad autori propriamente medievali, come Lattanzio, Fulgenzio, l’autore bizantino che compilò il lessico della Suda e altri scrittori nelle cui opere il mito pagano si trova relegato su un piano secondario, citato come pretesto eziologico o snaturato in una rilettura moralizzata, se non addirittura ‘cristianizzata’. Una tale interpretazione allegorica è presente nella Genealogia Deorum di Boccaccio, che costituirà poi un importante riferimento per la ripresa del mito da parte di Marsilio Ficino. La principale fonte moderna di Calcagnini sembra essere, a sua volta, proprio la rielaborazione del mito che Marsilio Ficino offre a partire dal testo platonico.
Il nostro manoscritto è databile tra gli ultimissimi anni del Quattrocento – quando l'autore, figura di enciclopedico umanista nato nel 1479, aveva circa vent'anni – e l'inizio del Cinquecento, più precisamente il 1508, anno della scomparsa del principe destinatario.
Come recita l’intestazione del manoscritto, esso è dedicato a Niccolò da Correggio, il piccolo centro emiliano legato alla casa ferrarese degli Este. Niccolò studiò come umanista a Ferrara e svolse per la città numerose ambascerie; come diplomatico e consigliere personale di Ludovico il Moro si stabilì a Milano per otto anni fino al 1498, dopodiché tornò alla corte estense, dove non di rado era impiegato anche come poeta e autore di drammi teatrali.
Molto probabilmente i rapporti tra i due eruditi, il Calcagnini e il Correggio, ebbero modo di nascere e consolidarsi proprio alla corte estense, dove il primo, ferrarese di nascita, dopo un decennio di servizio militare divenne inizialmente segretario ducale, poi professore utriusque linguae all’Università, infine consigliere del cardinale Ippolito d’Este. Proprio in questi anni il Calcagnini si cimenta non solo nello studio dei classici, ma anche in una produzione encomiastica in lingua latina. In seguito il suo interesse si concentrò su questioni politiche e legali, ma anche etnografiche – visto che le missioni diplomatiche gli consentivano di entrare in contatto con lontane popolazioni dell’Europa orientale (Ungheria, Polonia, Ucraina) – e persino astronomico-scientifiche, come testimonia il trattato Quod coelum stet, terra moveatur.
L’attività letteraria di Niccolò da Correggio era direttamente rivolta ai signori e ai principi della corte, doveva rispondere ai loro specifici desideri di committenti e adeguarsi alle cerimonie e agli svaghi cortigiani cui erano finalizzate. Essi avevano un carattere certamente encomiastico e piacevolmente narrativo; non privi di erudizione classica, ricorrevano al repertorio mitologico anche grazie a travestimenti, secondo quanto comandava il gusto dell’epoca. Tuttavia, dovendo gestire le continue, numerosissime richieste dei committenti, Niccolò organizzò un’attività di produzione letteraria quasi ‘imprenditoriale’, approfittando dell’aiuto di copisti, compilatori e amici più eruditi di lui.
Potrebbe darsi perciò il caso che l’Epitoma che qui pubblichiamo costituisse una sorta di preziosa bozza: una ‘scheda tecnica’ sulle fonti antiche e le varie versioni di un mito non troppo noto nel Rinascimento, qual era quello di Prometeo. La storia del Titano, una vicenda cruda collocata ai primordi del mito e della storia, proprio per la ‘grazia primitiva’ che la caratterizza potè trovare nella Ferrara estense un ambiente propizio per la sua riscoperta e diffusione: anche gli aspetti più eccentrici della natura, dai più misteriosi ai più realistici e grotteschi, enigmatici, magici e terribili, potevano essere in questa corte oggetto di rappresentazione artistica e di intrattenimento.
Nell’ambito di questa attività, Niccolò collabora, per esempio, all’ideazione della medaglia di Isabella d’Este, nella quale la Marchesa compare in veste di terribile Nemesi vendicatrice, e per la quale Niccolò propose tre motti diversi: BENEMERENTIUM ERGO, quello che poi fu scelto da Isabella, è un ringraziamento agli astri protettori di Giove e del Sagittario, segni di regalità e potere[4], NATURAE OFFICIUM, GRATITUDINIS STUDIO. Probabilmente avevano tutti un significato simile: la riconoscenza calorosa verso la natura, o meglio verso gli astri, cui va il merito del successo della Marchesa (vedi, in Engramma, il saggio Bonoldi, Centanni).
In un’altra occasione, legata alle nozze di un principe bolognese, il Correggio compose e portò in scena la Fabula di Cefalo, un dramma mitologico tratto da un soggetto antico non molto conosciuto, se non per la versione derivata dalle Metamorfosi di Ovidio e per la trasposizione pittorica che ne diede poi Piero di Cosimo nella tavola nota come La morte di Procri, oggi conservata alla National Gallery di Londra.
Secondo quanto ha dimostrato la critica americana Sharon Fermor, il dipinto di Piero deriverebbe direttamente dall’opera teatrale ferrarese, alla quale probabilmente assistette qualcuno che poi volle commissionare un dipinto sul medesimo originalissimo soggetto.
Ma ritornando al caso del nostro manoscritto, esso costituiva una ricapitolazione delle vicende letterarie di Prometeo, destinata a coprire le lacune del Correggio sul mito, ma indubbiamente espressa sotto forma di un personale omaggio letterario: Calcagnini infatti inserisce nel testo anche un proprio componimento poetico.
Da qui deriva anche la particolare struttura del testo, suddiviso per maggior chiarezza in paragrafi, che mostra un evidente sforzo di sistemazione cronologica, nel tentativo di rispettare tanto l’ordine del ‘tempo mitologico’, quanto quello del ‘tempo storico’ in cui si situano le vicende del Titano. La prospettiva di osservazione dell’autore è quindi duplice: da un lato essa rispetta la cronologia delle fonti; dall’altro, nel rispetto di un’unità letteraria del racconto mitico, tenta di non spezzare lo svolgimento drammatico degli eventi.
Questa epitome può dirsi quindi una summa delle principali fonti sul mito di Prometeo conosciute direttamente o indirettamente nel Rinascimento, che poi corrispondono pressappoco a quelle note anche oggi. Calcagnini conosce Esiodo, la fonte antica principale per il mito oltre ad Eschilo; Platone, la cui versione gli è nota forse solo attraverso la traduzione e il commento di Ficino; Servio; Igino – e probabilmente attraverso questo Pausania e Apollodoro; Luciano, che riferisce una favola di Esopo[5]; l’autore bizantino della Suda; Lattanzio; Fulgenzio – dal quale trae una citazione di Petronio; Claudiano e Plinio.
Non diversamente dagli altri umanisti che furono autori di manuali di mitologia (Giraldi, Conti, Cartari), Calcagnini mostra dunque un’ampia conoscenza degli scrittori greci e latini; tuttavia è questo, a quanto mi risulta, un caso isolato di trattatello in cui la ricerca è limitata a una sola figura mitologica.
In questo senso il testo di Calcagnini è esemplare non tanto per la tipologia o il genere letterario nel quale si iscrive (quello mitografico), quanto piuttosto per la sua funzione: l’epitome su Prometeo non è una ‘scheda’ da inserire in un completo dizionario dei miti, né l’inizio di un più vasto progetto rimasto incompiuto, ma un’operetta singola concepita e conclusa in sé.
Il fine per cui queste pagine furono scritte non pare essere la pubblicazione, bensì l’utilizzo per la consultazione e lo studio da parte di un amico, nella fattispecie anche poeta e cortigiano, che forse si riservava di trarne materia per una delle sue opere letterarie o teatrali.
Interessante è che l’unica rappresentazione visiva rinascimentale del mito prometeico si debba ancora a Piero di Cosimo, in un ciclo, Le Storie di Prometeo, composto da due (o forse più) pannelli per una casa aristocratica fiorentina, conservato il primo a Monaco di Baviera (Alte Pinakothek), il secondo a Strasburgo (Musée des Beaux-Arts).Sono poche le notizie inerenti alla provenienza dei due dipinti: il pannello conservato a Monaco, che venne citato per la prima volta da Berenson negli Indici del 1909 con l’attribuzione a Piero di Cosimo, giunse nella sede attuale dalla collezione Kauffmann di Berlino nel 1917; il pendant, invece, fu acquistato dal Musée des Beaux-Arts di Strasburgo nel 1896 dalla collezione inglese Robinson. Esso fu reso noto lo stesso anno da Ulmann[6], che però lo considerava opera della bottega di Piero, e da Loeser [7], che invece lo ritiene autografo debole e tardo. Tutta la critica sulle Storie di Prometeo è concorde nell’indicare la paternità di Piero di Cosimo e una cronologia tarda, come proponeva già il Venturi [8] nel 1911: si tende per lo più a collocare le due opere al secondo decennio del Cinquecento, vale a dire tra 1510 e 1520. Tale datazione è sorretta soprattutto da osservazioni stilistiche.
Dato il precedente caso di derivazione diretta di un dipinto di Piero (La morte di Procri di Londra) da un’opera di Niccolò da Correggio, verrebbe da ipotizzare un collegamento diretto tra le due tavole e un soggetto teatrale o comunque letterario del principe-poeta ferrarese (del quale peraltro sappiamo con certezza che sono perduti alcuni drammi).
Si tratta di un’ipotesi suggestiva ma ancora tutta da dimostrare: solo ulteriori ricerche sul rapporto tra l’ambiente fiorentino e quello di Ferrara, tra le figure del Correggio e del Calcagnini, nonché sulla committenza delle opere di Piero di Cosimo, potrebbero portare qualche chiarificazione riguardo ai mezzi e alle modalità in cui si verificò, in due casi così apparentemente lontani e differenti, la precoce rinascita di un mito tanto raro, ben prima della riscoperta di Eschilo, che si poté rileggere in originale quando fu pubblicata a Venezia la prima edizione a stampa nel 1518: solo allora il mito di Prometeo conoscerà, grazie alla forza poetica conferitagli dal dramma eschileo, una nuova fortuna letteraria e iconografica.
Il testo di questa Epitoma può essere dunque un piccolo tassello utile per ricostruire il quadro complessivo delle relazioni esistenti tra gli eruditi e le diverse corti rinascimentali e, più in generale, la complessa articolazione di circuiti di elaborazione e trasmissione culturale, formati da eruditi, filosofi, principi, poeti, cortigiani, pittori, scrittori teatrali, tutti diversamente implicati e in vario grado chiamati a contribuire alla realizzazione di un’opera d’arte, fosse essa un poemetto, un dramma, un dipinto o una medaglia.
Se dunque nel caso del Cefalo possediamo il dramma (di Correggio) e il quadro (di Piero di Cosimo), nel caso di Prometeo possediamo l’Epitoma inedita (di Calcagnini) che potrebbe aver dato spunto a un dramma (perduto, di Correggio, a cui l’Epitoma è dedicata) e quindi alle Storie di Prometeo di Piero di Cosimo. La tessera mancante dunque potrebbe essere stato un testo teatrale dedicato al Titano, forse solo progettato o magari realizzato e a noi sconosciuto.
Sono comunque attestate molte relazioni tra gli intellettuali dello Studio ferrarese, autori di commedie e cortigiani addetti all’organizzazione di feste e spettacoli per la corte: Guarino Veronese tradusse su richiesta di Isabella d’Este le commedie di Plauto; suo figlio Battista è autore della traduzione dei Menecmi (per la quale si fa anche il nome di Niccolò da Correggio come volgarizzatore) con cui si inaugurano, nel 1486, una serie di spettacoli plautini. Nel 1532 lo stesso Celio Calcagnini tradusse per il duca Alfonso I il Miles gloriosus, che doveva essere rappresentato durante il Carnevale di quell’anno [9].
Gli intellettuali ferraresi vengono mobilitati dalla corte non solo per incarichi diplomatici e ruoli di rappresentanza, ma anche per mansioni oratorie in occasioni pubbliche e cerimoniali: in questo caso, per esempio all’ingresso di un ospite illustre in città, gli oratori si esibiscono su palchi collocati nelle piazze allestite di apparati trionfali e la loro recitazione assume un carattere espressamente teatrale. L’abilità retorica poteva poi essere esercitata in dispute a contrasto, come quelle cui partecipava il giovane Celio, alla maniera dei sofisti antichi. Ma soprattutto, i dottori dello Studio collaboravano alla formazione di una cultura teatrale d’avanguardia impegnandosi in un continuo lavoro di équipe per tradurre in volgare le opere dei classici, che i principi desideravano portare sulla scena [10].
Essendo del tutto carenti i dati per ipotizzare concretamente una rappresentazione teatrale del mito di Prometeo, dobbiamo limitarci ad osservare i dipinti di Piero di Cosimo, che ambientano i fatti in una tipica scena da satira, secondo i dettami di Pellegrino Prisciani (autore di un’operetta, Spectacula, che teorizza la pratica teatrale e documenta una serie di spettacoli realizzati alla fine del Quattrocento): essa è ricca di “arbori, spelonche, silve, monti et altre simile parte agreste” [11].
Una prima sperimentazione del genere satirico-pastorale si era avuta proprio con la Fabula di Cefalo di Niccolò da Correggio, che costituiva un’adeguamento del repertorio antiquario alla cultura e sensibilità contemporanee: la favola mitologica assume significati morali che rispecchiano i principi del mondo cavalleresco. Questo stesso procedimento sembra realizzarsi nell’epitome su Prometeo, che si conclude con un esito felice (la liberazione) tratto da un dialogo di Luciano, dal tono comico e moraleggiante, seguito da un inno: un cortigiano e conviviale omaggio alla generosità del Titano, ossia l’istituzione dell’usanza celebrativa della collana e dell’anello.
Si possono riscontrare anche coincidenze, dal punto di vista compositivo, con il Timone di Matteo Maria Boiardo, opera scritta su commissione alla fine del Quattrocento ma mai rappresentata sulle scene: l’autore utilizza come fonte dichiarata un testo classico di tipo etico, ossia l’omonimo dialogo lucianeo, ma vi aggiunge poi una parte del tutto originale, che corregga il severo giudizio nei confronti del protagonista. L’amaro esito del dialogo è sostituito da un più lieto fine, proponibile al principe e alla corte, nel quale si insegna che la ricchezza è un necessario attributo che deve però essere usato con moderazione, solo come decoro di cortesia e gentilezza.
La conclusione dell’Epitoma di Calcagnini dà rilievo al ruolo di Prometeo come saggio interprete del futuro: il suo consiglio può salvare la sorte di Giove, il quale si dimostra magnanimo e capace di fiducia e perdono. Allo stesso modo un intellettuale è il necessario supporto del sovrano, che deve essere disposto a distinguere le colpe passate dai nuovi meriti.
Indubbiamente i pannelli di Piero di Cosimo che appartengono all’ambiente fiorentino, non mostrano tale slittamento di contenuto, e sembrano piuttosto decrittabili secondo suggestioni ricavate dall’impervia mistica neoplatonica. Tra l’altro, la stessa suddivisione tra cielo e terra presente in questi dipinti ricorda l’impianto scenico su due livelli tipico della sacra rappresentazione, piuttosto arcaica per l’ambiente ferrarese, dove si prediligevano invece nuove (più classiche) scelte. Comunque il nostro manoscritto è databile proprio agli anni in cui, secondo la critica, Piero di Cosimo dipinge le sue due tavole con la storia di Prometeo.
Da segnalare poi, come possibile collegamento tra il nostro manoscritto e l’opera pittorica, che nel testo di Calcagnini, precisamente nel paragrafo dedicato alla versione platonica del mito di Prometeo, si fa riferimento al ruolo di Mercurio come inviato di Giove in terra per donare la sapienza politica agli uomini. Di seguito a questa frase viene riferito che Prometeo subisce una punizione per l’errore commesso da Epimeteo:
Hanc vero mox Iuppiter per Mercurium hominibus prebuit. Sed Prometheus erroris, quem Epimetheus perpetravat, deinde poenas dedit.
L’accostamento di questi due differenti episodi del mito nel testo di Platone, che si ritrova sia nella traduzione ficiniana che nel resoconto del Calcagnini, può essere all’origine di una rara variante del mito, secondo la quale non già Efesto, bensì lo stesso Mercurio riveste il ruolo di ‘aguzzino’ di Prometeo. Questa variante – testimoniata per la verità già nella fonte letteraria utilizzata da Piero di Cosimo, la Genealogia Deorumdi Boccaccio, vero ‘best seller’ del tempo – è presente anche nel dipinto di Strasburgo, in cui si vede appunto Mercurio con tanto di calzari alati e cappello da viaggiatore, che lega il Titano.
È possibile proporre inoltre un confronto tra la struttura ad episodi dei dipinti di Piero di Cosimo e la logica narrativa dell’Epitoma: entrambi tendono a privilegiare una narrazione cronologica degli eventi, all’interno della quale si inseriscono però divagazioni e riferimenti ad eventi futuri. Nella tavola di Monaco vi è un uomo piegato a terra che porta sulle spalle il peso di un enorme masso, immagine che anticipa la futura punizione a cui sarà sottoposto Prometeo.
Nell’Epitoma di Calcagnini, alla fine del racconto platonico, si accenna brevemente alla pena cui sarà sottoposto (“Sed Prometheus erroris, quem Epimetheus perpetravat, deinde poenas dedit”) prima di ritornare sull’episodio della creazione dei due fratelli: in questo brano, tratto da Claudiano, la maestria dell’uno è fortemente contrapposta alla incapacità dell’altro. Il primo dipinto di Piero sembra anch’esso strutturato in due parti contrapposte: a sinistra si vede Epimeteo, autore di una statua ricurva e goffa, mentre a destra Prometeo foggia una figura maestosa.
Inoltre, nel dipinto si può notare che il cielo è occupato a sinistra da Venere e a destra da Saturno , divinità rispettivamente ispiratrici dell’istinto che compete agli animali e ai bruti (alludendo alle caratteristiche dell’uomo creato da Epimeteo) e della ragione (che aiuta Prometeo nel forgiare l’uomo). Ugualmente, dopo la citazione di Claudiano, Calcagnini fa riferimento a questa lettura neoplatonica, affermando che Epimeteo rappresenta il dominio dei demoni inferiori sull’uomo, mentre Prometeo la provvidenza superiore che porta all’elevazione dello spirito.
Ancora, nella seconda tavola di Strasburgo Piero di Cosimo inserisce, in secondo piano rispetto alla scena del dono del fuoco e dell’incatenamento di Prometeo, un 'flashback' sull’episodio di Pandora.
Anche Celio Calcagnini, nel brano in cui racconta l’episodio esiodeo del banchetto di Mecone, inserisce un breve resoconto del mito di Pandora, che anticipa il furto del fuoco e il relegamento del Titano. Se il testo di Calcagnini si conclude con la liberazione di Prometeo e con l’invenzione degli anelli e delle collane (a ricordo delle sue catene), l’ultimo episodio dipinto da Piero è quello della punizione del Titano, legato da Mercurio e divorato dall’aquila.
Non si può escludere tuttavia che il ciclo pittorico comprendesse altre tavole, precedenti e successive alle due note, nelle quali potevano trovare posto, per esempio, la scena iniziale della truffa di Mecone, e poi la liberazione e la celebrazione del Titano.
Se le fonti alla base dell’Epitoma e dei dipinti sono il Protagora di Platone per Calcagnini e la Genealogia Deorum di Boccaccio per Piero di Cosimo, non mancano tanti brevi riferimenti ad altri modelli tematici e stilistici, cosicché l’impressione generale è di chiarezza e semplicità narrativa ma non priva di gusto per la variatio.
L’analisi dell’Epitome su Prometeo ed Epimeteo ci consente di rintracciare le fonti dirette e indirette di Calcagnini di svolgere dunque tutti gli annodati percorsi di permanenza della tradizione, osservando il passato tramite una sorta di anacronistico ‘cannocchiale del Cinquecento’: in esso il nostro sguardo si trova a incrociare quello di un erudito, appassionato degli antichi ma ancora vincolato all’ottica cristiana, un umanista al quale Ficino ha rivelato la grandezza di Platone ma che non sa ancora riconoscere quella di Eschilo.
Celio Calcagnini, Epitoma super Prometheo et Epimetheo
traduzione di Alessandra Sandrolini, consulenza e revisione della traduzione latina di Giacomo Dalla Pietà
Codice Vaticano Latino 7192, ff. 203-210
Ad Illustrem excellentem Principem Dominum Nicolaum Corrigium, Caelii Calcagnini super Prometheo et Epimetheo Epitoma.
Ortus Promethei et Epimethei
Clymene, Oceano genita, ex Iapeto coniuge, quattuor liberos edidit: Atlantem, cuius humeris caelum nititur; Moenetium, qui quom animum plus nimio extulisset fulmine ictus occubuit; deinde Prometheum, virum multo ingenio ac admirabili rerum prudentia insignem; postremo Epimetheum, hebetiorem longe ac minus cautum peperit.
All’illustre eccellente Principe, Signore Niccolò da Correggio, l’Epitome di Celio Calcagnini su Prometeo ed Epimeteo.
La nascita di Prometeo ed Epimeteo
Climene, figlia di Oceano, dall’unione con Giapeto generò quattro figli [12]: Atlante, sulle cui spalle è appoggiato il cielo; Menezio, che, poiché si era eccessivamente insuperbito, morì colpito da un fulmine; e quindi Prometeo, uomo noto per il grande ingegno e per l'intelligenza mirabile; infine diede alla luce Epimeteo, molto più ottuso e meno intelligente.
3 | Quod animalium cura data sit Prometheo ac Epimetheo
Quom olim Di soli essent, nullo adhuc mortalium generum edito, iamque fatale generationis tempus advenisset; in terrae visceribus animantia ex elementis quattuor finxere, quomque illa vellent in lucem educere, Prometheo ac Epimetheo mandarunt ut idoneis viribus singula praemunirent.
Tunc Prometheum rogavit Epimetheus ut distributionis illius officium ipsi uni concederet; annuit ille. Epimetheus igitur quibusdam animalium robur absque celeritate indidit; quaedam imbecilliora velocitate donavit. Armavit nonnulla, inermibus etiam aliquod ad salutem munimentum excogitavit: quae nam exiguo corpore clauserat, partim per aerem pennis attolli, partim per terram surrepere iussit; quae vero in amplam molem auxerat, crassitudine sua roboravit; mox ea ut calorem et frigus facile perferrent pilis, setis, pellibusque vestivit; pedes etiam qui corpora sustinerent, ungulis callisque obduravit.
Deinde alimenta alia aliis distribuit, ut nonnulla etiam se invicem pascerent; sed eorum genus sterile, quodammodo ceterorum foecundum instituit; sic nam ratio exposcebat.
Quo autem non esset admodum prudens, Epimetheus incaute dotes ac bona omnia distribuit in bruta; nihilique iam superat ex tanta largitione quom ad hominem oculos vertit puduitque, quo solus ex omnibus immunis homo remansisset.
Dubitanti Prometheus astitit illius partitionis considerator viditque coetera animalia suis quaeque fulta muneribus, solum hominem nudum, inermem, defensaculis indigentem et quod magis urgebat.
Instabat dies fatalis, quo animalia in lucem prodirent, quomque aliam salutis humanae viam consultans Prometheus non inveniret, surripuit Vulcani ac Minervae artificiosam cum igne pariter sapientiam; neque nam fieri poterat ut eam sine igne nancisceretur quispiam vel uteretur eam. Itaque sic hominum generi Prometheus elargitus est atque ita sapientiam quae victum suppeditat consecuti sumus.
Deerat tamen adhuc civilis hominibus prudentia; erat nam illa apud Iovem cuius arcem Prometheo ascendere non licebat: nam horribiles Iovis custodes circumstantes arcem Prometheum deterrebant. Hanc vero mox Iuppiter per Mercurium hominibus praebuit. Sed Prometheus erroris, quem Epimetheus perpetravat, deinde poenas dedit.
Hactenus Plato; existimaverunt alii sapientes homines opera Promethei, imprudentes vero Epimethei artificio fuisse compactos. Quod mellitissimus Poeta his versibus indicavit:
Namque ferunt geminos uno de semine fratres
Japetoniadas generis primordia nostri,
dissimili finxisse manu. Quoscumque Prometheus
excoluit multumque innexuit aethera limo,
hi longe ventura notant, dubiisque parati
casibus occurrunt fabro meliore politi.
Deteriore luto pravus quos edidit auctor,
quem merito Graii perhibent Epimethea vates,
his nihil aetherei sparsit per membra vigoris;
hi pecudum rito non impedientia vitant,
nec res ante vident, accepta clade queruntur,
et sero transacta gemunt.
Haec ille; at Platonici ita superiorem fabulam interpretantur.
3 | Perchè fu affidata a Prometeo ed Epimeteo la cura degli animali [13]
Un tempo, quando gli dei erano soli, non essendo ancora venuto alla luce nessun genere di essere mortali, si avvicinava ormai il tempo fissato dal destino per la generazione; nelle viscere della terra, dai quattro elementi, essi forgiarono gli esseri viventi, e quando vollero che venissero alla luce, incaricarono Prometeo ed Epimeteo di dotare ciascuno di essi di forze adeguate.
Allora Epimeteo pregò Prometeo di lasciare a lui solo il compito di quella distribuzione; ed egli acconsentì. Epimeteo infuse quindi ad alcuni degli animali la potenza senza la rapidità; ad altri che erano più deboli, donò la velocità. Alcuni li munì di armi, e anche per gli inermi escogitò qualche mezzo per la sopravvivenza: quelli che aveva rinchiuso in un corpo piccolo, fece sì che parte si alzassero verso il cielo con le ali, parte si trascinassero sulla terra. Quelli invece che aveva fatto crescere di grande taglia, li rese forti della loro stessa mole; poi, affinché questi sopportassero facilmente il caldo e il freddo, li rivestì di peli, setole e pelli; e con unghie e calli rese resistenti i piedi che dovevano sostenere il loro corpo.
Poi distribuì agli uni alcuni mezzi di sussistenza, altri ad altri, perché non si mangiassero a vicenda; stabilì poi che un genere fosse più sterile, un altro più fecondo: così infatti richiedeva un senso di equilibrio.
Ma poiché Epimeteo non era affatto prudente, incautamente distribuì le doti e tutti i beni tra i bruti; ormai dopo questa elargizione così generosa, non restava più niente: e quando volse lo sguardo all’uomo e si vergognò, poiché fra tutti era rimasto il solo privo di ogni mezzo.
Mentre era in dubbio sul da farsi, Prometeo, che era presente e osservava la distribuzione, vide gli altri animali muniti dei loro doni e soltanto l’uomo nudo, inerme e sprovvisto di difese, e ciò più di tutto lo angustiava.
Era imminente il giorno deciso dal destino nel quale gli esseri viventi sarebbero dovuti venire alla luce; e poiché Prometeo, riflettendo, non trovò un’altra via per la salvezza umana, rubò a Vulcano e Minerva [14] la sapienza delle arti insieme col fuoco; infatti senza il fuoco non era possibile conseguirla né che alcuno ne facesse uso. Così dunque Prometeo ne fece dono al genere umano, e così ottenemmo anche la sapienza che consente di sopravvivere.
Tuttavia mancava ancora agli uomini la sapienza politica; infatti essa stava presso Giove, e alla sua rocca Prometeo non poteva salire: gli orribili custodi di Giove che circondavano la fortezza tenevano lontano Prometeo.
Questa in realtà Giove la offrì prontamente agli uomini mediante Mercurio; ma Prometeo, per l’errore che aveva commesso Epimeteo, fu punito.
Fin qui Platone; ma altri sostenevano invece che gli uomini sapienti siano stati plasmati ad opera di Prometeo, mentre quelli stolti sarebbero stati plasmati per arte di Epimeteo: idea che il dolcissimo Poeta[15] espresse con questi versi:
Dicono infatti che i fratelli gemelli,
figli di Giapeto, le origini della nostra stirpe
da un solo seme plasmarono con mano diseguale.
Tutti quelli che Prometeo creò, mischiando molto etere al fango,
scorgono da lontano il futuro e sono preparati ad affrontare le circostanze difficili, foggiati dal migliore artefice.
Quelli invece che con il peggiore fango plasmò il cattivo artefice,
colui che i poeti greci a ragione chiamano Epimeteo,
a questi non infuse nelle membra neanche un poco dell’energia del cielo;
come le bestie essi non sanno evitare gli ostacoli,
né prevedono gli eventi, ma, una volta avuto il danno,
si lamentano e troppo tardi piangono per cose già accadute.
Egli disse queste cose, ma i Platonici interpretarono così la favola antica:
4 | Superioris fabulae ratio
Iuppiter, idest deus mundi opifex, ex elementis animalia componit. Promethei autem ac Epimethei opera utitur, idest demonum superiorum atque inferiorum ministerio ad animalium vitam necessariis muniendam. Sed Epimetheus brutorum curam gerit; quid nam mirum est inferiores demones corporeae naturae favorem praebere?
Quantum vero Epimetheus inferiorque potestas in his quae ad corpus pertinent brutis suffragantur, tantum Prometheus providentiaque superior in his, quae ad animum spectant, hominibus videtur consuluisse. Accepit autem artem ipsam una cum igne ab officina Minervae atque Vulcani, idest ingenium atque animi vigorem e coelestibus ideis.
Prometheum vero ob id munus dolore affectum significat demonem ipsum curatorem nostrum, in quo et affectus esse possunt, misericordia quadam erga nos affici quom advertat nos, ob illud rationis munus vel datum vel excitatum, tanto miserabiliorem terris vitam quo bestias agere, quanto sollecitam atque avidam magis.
Quod quidem Pythagoras animadvertens, Epimetheum (quantum ad hoc attinet) Prometheo anteposuit. Id autem illi Mosaico quodammodo simile videtur: “Poenitet me fecisse hominem”. Sed demonis providentia particularis et angusta est. Ideo in arcem Iovis nequit ascendere. At Juppiter per Mercurium, idest angelum divinae voluntatis interpretem, civilis scientiae leges hoc est voluntatis suae decreta ad humanae societatis generisque nostri salutem spectantia mentibus nostris inscribit.
4 | Spiegazione della favola antica [16]
Giove, cioè Dio artefice del mondo, dagli elementi forgiò gli esseri viventi, ma si avvalse dell’opera di Prometeo ed Epimeteo, cioè dell'aiuto dei demoni superiori e inferiori, per dotare la vita degli esseri viventi dei mezzi necessari: Epimeteo si curò di gestire i bruti; e cosa c’è di strano nel fatto che i demoni inferiori dimostrino simpatia per la natura corporea?
Quanto Epimeteo e le potenze inferiori favoriscono i bruti nelle cose che riguardano il corpo, altrettanto Prometeo e la provvidenza superiore sembrano curare gli uomini nelle cose che riguardano l’anima. Però dall’officina di Minerva e Vulcano egli prese anche l'arte insieme col fuoco, ovverosia l’ingegno e la forza d’animo dalle idee celesti.
In verità Prometeo, colpito da pene per questo dono, significa lo stesso demone che si cura di noi, nel quale possono esserci anche le passioni; può essere pietoso verso di noi dal momento che si accorge che, per quel dono della ragione che ha dato o in noi suscitato, conduciamo sulla terra una vita tanto più miserevole che le bestie, quanto più inquieta e avida.
E certamente in considerazione di questo Pitagora contrappose, proprio su questo punto, Epimeteo a Prometeo.
E ciò in un certo modo sembra simile a quel detto biblico: “Mi pento di aver fatto l’uomo”.
Tuttavia la provvidenza del demone è limitata e ristretta. Per questo non può salire alla rocca di Giove.
Ma Giove mediante Mercurio, cioè l’angelo della divina volontà, interprete della scienza politica, imprime nelle nostre menti le leggi, cioè i decreti della sua volontà, tesi alla salvezza dell’umana società e della nostra stirpe.
5 | Cur supplicio affectus Prometheus
Publica solemnitas Dis celebrabatur; data est autem cura Prometheo dividendi carnes inter homines ac deos.
Impetratum nam fuerat a Iove evitandi sumptus gratia ne tota victima Dis offerretur. Favebat autem ille hominibus mirifice, quorum gratia hac fraude usus est: potiora nam quaeque ex victima seligens pellibus et ossiculis contexit; deteriora vero atque ossa diligenter adipe constravit, ita ut optima viderentur, deditque optionem Iovi utra pars magis placeret, eam eligeret. Elegit ille adipe contectam: mox fraudem advertens, statuit homines magno quodam incommodo afficere.
Iussit igitur Vulcano effigiem puellae spetiosissimae formaret, quam deinde Pandoram nuncupatam Pallas ornavit donisque excoluit zona scilicet, veste argentea ac palliolo miro artificio contexto floribusque et aurea corona.
Ab hac autem postea foemineum genus defluxit ad hominum iacturam natum, quod inter viros ita versatur ut inter apes fuci. Sine quo stare vita diutius nequeat, neque una habitare facile possit.
Ignem etiam Iuppiter e medio sustulit, ne amplius homines carnibus vescerentur, utpote quas coquere sine igne non possunt.
Sed Prometheus consuetus insidiari, sua opera ereptum ignem mortalibus restituere cogitabat.
In Caucaso igitur monte altissimo latitans, e solis pretereuntis curru ferula furtim ignem sustulit cursimque cum eo ad homines rediit.
Unde institutum est postmodo ut laetitiae nuntii cum lampadibus discurrant.
Acriter ergo indignatus Iuppiter ferrea catena eum ita religari iussit in Caucaso, ut sedere aut quiescere nunquam posset, adhibuitque aquilam ex Typhone et Echione vel, ut alii, e Terra et Tartaro genitam, quae iecur eius quottidie renascens depasceretur.
Causam religationis huius nonnulli tradunt: quoniam Prometheus hominem fabricavit accusatusque fuerit a Momo quasi scelestissimum animal fecisset quod omnes facile posset decipere; quoniam nullam haberet fenestram in pectore unde cor eius explorari posset, damnatumque hac ratione Prometheum in Caucaso poenas luisse.
5 | Per quale ragione Prometeo subì il supplizio
Gli dei celebravano una festa [17] e fu data appunto a Prometeo la cura di dividere le carni tra gli uomini e gli dèi. Giove infatti, per evitare sprechi, aveva richiesto che non l'intera vittima fosse data agli dèi. Tuttavia egli favorì senza ritegno gli uomini, e per loro ricorse a questo inganno: selezionò le parti migliori della vittima e le nascose sotto le pelli e le ossa; invece ricoprì diligentemente di grasso le parti peggiori e le ossa, così che sembrassero le migliori, e lasciò a Giove la possibilità di scegliere quella parte tra le due che più gli piaceva. Egli scelse quella coperta di grasso, ma, rendendosi subito conto dell’inganno, decise di danneggiare gli uomini con un grande malanno. Comandò infatti a Vulcano di plasmare l’immagine di una fanciulla bellissima che poi, chiamata Pandora, Pallade ornò di doni e abbellì con una cintura, una veste d’argento e un copricapo intrecciato con mirabile maestria di fiori, e anche una corona. Ma poi da lei discese il genere femminile, nato a danno degli uomini, poiché con i maschi si comporta come tra le api fanno i fuchi. Senza la donna non è possibile vivere a lungo, ma non è neanche facile abitare con lei. Inoltre Giove tolse di mezzo il fuoco affinché gli uomini non potessero più cibarsi di carni che senza il fuoco non possono cuocere [18].
Ma Prometeo, avvezzo a tendere insidie, meditava di intervenire per restituire ai mortali il fuoco rubato. Quindi, ritirandosi sulla cima del monte Caucaso, dal carro del sole [19] che passa attraverso il cielo, portò via furtivamente il fuoco in una ferula, e ritornò di corsa con esso dagli uomini. Da ciò si istituì in seguito l'usanza secondo cui i messaggeri di buone notizie corrono qua e là con le fiaccole [20].
Allora Giove, fortemente indignato, ordinò che fosse legato con catene di ferro sul Caucaso, in modo che non potesse mai sedersi o riposarsi. Poi mandò un’aquila nata da Tifone ed Echione [21] o, come dicono altri, generata dalla Terra e dal Tartaro, affinché si nutrisse del suo fegato che ogni giorno ricresceva.
Alcuni sostengono che il motivo dell'incatenamento fosse il fatto che Prometeo aveva creato l’uomo [22] e per ciò fu anche accusato da Momo [23] di aver fatto una bestia scelleratissima che poteva facilmente ingannare tutti poiché non aveva nessuna finestra sul petto attraverso cui il suo cuore potesse essere indagato. Prometeo sarebbe stato condannato per questa ragione alla punizione sul Caucaso.
6 | Superiorum ratio
Putant Prometheum virum sapientem, causarum naturae exploratorem, qui multa invenerit lucemque veritatis hominibus aperuerit. Immo vero fecerit ipsos homines, qui antea rationabilius fere poterant noncupari, in quibus nullius rei inditium inerat. Cruciari autem ab aquila, idest continua cogitatione et anxietate inveniendi ac perscrutandi arcana mysteria naturae.
Subscribit huic opinioni Sudas auctor Graecus, qui eum gramaticam philosophiam et musicam invenisse tradit, sicut Atlantem astrologiam et sphaeram et qui ideo coelum sustineri dictus est, sic Argum finxere multioculum, quod vir esset apprime circunspectus; sic Cecropem Atheniensem duplicis naturae, idest masculofoemina, dixere, quod primus legem tulerit coniugii. Alii figulum fuisse putant Prometheum, qui plasticen, idest artem fictoriam, primus excogitavit.
Quae autem Fulgentius ignobilis auctor (ut puto) ex Petronii sententia exposuit, non libet hoc loco meminisse, quando ea, Princeps illustris, tuae celsitudini ad fastidium usque nota suspicamur.
6 | Spiegazione della favola degli antichi
Ritengono che Prometeo sia un uomo sapiente, indagatore delle cause della natura, che scoprì molte cose e rivelò la luce della verità agli uomini. Anzi, in verità, avrebbe reso lui umani esseri che prima potevano essere detti a malapena ragionevoli. In essi non vi era intuito di nessuna cosa.
Era però tormentato dall’aquila, cioè dalla continua meditazione e ansietà di conoscere e di indagare gli arcani misteri della natura. Sottoscrive questa credenza l’autore greco della Suda [24], che afferma che egli inventò la grammatica, la filosofia e la musica, così come Atlante l’astrologia e la sfera [25]; per questo si dice che questi sosterrebbe il cielo, così come si dice che Argo aveva molti occhi, perché era un uomo straordinariamente prudente, e ancora che Cecrope di Atene [26] era androgino, maschio-femmina, poiché per primo istituì la legge del matrimonio. Altri ritengono che Prometeo fosse un artigiano, che inventò per primo la plastica, cioè l’arte scultorea [27].
Le cose poi che Fulgenzio, autore a mio giudizio oscuro, espresse a partire da uno spunto di Petronio [28] non conviene che siano ricordate qui, poiché esse, o illustre Principe, supponiamo siano note a Vostra Altezza fino alla noia.
7 | Quare Prometheus revinctus
Solutum autem ab Hercule Prometheum putant aquilamque interfectam vel certe ad Orcum demissam, sic volente Iove ut gloria filii augeretur, qui mox in deorum numerum erat virtutis ac gestorum magnitudine asciscendus.
7 | Il motivo per cui Prometeo fu legato
Si ritiene che Prometeo sia stato liberato e che l’aquila sia stata uccisa, o almeno spedita nell’Orco [29], per mano di Ercole, poiché così volle Giove, affinché fosse accresciuta la gloria di suo figlio [30], che subito infatti dovette essere accolto tra gli dèi per la grandezza della virtù e delle sue gesta.
8 | Dictorum ratio
Herculem virum doctissimum putavere, qui pariter ingenio ac eloquentia polleret. Hic, quom Prometheus in plurimis dubitaret, dubitationes eius omnes soluit et ab ea anxietate atque animi sollicitudine liberavit. Sed quoniam aliter de Promethei solutione Lucianus existimavit, libuit hoc loco eius dialogum subtexere, quem latinitate precipitanter donavimus:
PROMETHEI AC IOVIS
(PRO): Solve me o Iuppiter: iam nam gravia perpessus sum.
IUP: Solvam te, inquis, quem pati graviores compedes par erat, Caucasumque universum capiti superincumbentem nec a sexdecim vulturibus epar lancinari modo, verum et oculos effodi, quom nobis animalia id genus homines effinxeris ignemque sustuleris ac mulieres fabricaris. Nam quo me fraudaris in carnium partitione, ossa pinguedine obducta opponens potioremque partem seponens tibi, quid opus meminisse?
PRO: Verum ego satis supplicii iamdudum expendi, tandiu fixus in Caucaso et pessimam volucrum (quae male dispereat) aquilam pascens iecore.
IOV: Neque hoc eorum minimum quae te pati decebat.
PRO: Atqui non sine mercede me solveris, o Iuppiter! Nam tibi rem haud mediocriter necessariam significabo.
IOV: Etiamnum illudis Prometheu?
PRO: Si illusero, quid demum lucri faciam? An memoria excidet tibi quo loco sit Caucasus, an vincula rursus deerunt si forte impostor fuero deprehensus?
IOV: Primo eloquere quid mercedis necessarium adeo sic daturus.
PRO: Si quo properas dixero, an dignus videbor cui et in caeteris fidem adhibeas?
IOV: Immo vero.
PRO: Ad Thetidem, ut cum ea concumbas.
IOV: Ita prorsus res habet ut dixisti; sed quid amplius? Videris nam nonnihil fortasse veri expositurus.
PRO: Ne o Iuppiter cum Nereide concubueris. Nam quod ex te conceperit aeque de te ac tu olim de Saturno moerebit.
IOV: Hoc dicis me principatu eiectum iri?
PRO: Ne id fiat utique o Iuppiter. Verum eiusmodi quippiam sic concubitus minatur.
IOV: Valeat igitur Thetis; te vero obistac Vulcanus solvat.
Soluto Prometheo monumentum tamen supplicii apud homines remansit, vinculorum nam instar torques atque annuli inventi sunt, super qua re nos olim idyllion excudimus huiusmodi.
8 | Spiegazione di quanto qui detto
Ercole era considerato un uomo dottissimo, valente allo stesso modo per ingegno e per eloquenza. Questi, poiché Prometeo dubitava di molte cose, sciolse tutti i suoi dubbi e lo liberò da quell’ansietà e affanno dell’animo.
Ma poiché Luciano [31] ha una versione diversa sulla liberazione di Prometeo, conviene inserire qui un suo dialogo che abbiamo volto all'impronta in latino: PROMETEO E GIOVE
(PRO): Liberami, o Giove, ho già patito gravi pene.
IOV: Che io liberi te, dici? Te che era giusto sopportassi ceppi ben più pesanti e che dovevi avere la testa schiacciata da tutto il Caucaso, e non solo che il tuo fegato fosse dilaniato da almeno sedici avvoltoi, ma anche che i tuoi occhi ti fossero strappati via, poiché ci hai plasmato animali, cioè la razza degli uomini, hai rubato il fuoco e fabbricato le donne? Serve ricordare fino a che punto mi hai ingannato nella distribuzione della carne, assegnandomi le ossa ricoperte dal grasso e riservandoti la parte migliore?
PRO: Però ho scontato già abbastanza a lungo il mio supplizio, stando tanto a lungo sospeso nel Caucaso e nutrendo col mio fegato l’aquila, dannatissimo uccello (che vada alla malora!).
IOV: Ma questo non è nemmeno il minimo di quanto dovevi patire!
PRO: Eppure tu, non senza guadagno, mi libererai, o Giove; infatti ti rivelerò una cosa che ti è non poco utile.
IOV: Mi imbrogli ancora, Prometeo?
PRO: Se mi prendessi gioco di te, che guadagno ne avrei? Ti dimenticherai forse dove sta il Caucaso o ti mancheranno forse le catene se per caso scoprirai che sono un impostore?
IOV: Di' prima quale ricompensa mi darai.
PRO: Se ti dirò verso cosa stai andando, ti parrò degno di meritare fiducia anche sul resto?
IOV: Sì, certo.
PRO: Andrai da Teti per giacere con lei.
IOV: Proprio così: e allora? In effetti sembra proprio che tu dica la verità.
PRO: Non unirti con Teti, o Giove. Se concepirà un figlio da te, sarà un lutto per te così come un tempo fosti tu per Saturno.
IOV: Stai dicendo che io sarò cacciato dal mio potere?
PRO: (Mi auguro) che ciò non accada assolutamente, o Giove. Ma l’unione promette qualcosa di simile.
IOV: Addio a Teti, dunque! E ora Vulcano ti sciolga da queste catene.
Liberato Prometeo, rimase tuttavia presso gli uomini un ricordo del supplizio: infatti furono inventati collane e anelli a guisa di catene [32], e su questo fatto noi un tempo componemmo un poemetto siffatto:
Ibat in amplexus Thetidis sublimis Olympi
arbiter, et posito terras clementior igne,
prepetibus vectus pennis facilique petebat
tramite, Caucasea quando superastitit arce.
Et procul effudit fatalia verba Prometheus
alitis aeternae violatus pectora morsu:
“Ne properes dux magne poli; compesce furores
pectoris insanos e summo vertice coeli.
Noxia difficiles cecinerunt omina Parcae:
quisquis inexhausto Thetidis potietur amore,
excipiet sobolem patrias quae robore laudes
obruat, invictis multo praestantior armis”.
Ferrea mox durae tetigere volumina matris,
terruit ancipiti volventem pectore curas
magnanimum vox missa Iovem rapidumque, repente
pressit iter, iubet hac cursum properare Cupido,
inde minae scaevique vetat terroris imago.
Sed metus et regni demum iactura labantem
frenavere animum. Placuit mox digna Prometheo
dona dare et veteres odiorum extinguere causas.
Furtivos ignes animo, pinguisque ferinae
fraudem abolet, superat veteres nova gratia noxas.
Iam pater accitus Lypareos liquerat ignes
Mulciber et nexos ferroque manuque catenas
solverat ac tristes Herebi tranaverat amnes
vultur ferratas quatiens per nubila pinnas.
At non omne malum non omnia vincla Prometheo
defluxere tamen (Stygias sic Iuppiter olim
attestatus aquas) quare omnis poena recessit.
Sed monumenta manent veterisque insignia damni.
Aerea nam digitos anfractu bractea molli
pro manicis amplexa tenet; tum more catenae
dependet collo series intersita nodis
ferrea et e duro Calybum compacta metallo.
Hanc vero ob causam mortales undique coetus
exultasse ferunt et sacro largius ignes
perfudisse mero, pariterque exempla sequentes
digna Prometheo tulerunt solatia casu.
Annulus informat digitos, de pectore torques
ferratas misere palam. Sed posthuma proles
antiquas variavit opes versoque tenore
omnia de fulvo componere maluit auro.
Il sublime signore dell’Olimpo andava ad abbracciareTeti,
e più clemente per aver deposto il fuoco a terra,
sulle ali in volo, andava per un facile tragitto,
quando giunse sulla cima del Caucaso.
Da lontano scagliò parole fatali Prometeo,
oltraggiato nel petto dal morso dell’eterno uccello.
“Non andare, o grande signore del cielo.
Frena dal sommo vertice del cielo i pazzi furori del cuore.
Le dure Parche [33] cantarono funesti presagi.
Chiunque avrà l’inesauribile amore di Teti
ne riceverà un figlio [34]; e questi oscurerà la gloria del padre per potenza
essendo molto più prestante, con le sue armi invincibili”.
Subito colpirono nel segno i ferrei decreti della dura madre,
la sentenza pronunciata spaventò il magnanimo Giove
che volgeva gli affanni nel petto dubbioso e
improvvisamente rallentò il rapido viaggio:
Cupido ordina di affrettare la corsa verso là,
ma da là lo trattiene l’immagine della minaccia e del sinistro terrore.
Ma la paura e la perdita del regno
frenarono l’animo dubbioso. Egli decise subito
di dare degni doni a Prometeo e di estinguere gli antichi motivi di rancore.
Cancella dall'animo il furto del fuoco e la frode della grassa selvaggina:
supera le vecchie colpe la grazia recente.
Ormai il padre Mulcibero, che era stato chiamato, aveva lasciato i fuochi di Lipari,
e aveva sciolto i lacci con il ferro e le catene con la mano [35]
e il rapace, scuotendo le ali ferrate nelle nuvole,
aveva attraversato le tristi correnti dell’Erebo [36].
Ma tuttavia non vennero meno per Prometeo
tutti i mali e tutte le catene (così Giove una volta
aveva giurato per le acque stigie) perchè scomparisse ogni pena.
Ma restano tracce visibili dell'antica colpa.
Infatti una sottile lamina di rame trattiene le dita,
cingendole come manette con un dolce cerchio.
E a mo’ di catena pende giù dal collo una serie di maglie metalliche
di duro ferro calibo [37].
E per questo motivo dicono che da ogni luogo
le schiere mortali esultassero e versassero più abbondantemente
sopra i fuochi vino sacro, e così portarono a Prometeo,
seguendo [i suoi] esempi, degne offerte per l’occasione [38].
L’anello orna le dita, sul petto sta in bella vista
la collana di ferro.
E le generazioni seguenti cambiarono i monili antichi
ed essendo mutata l'idea del lusso,
preferirono fabbricare tutto in biondo oro.
Note
[1] D. e E. Panofsky, Il vaso di Pandora, [1956] tr. it. Torino 1992, p. 13, n. 21.
[2] O. Raggio, The Myth of Prometheus: its Survival up to the Eighteenth Century, “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes” XXI, 1958, p. 55, n. 80.
[3] R. Trousson, Le thème de Prométhée dans la littérature européenne, Genève 1976, p. 96, n. 37.
[4] L. Bonoldi, M. Centanni, La medaglia di Isabella d’Este: Nemesi e le sue stelle, settembre 2000.
[5] Esopo, Zeus, Prometeo, Atena e Momo, in Favole, a cura di G. Manganelli, Milano 1951, n. 124.
[6] H. Ulmann, Piero di Cosimo, “Jahrbuch der preussischen Kunstsammlungen” XVII, 1896, pp. 42-64; pp. 120-142.
[7] C. Loeser, I quadri italiani nella galleria di Strasburgo, “Archivio Storico dell'Arte” IX, 1896, p. 277.
[8] A. Venturi, Storia dell'arte italiana, VII/1, Milano 1911, pp. 696-712.
[9] F. Ruffini, Teatri prima del teatro. Visioni dell’edificio e della scena tra Umanesimo e Rinascimento, Roma 1983, pp. 80 ss.
[10] E. Garbero-Zorzi, D. Seragnoli, Lo studio e lo spettacolo in Ferrara estense, in La rinascita del sapere, Bologna 1998, pp. 307-330.
[11] F. Marotti, Storia documentaria del teatro italiano. Lo spettacolo dall'Umanesimo al Manierismo, Milano 1974, p. 63.
[12] Prometeo è detto figlio del titano Oceano e dell’oceanina Climene da Esiodo, che riporta anche il nome dei tre fratelli; Eschilo sostituirà Climene con Temi, che resterà anche in seguito madre dell’eroe; l’unico a trasmettere la tradizione primitiva è Igino (Fab. I, 1). Talvolta viene ignorato il nome della madre di Prometeo, mentre si cita solo Giapeto, come fanno Ovidio (Met. I, 78-83), Varrone (De ling. lat. V, 31), Diodoro (V, 67, 2), Pausania (II, 14, 4) Igino (Fab. CXLII); per Apollodoro (Bibl. I, 3) Prometeo è figlio di Asia. Platone, per esempio, non riferisce da chi fu generato Prometeo, ma cita solo Epimeteo.
[13] Tutta la favola che segue è ripresa quasi letteralmente dalla traduzione latina del Protagora platonico fatta da Ficino. Platone è anche il primo autore che fa di Prometeo e di Epimeteo i responsabili della distribuzione delle facoltà naturali agli uomini e agli animali. In Eschilo Prometeo era semplicemente colui che aveva salvato la razza umana dalla distruzione voluta da Zeus e il fautore della sua evoluzione (anche se sembra possibile scorgere un’allusione alla storia della distribuzione dei doni alle varie stirpi nei versi 439-440). Sappiamo inoltre che esisteva una leggenda di Prometheus creator, vero e proprio generatore dell’uomo, che doveva essere molto antica, forse preesistente ad Esiodo stesso (N. Terzaghi, Prometeo. Scritti di archeologia e filologia, Torino 1966), e che è attestata per la prima volta in Filemone (Fragm. III) e Menandro (fr. 718 Körte).
[14] Secondo Esiodo ed Eschilo il Titano rubò la fiamma dal fulmine di Zeus nascondendola in una ferula cava, mentre secondo un’altra versione del mito, meno nota, la prese dalla fucine di Efesto sull’isola di Lemno (cfr. Cicerone che cita Accio in Tusc. II, 10, 23-25). Anche secondo Luciano (Prom. 5) Prometeo rubò il fuoco a Efesto. Secondo Servio (In Verg. Buc. 6, 42) il Titano rubò il fuoco avvicinando una fiaccola al carro del sole.
[15] Si tratta di Claudiano (In Eutr. II, 490-501), rara versione del mito in cui anche Epimeteo partecipa alla creazione dell’uomo facendo statue di argilla.
[16] Calcagnini riferisce qui la lettura in chiave allegorica del mito antico che ne diede Marsilio Ficino nel Commentarium in Protagoram (Op., p. 1298); sono ripresi quasi letteralmente interi passi del commento, senza che Calcagnini citi mai apertamente la sua fonte. Ficino interpreta ogni divinità pagana come figura cristiana: Giove indica Dio, mentre Mercurio è l’angelo della volontà divina. Prometeo ed Epimeteo sono neoplatonicamente intesi come simboli dei demoni superiori e inferiori che, secondo Ficino e Pico, sarebbero esseri inferiori agli angeli, ma superiori a quelli terreni, che governano il movimento delle sfere del cielo e che trasmettono agli uomini influssi celesti. Qui si dice che i demoni superiori governano la parte più nobile dell’uomo, ossia il suo spirito, mentre i demoni inferiori influiscono sulla parte più bassa, cioè quella corporea. Nel pensiero neoplatonico l’universo, ordinato gerarchicamente, comprende un macrocosmo e un microcosmo similmente strutturati, perciò tutto è sottoposto a un principio armonico e legato al resto da invisibili influenze; ogni essere si rispecchia in qualcos’altro di superiore, che lo governa e a cui tende, o di inferiore, al quale trasmette qualità celesti.
[17] La favola del banchetto di Mecone è narrata da Esiodo (Th. 535-558) e viene poi menzionata soltanto da Igino (Astron. II, 15) e da Luciano (Prom. Es. 7; Prom. 3 e 7-10).
[18] Questo riferimento alla proprietà di cuocere del fuoco deriva certamente da Igino: egli osserva che Zeus decide di privare gli uomini proprio di ciò che permetteva loro di godere della carne che avevano ottenuto in abbondanza in seguito alla disonesta distribuzione di Prometeo. Cfr.Astron. II, 15, 2: “Iuppiter […] mortalibus eripuit ignem […] ne carnis usus utilis hominibus videretur, cum coqui non posset”.
[19] Come abbiamo già detto, è Servio (In Verg. Buc. 6, 42) il primo che riferisce il dettaglio secondo cui il Titano rubò il fuoco avvicinando una fiaccola al carro del sole.
[20] Pausania (I, 30, 2) riferisce l’origine eziologica della corsa con le fiaccole in Atene, detta lampadedromia o lampadeforia, celebrata in onore di Prometeo, testimoniata anche da Igino (Astron. II, 15, 2) che inoltre fa riferimento all’uso di simboleggiare l’annuncio di buone notizie con una fiaccola recata dal messaggero: “Itaque homines adhuc plerumque, qui laetitiae fiunt nuntii, celerrime veniunt. Praeterea in certatione ludorum cursoribus instituerunt ex Prometei consuetudine ut currerent lampadem iactantes”.
[21] Mostruoso gigante, dall’aspetto di drago, figlio di Gea (la Terra) e di Tartaro, detto anche Tifeo. Dopo la titanomachia fu abbattuto dalla folgore di Zeus e sepolto sotto il Tartaro secondo Esiodo (Th. 720 ss.), sotto l’isola di Ischia secondo Virgilio, sotto l’Etna secondo Eschilo (Pr.351-375) e diverse fonti popolari. È comunque simbolo del fuoco sotterraneo che alimenta i vulcani. Fu sposo di Echidna e con lei generò solo mostri: i cani Cerbero e Ortro, l’Idra di Lerna, Ladine, le Arpie, la Sfinge e il leone di Nemea. Secondo un antico mito di fondazione di Tebe, Cadmo uccise il drago che stava a guardia della fonte di Ares, poi ne seminò i denti su consiglio di Atena. Gli Sparti (i ‘seminati’), uomini generati dai denti del drago, si uccisero a vicenda, finchè non ne restarono solo cinque. Tra questi vi era Echidne, il padre di Penteo, che generò con Agave, figlia di Cadmo. Comunque, ciò che qui importa, è che i nomi dei genitori dell’aquila sono Echidna e Tifone in Apollodoro (Bibl. II, 11). Egli probabilmente usò come fonte Ferecide (FGrHist, 3 F 7), citato dallo scoliasta di Apollonio (Argon. 2, 1248) a proposito della parentela dell’uccello. Comunque questo dato è riferito sempre da Igino (Astron. II, 15, 3): “Hanc autem aquilam nonnulli ex Typhone et Echidna natam, alii ex Terra et Tartaro”; questa sembra essere la fonte cui attinge Calcagnini.
[22] Alcuni autori riportano la versione tarda del mito secondo cui Prometeo sarebbe stato il creatore dell’uomo; tra questi Apollodoro (Bibl. I, 7, 1), Igino (Astron. II, 15, 1; Fab. CXLII), Ovidio (Met. I, 82).
[23] Momo (il ‘biasimo’) era, nella mitologia pagana, il dio della critica e dello scherno. In una favola di Esopo (124, Zeus, Prometeo, Atena e Momo) egli critica l’opera di Prometeo dicendo che avrebbe dovuto appendere il cuore dell’uomo fuori dal suo corpo, in modo che la malvagità non restasse nascosta. Questo brano è ripreso da Luciano (Ermotimo), che racconta lo stesso mito, inserendo il particolare della finestrella sul petto, per poter osservare il cuore.
[24] Il nome Suda indica un lessico di età bizantina, ma non è certo se esso indichi il nome del compilatore o se piuttosto non si riferisca in modo simbolico all’opera che viene caratterizzata come ‘bastione’ del sapere. Composto certamente intorno al Mille, cominciò ad essere citato, nella forma ‘Suida’, da Eustazio di Tessalonica (XII sec.). Si tratta di un ampio lessico greco, una sorta di enciclopedia generale articolata in circa 30.000 voci, ordinate alfabeticamente secondo la pronuncia bizantina, attinenti a tutte le discipline. Le fonti sono molteplici, per lo più di seconda mano (lessici precedenti, epitomi, biografie, scolii) e usate spesso con scarso rigore critico.
[25] Il testo della Suda dice: “Al tempo dei saggi giudei presso i greci divenne famoso Prometeo, che scoprì per primo la filosofia critica; di lui dicono che plasmò gli uomini, in quanto fece sì che alcuni che erano ignoranti imparassero la conoscenza. E (vi era) anche Epimeteo, che inventò la musica; e Atlante, che spiegò l’astronomia; per ciò dicono che solleva il cielo. E (vi era) Argo dai molti occhi, poiché era circospetto, poiché lui stesso escogitò per primo la scienza tecnica”.
[26] Mitico fondatore di Atene, il più antico re dell’Attica, che aveva una natura metà umana, metà di serpente (Ovidio, Met. 2, 555). La Suda dice: “Presso i greci ad Atene governava Cecrope, che venne detto biforme per la grandezza del corpo o perché fece una legge affinché le donne che erano ancora vergini fossero date in matrimonio ad un solo uomo, essendo chiamate spose”.
[27] Lattanzio, Div. inst. II: De origine erroris, cap. XI.
[28] Fulgenzio (Myth. II, 6) cita un passo di Petronio: “Cui vultur iecur intimum pererrat, / et querit pectus intimasque fibras. / Non est quem tepidi vocant poetae, / sed cordis livor atque luxus”.
[29] Il regno dei morti è detto anche Orco.
[30] Ciò è detto da Esiodo, che adduce come motivo della liberazione semplicemente il desiderio di Zeus di accrescere la fama di Eracle (Th. 526-534); sappiamo invece che per Eschilo il Titano fu liberato in cambio dello svelamento della profezia sul destino di Zeus.
[31] Calcagnini inserisce qui la sua traduzione latina del primo dei Dialoghi degli dei di Luciano.
[32] L’abitudine di portare ghirlande sul capo e anelli alle dita era dovuta, secondo varie fonti, al ricordo delle catene che un tempo aveva portato Prometeo per il bene dell’umanità; tale leggenda non appartiene al mondo greco e non è riferita da nessuno scoliasta o compilatore greco: Apollodoro (Bibl. II, 11) parla di una corona di ulivo che Eracle sceglie per sé dopo l’impresa della liberazione di Prometeo, mentre Ateneo (XV, 671e-674d) parla di una corona di lygos che viene data a Prometeo dopo la sua riconciliazione con gli dèi, quando ritorna all’Olimpo. Da qui, gli autori latini danno una spiegazione del costume di portare anelli e collane: cfr. Igino, Astron. II, 15, 4; Plinio, Hist. Nat.37, 2; Servio, In Verg. Buc. 6, 42; Isidoro di Siviglia, Orig. 19-32.
[33] La presenza delle Parche a proposito della profezia che Prometeo svelerà a Giove si trova ancora una volta solo in Igino (Astron. II, 15, 4): “Illo tempore Parcae feruntur cecinisse fata […]”.
[34] Secondo quella che sembra un’invenzione di Eschilo, Prometeo ottenne di essere liberato in cambio della rivelazione di un segreto confidatogli dalla madre Temi: Zeus correva il rischio di unirsi con una dea che da lui avrebbe generato un figlio tanto potente da scacciarlo dal trono come egli fece con Saturno. Si tratta della nereide Teti, che Zeus rifiuterà e spingerà a sposare il mortale Peleo, da cui nascerà Achille. Questa innovazione di Eschilo nello svolgimento del mito era necessaria per dare alla tragedia un punto di svolta, suscitare il senso dell’attesa nel pubblico e soprattutto consentire la riconciliazione tra Zeus e Prometeo. La profezia riguardante il figlio di Teti, nelle fonti successive ad Eschilo, ritorna soltanto in Igino (Astron. II, 15, 4; Fab. LIV) e Apollodoro (Bibl. III, 13, 5).
[35] Qui stranamente, senza alcun riferimento a una fonte antica, la liberazione di Prometeo è attribuita ad Efesto (detto Mulcibero) probabilmente perché in tutte le fonti antiche è ad opera sua che avviene anche l’incatenamento.
[36] Altro nome del regno dei morti.
[37] I Calibi erano un popolo che abitava nella Scizia o nel Ponto, famosi per il lavoro del ferro e dell’acciaio. Per esempio Eschilo (Pr. 715): “A sinistra abitano i Calibi, che lavorano il ferro e da cui devi guardarti: sono infatti selvaggi e inaccessibili per gli stranieri”.
[38] Si fa qui riferimento all’usanza di portare corone nelle gare e nei banchetti, come segno di gioia e vittoria, poiché Prometeo stesso, secondo certe fonti che abbiamo ricordato sopra, indossò una corona dopo aver ottenuto il perdono di Zeus, per affermare il suo successo. Cfr. Igino, Astron. II, 15, 4: “Nonnulla etiam coronam habuisse dixerunt, ut se victorem impune peccassem diceret. Itaque homines in maxima laetitia victoriisque coronas habere instituerunt; id exercitationibus et conviviis perspicere licebit”.
Nota su Marsilio Ficino e il mito di Prometeo
La lettura neoplatonica del mito prometeico che leggiamo nel Commentarium in Protagoram di Marsilio Ficino[1] ci riporta alla dicotomia tra anima e corpo propria del cristianesimo platonizzato: questo conflitto tra l’aspirazione intellettuale e spirituale e i cedimenti degli istinti provoca tragiche lacerazioni nell’anima di ogni uomo. Dirà Lorenzo il Magnifico che quest’uomo, in preda a una smania di conoscenza ma vittima della sua condizione mortale e terrena, assomiglia a una rete da pesca sospesa sul mare: il piombo tenta di tirarla nella profondità dell’acqua, mentre un legno la sorregge, e il tempo passa senza che alcuna di queste due forze abbia mai il sopravvento, e intanto logora e distrugge la rete rimasta vuota:
Così son io una rete distesa
la qual il legno van tien sopra l’onda:
il grave piombo, che da basso pesa,
la tira nella parte più profonda:
alfin ciascun di lor perde l’impresa:
bagnasi il legno e ‘l piombo non s’affonda:
né l’un disio né l’altro par si faccia:
la rete intanto si consuma e straccia[2].
Tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo gli umanisti si avvalevano, per studiare Platone, della traduzione latina di Ficino e dei suoi commenti; l’opera ficiniana, che conobbe moltissime pubblicazioni, costituiva quindi una sorta di “vulgata” degli scritti del filosofo greco, dapprima soprattutto per gli eruditi dell’ambiente fiorentino, anche dopo la stagione savonaroliana. In seguito il neoplatonismo si diffuse un po’ ovunque, mescolandosi poi ad altri atteggiamenti mistici e ai primitivismi fioriti durante i tentativi di rigenerazione della cristianità nell'epoca della Riforma.
[1] In Opera quae hactenus extetere et quae in lucem nunc primum prodiere omnia, Basileae 1576 (rist. anast. a cura di P.O. Kristeller, M. Sancipriano, Torino 1962), pp. 1296-1299.
[2] Lorenzo de’ Medici, Selva II, in Opere, a cura di L. Cavalli, Napoli 1970.
Nota su “Quod coelum stet, terra moveatur”È questa una delle opere più note di Calcagnini, scritta per compiacere il cardinale Ippolito, appassionato di astronomia, nella quale si trovano teorie astronomiche che anticipano quelle copernicane. Celio Calcagnini sostiene la teoria del movimento della Terra su sé stessa, poiché essa offre una spiegazione ragionevole dei fenomeni celesti e anche delle maree; tuttavia concepisce ancora la Terra al centro dell’universo e non fa alcun riferimento al moto di rivoluzione annua attorno al Sole. Il moto di rotazione terrestre deve avvenire, secondo quanto afferma Calcagnini, attorno a un asse obliquo, poiché ciò spiega la diversa durata del giorno e della notte e le differenze climatiche. Per comprovare che non è il cielo a ruotare ma la Terra, egli fornisce anche dati matematici, errati ma ragionevoli, sull’assurda velocità che dovrebbe avere la rotazione celeste se la terra fosse ferma, dimostrazione che sarà ripresa, con maggiore precisione scientifica, anche da Copernico e Galileo. Non sappiamo da chi Calcagnini abbia potuto attingere notizia di queste rivoluzionarie teorie: è certo, visto che lui stesso lo confessa alla fine dello scritto, che non conobbe le idee di Niccolò da Cusa. Forse incontrò Copernico, che trascorse un periodo di studio a Ferrara e che viveva a Cracovia, città visitata da Celio nel 1518. Oppure, più probabilmente, venne a conoscenza delle teorie copernicane grazie a Jacopo Ziegler, un astronomo bavarese conosciuto durante il soggiorno in Ungheria che ebbe il merito di orientare i suoi interessi verso i problemi scientifici. Tuttavia l’idea dei moti della terra in quegli anni si era diffusa grazie al rinnovato interesse verso testi classici, come quelli di Virgilio e Archimede usati da Calcagnini, che ne parlavano diffusamente. Pur se Calcagnini scrive da filosofo più che da astronomo, e pur ragionando con argomentazioni dialettiche piuttosto che con dimostrazioni matematiche o fisiche, egli si dimostra, oltre che straordinariamente colto e aggiornato, un valido e amabile divulgatore. Comunque, secondo quanto afferma Lucio Russo[1], Calcagnini sembra essere il fondatore della teoria cinetica delle maree, causate dalla rotazione terrestre diurna. [1] L. Russo, Flussi e riflussi. Indagine sull’origine di una teoria scientifica, Milano 2003. Nota sulle Storie di Prometeo di Piero di CosimoSecondo Mina Bacci, a parte la semplificazione compositiva e la ricerca di simmetria ed equilibrio che dominano nei due dipinti, il paesaggio e la maniera di disegnare gli alberi richiamano la venatura manieristica della pittura fiorentina di quegli anni, in particolare la decorazione della Camera Borgherini (datata tra il 1515 e il 1520) da parte di vari maestri, tra i quali Bachiacca, Granacci, Pontormo e Andrea del Sarto, allievo dello stesso Piero, soprattutto per quanto riguarda “il paesaggio, con gli alberi a forma di gocce luminose, di corimbi, di ventagli”[1]. Forlani Tempesti e Capretti[2] fanno notare invece la vicinanza dei due pannelli con altre opere di Piero del secondo decennio del Cinquecento: l’Immacolata Concezione della chiesa di S. Francesco a Fiesole e la Liberazione di Andromeda degli Uffizi, che nel lieve sfumato, nel paesaggio semplificato e nella luce contrastata ricordano le prime opere di Andrea del Sarto. Zeri[3] invece proponeva, ma con incertezza, una data un po’ più anticipata, il 1510 circa, osservando che i pannelli sono certamente anteriori alle due tele mitologiche su Vulcano. Al contrario, Panofsky riteneva le Storie di Prometeo assai più tarde di questi dipinti e le legava all’ultimissimo periodo dell’attività di Piero. Sharon Fermor[4] colloca la produzione delle due tavole nell’intervallo di tempo compreso tra il 1515 e il 1520. Barriault[5] ipotizzava di identificare queste opere con le “spalliere dipinte” eseguite da Piero per Filippo Strozzi e pagate nel 1510. Forlani Tempesti e Capretti rifiutano questa ipotesi[6], dato che il confronto con altre opere più tarde, successive agli anni venti del Cinquecento, mostrerebbe innegabili affinità stilistiche con le Storie di Prometeo. Una prima interpretazione iconografica del soggetto dei dipinti venne avanzata da Habich e Borinsky[7], i quali proposero anche una lettura in chiave cristiana della figura di Prometeo, che alluderebbe a quella di Cristo. Tra le più interessanti letture critiche di queste due opere vi è quella di Panofsky, che riscontrò un’affinità iconologica con Le storie dell’umanità primitiva e in particolare con i dipinti su Vulcano: se nella prima fase della storia dell’umanità, quella ante Vulcanum, il fuoco che incendia la foresta è fonte di terrore per uomini e animali e nell’era sub Vulcano il fuoco diviene mezzo di acquisizione dell’abilità tecnica, nell’epoca sub Prometheo esso rappresenta il fuoco celeste, cioè la chiarezza della conoscenza che può essere raggiunta solo a discapito della felicità[8]. Recentemente Forlani Tempesti e Capretti[9] hanno ripreso la lettura cristologica di Habich e Borinsky, che era stata lasciata cadere dalla critica successiva, identificando però il personaggio che distrugge la statua di Epimeteo non con Cristo, ma con Zeus. Steiner, come riferiscono Forlani Tempesti e Capretti[10], lesse nel personaggio sulla sinistra del dipinto di Monaco, inginocchiato e oppresso da un masso, una personificazione della stoltezza, secondo la convergenza semantico-etimologica per cui essa viene detta, fino al Rinascimento, ‘fungus’. Nel secondo pannello ha destato un certo interesse un gruppo di sei personaggi sullo sfondo, tre maschili e tre femminili, dal significato incerto: secondo un’affermazione pressoché unanime della critica, dalla quale si distacca solo Panofsky[11], queste figure si riferirebbero al mito di Pandora, mentre] le interpretava come “i simboli degli impulsi ideali della nuova progenie, l’amore, la vita attiva e la vita contemplativa”[12]. [1] M. Bacci, L’opera completa di Piero di Cosimo, Milano 1976, p. 95. |
English abstract
This essay aims to analyse the Latin and Greek manuscript 7192 “Epitoma super Prometheo et Epitheo“, preserved in the Vatican Library in Rome. The inedited text was written by Celio Calcagnini and Niccolò da Correggio.
keywords | Celio Calcagnini; Rome; Vatican Library; Manuscript; Prometheo; Greek; Latin