Andrea Mantegna: un artista, tre città. Recensioni alla mostre di Padova, Verona, Mantova (16 settembre 2006-14 gennaio 2007)
Mantegna a Padova e il restauro dell'aura
Recensione alla mostra: "Mantegna e Padova 1445-1460", Padova, Musei Civici agli Eremitani, 16 settembre 2006 / 14 gennaio 2007; catalogo della mostra a cura di Davide Banzato, Alberta De Nicolò Salmazo, Anna Maria Spiazzi, Skira, Milano 2006
Giulia Bordignon
L'organizzazione della mostra su Andrea Mantegna, in occasione del cinquecentenario della morte dell'artista, si colloca nell'ottica del 'museo diffuso' oggi in voga: l'esposizione è concepita come un itinerario nelle tre città in cui operò l'artista, Padova, Verona e Mantova. A Padova i primi lavori del maestro sono preziosi pezzi 'incastonati' in differenti sedi espositive, dal Museo Civico a Palazzo Zuckermann: si tratta di un numero limitato di opere, contornate da sculture, dipinti, stampe e manoscritti che evocano, accanto alla figura del grande artista, il clima culturale nel Veneto di metà Quattrocento, un 'laboratorio sperimentale' per la rinascita dell'antico in cui si trovarono a scambiare esperienze e scelte stilistiche alcuni fra i nomi più noti dell'avanguardia artistica dell'epoca.
Nelle 'finestre' ideate da Mario Botta in cui si collocano le opere esposte al Museo degli Eremitani, i dipinti – così come i pezzi 'di contorno' quali libri d'ore e miniature – permettono di apprezzare il passaggio da una cultura già umanistica, ma non ancora pienamente rinascimentale, all'acquisizione – anche mediante le 'novità' importate a Padova da Donatello, presente con i rilievi del Santo all'inizio del percorso espositivo – di una maggiore consapevolezza rispetto all'uso e alle forme dell'antico. Protagonisti di questo momento di transizione nell'arte veneta sono Squarcione, Vivarini, Zoppo, Schiavone, i Bellini (che a Mantegna sono legati anche da legami familiari: com'è noto, Andrea sposa Nicolosia, figlia di Jacopo Bellini).
Le opere di questi artisti prestano, gradatamente e a tratti con 'eccesso di zelo', gli stilemi rinascimentali di recente acquisizione (prospettiva, volumetria, dettagli 'all'antica' come rovine architettoniche ed encarpi) a tipologie di 'manufatti' pienamente tradizionali, ovvero a polittici, pale d'altare e quadri devozionali. Inizialmente a questo incrocio fra tradizione artistica e stile 'moderno' nemmeno l'opera giovanile patavina di Mantegna si sottrae. Ma in mostra accanto alle opere di soggetto religioso si trovano anche le incisioni con le Battaglie di nudi di Pollaiolo e La morte di Orfeo: a testimoniare come la 'migrazione' delle immagini tra Nord e Sud metteva a disposizione anche degli artisti veneti quella "vita pateticamente intensificata", per usare parole di Warburg, che costituisce uno dei segni più eloquenti della rinascita dell'antico, e che Mantegna seppe padroneggiare limitandone gli eccessi 'espressionisti'.
La precoce maturità di Mantegna – un artista che pare nascere già 'grande' anche nelle sue prime opere – si comprende dunque anche a partire da questo milieau in cui il rapporto degli artisti con l'antico, anche se ancora non si nutre delle fabulae del mito classico – la 'pratica' della pittura profana e mitologica sarà un input che viene a Mantegna dalla committenza mantovana – in nuce si basa già su studi storico-archeologici: Padova non è solo la città del Santo, ma anche la città di Tito Livio e dello Studium aristotelico.
E in effetti, ciò che inscindibilmente lega Mantegna alla città della sua formazione non sono tanto i dipinti su tela o tavola, oggi dispersi in vari musei del mondo e riuniti in occasione della mostra: Mantegna a Padova 'è' la Cappella Ovetari con i suoi affreschi, o almeno ciò che ne resta dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale.
Nel 1897 Bernard Berenson individuava l'importanza di Mantegna non tanto nel pregio estetico dei suoi dipinti, né nella sua accuratezza 'archeologica', quanto nel suo "romanticismo", ovvero il peculiare approccio dell'artista all'Antichità perduta, che si realizza in nome di un desiderio, di una "nostalgia di uno stato di cose che in realtà non è". A questo "romanticismo" possiamo ascrivere anche gli affreschi della cappella Ovetari con i suoi personaggi, 'lapidari' quanto l'arco antico di fronte al quale si svolge il 'trionfo' del martire cristiano.
È forse un'analoga, romantica, nostalgia – quella per un Rinascimento perduto – a motivare oggi la proposta di ricomposizione degli affreschi padovani con una tecnica innovativa, resa possibile a partire dalla campagna fotografica realizzata da Alinari e Anderson, che ha preservato l'aspetto dei dipinti mantegneschi prima che le bombe americane li riducessero in una miriade di frammenti. Ma si tratta anche, nelle parole dei curatori della mostra, di un "risarcimento doveroso [...] dopo la barbarie della guerra".
A causa dello stato di disgregazione degli affreschi e del fatto che parte dei frammenti furono trafugati e dispersi nei giorni immediatamente successivi la distruzione della chiesa, il restauro postbellico realizzato da Brandi con la nuova tecnica del 'rigatino' si era fermato infatti alla ricomposizione della scena del Martirio di S. Giacomo. La ricomposizione degli affreschi degli Eremitani continua oggi, di nuovo come banco di prova per inedite tecniche di restituzione: il resto del 'puzzle' viene ricomposto per "anastilosi informatica" sugli ingrandimenti fotografici, utilizzando un software che ritrova la giusta collocazione dei frammenti; le giunture vengono stuccate e integrate ancora a rigatino, in modo da rendere leggibili le zone restaurate rispetto a quelle dell'affresco originale.
Là dove la totale disintegrazione dei frammenti non permette nemmeno un'evocazione dell'originale, la restituzione avviene oggi mediante una proiezione video che riaccende a intermittenza, sull'intonaco neutro della chiesa dove un tempo si trovavano i dipinti, l'antico splendore dei colori: fantasmi della memoria che, quando scompaiono, lasciano spazio ad altri spettri, quelli dei vuoti lasciati nel nostro patrimonio artistico dalle distruzioni belliche. E ci deve bastare l'hic et nunc dei frammenti per alimentare la nostalgia dell'intero perduto – come per Mantegna 'romantico' di fronte agli spolia dell'antichità.
Mantegna a Verona: presentia in absentia
Recensione alla mostra: "Mantegna e le Arti a Verona 1450-1500", Verona, Palazzo della Gran Guardia, 16 settembre 2006 / 14 gennaio 2007; catalogo a cura di Sergio Marinelli e Paola Marini, Marsilio, Venezia 2006
Claudia Daniotti
"The visit of Mantegna, in the flush of his early maturity, was a visit of conquest, and the altarpiece
which he left behind at San Zeno remained, like a triumphal arch, a constant witness to his genius"
Bernard Berenson, North Italian Painters of the Renaissance, London-New York 1907, p. 71
Niente più che un rapido soggiorno, pensato solo per mettere in opera, sul grande altare della rinnovata basilica di San Zeno, la Pala con Madonna in trono e Santi, realizzata a Padova e voluta dal nobile veneziano e abate commendatario, Gregorio Correr: questo è il tempo, questi i pochi mesi a cavallo tra 1459 e 1460, che Andrea Mantegna trascorre a Verona.
Tra i prolifici e tumultuosi anni della formazione e prima affermazione padovana, e l'approdo a Mantova in veste di contesissimo e ricercatissimo pittore di corte, si colloca quella 'battuta notturna' in terra veronese che Berenson suggestivamente definisce "visita di conquista"; dell'incursione al di fuori dell'accampamento, per far uso ancora una volta di una metafora militare, il soggiorno di Mantegna sulle rive dell'Adige presenta indubbiamente le caratteristiche della fulmineità e della sorpresa. Portatrice di un linguaggio tanto nuovo e diverso da sembrare immediatamente ai contemporanei opera venuta letteralmente da un altro mondo, la Pala di San Zeno costituisce – come per primo ha pienamente riconosciuto Giovanni Battista Cavalcaselle – il punto di snodo e il riferimento cardine dello sviluppo artistico a Verona nella seconda metà del Quattrocento.
Eppure una tale centralità – di linguaggio, di perizia tecnica, di consapevolezza individuale e professionale, di tensione morale, di rigore intellettuale – si consuma e quasi stride con la pressoché totale assenza, dalla città, dell'artista. Quarant'anni dopo la grande pala, nel 1497, Mantegna realizzerà per il ricchissimo convento olivetano di Santa Maria in Organo un'altra pala per l'altar maggiore, oggi al Castello Sforzesco di Milano: ma anche questa volta il rapporto con la città di Verona si gioca sulla distanza e, come aveva via via spedito a Verona da Padova le tavole che vanno a comporre, nel loro insieme, la grande 'macchina d'altare' per San Zeno, così ora Mantegna spedisce la Pala Trivulzio a Verona da Mantova.
È intorno a questi due capolavori del maestro, posti quasi ai limiti cronologici estremi entro i quali si articola la mostra ospitata nelle imponenti sale del Palazzo della Gran Guardia, che si dispiega quella che, delle tre tappe del viaggio celebrativo sulle tracce di Andrea Mantegna, è la sede indubbiamente più vasta e ricca: non solo perché di Mantegna raccoglie per intero il corpus grafico a lui oggi attribuito, ma anche perché il racconto della presenza in absentia di Mantegna in città diventa il pretesto per illustrare (e recuperare alla conoscenza critica, diffusa e specialistica) attraverso opere e personaggi esemplari la produzione artistica veronese nella seconda metà del Quattrocento. La varietà e la ricchezza dei pezzi esposti risulta a prima vista sorprendente e, certamente, piacevolmente inattesa. Oltre 200 sono le opere raccolte, che spaziano dalle grandi pale d'altare ai cassoni nuziali, dalle miniature alle tarsie, dagli incunaboli alle medaglie, dai sarcofagi antichi alle sculture lignee.
Cuore e fulcro del percorso espositivo, nonostante le polemiche che hanno accompagnato la sua temporanea rimozione dall'abside per cui fu pensata e realizzata, è naturalmente la Pala di San Zeno, qui affiancata dallo scomparto centrale della predella con la Crocifissione (oggi al Louvre ed eccezionalmente prestata per l'occasione; ma una segnalazione merita anche la copia realizzata da Edgar Degas, presente in mostra), dalle riflettografie appositamente realizzate e da diversi disegni tra i quali alcuni studi preparatori. Non potrebbe risultare più evidente, anche da un punto di vista strettamente espositivo, che la pala sanzenate si impone, appena collocata, come l'orizzonte e la misura rispetto alla quale si decide, a Verona, il corso dell'età nuova, la nuova strada della modernità che, nelle mani di Mantegna, è tanto più moderna quanto più si fa (e si rifà, si inventa e si reinventa) antica. Ed è rispetto a questa misura che si presentano allora agli occhi del visitatore le opere di un gran numero di artisti, quasi esclusivamente veronesi e spesso poco o mal noti al grande pubblico – Francesco Benaglio, Domenico e Francesco Morone, Francesco Dai Libri, Francesco Bonsignori, fino a Bartolomeo Montagna – che con Mantegna intessono un inevitabile dialogo, ora più lieve ora più stringente.
A seguito di una sezione che bene illustra forme e natura dell'arte veronese prima della lezione mantegnesca – arte che si esprime di preferenza e con grande sapienza tecnica e artigianale nella scultura lignea: si veda lo splendido gruppo a grandezza naturale di Giovanni Zebellana rappresentante il Compianto intorno al corpo di Cristo deposto – un'apposita sala è dedicata alla riscoperta dell'antichità classica che ha in Verona un centro di elaborazione e irradiazione tutt'altro che secondario.
Su tutti valga l'esempio di Giovanni Maria Falconetto: dopo il viaggio a Roma e prima dell'esperienza padovana, egli realizza in città alcuni progetti e disegni che bene esprimono l'estrema libertà, di sapore pisanelliano potremmo dire, che – ancora al di qua di qualunque irrigidita e 'filologica' replica – segna il rapporto con l'antico riscoperto. Sono qui presenti non solo schizzi, successivamente rielaborati, dalla Colonna Traiana e da altri monumenti romani, ma il progetto per un monumento funerario mai realizzato, che dispiega l'intero repertorio decorativo all'antica (festoni e nikai alate, aquile e grifoni, candelabre e trofei) e lo arricchisce con bassorilievi in finto bronzo copiati, e riletti, da sarcofagi romani.
Ben rappresentata, e significativamente, all'interno della mostra è poi l'attività – pittorica, decorativa e miniatoria – di Liberale Bonfanti da Verona: amante dei preziosismi cromatici, delle dorature fastose, del gusto narrativo fine a se stesso e capace di indugiare al di là di qualunque stringente necessità iconografica o compositiva, Liberale è il perfetto sigillo (meglio: uno dei perfetti sigilli, tra le diverse chiavi di lettura possibili) di un tessuto veronese custode di una tradizione necessariamente e autorevolmente altra rispetto alla nuova temperie annunciata da Mantegna: una tradizione che in modi diversi, non sempre lineari e univoci, cerca una relazione con ciò che, ai nostri occhi di oggi, appare il Rinascimento 'vincente'.
Quando Mantegna arriva in città, sulla strada che da Padova lo porterà alla corte dei Gonzaga, si è spento da pochi anni – forse in quella stessa Mantova che lo aspetta trepidante – Antonio Pisanello, che di Verona aveva fatto la capitale di ciò che oggi chiamamo Gotico internazionale. La doppia anima di Pisanello – che è insieme eleganza decorativa e studio naturalistico, indugio nel dettaglio 'esornativo' e invenzione della medaglia rinascimentale – si riflette sul lungo corso nelle opere di Liberale, che ancora nel 1485 – mentre a Firenze Sandro Botticelli ha già realizzato il 'ciclo' Primavera, Venere e Pallade – può ancora proporre un'Adorazione dei Magi che ai nostri occhi parla il linguaggio di Pisanello e, più ancora, di Gentile da Fabriano. Siamo agli antipodi, quindi, delle ricerche mantegnesche; ma siamo anche di fronte, più che a diverse 'velocità storiche', a diverse strade, conviventi più che concorrenti, per intendere e tentare il rinascimento – i rinascimenti – dell'antichità.
Mantegnesco sparagmos
Recensione alla mostra: "Andrea Mantegna a Mantova 1460-1560", Mantova, Fruttiere di Palazzo Te, 16 settembre 2006 / 14 gennaio 2007; catalogo a cura di Mauro Lucco, Skira, Milano 2006
Lorenzo Bonoldi
"Andrea Mantegna pittor mantoano". Così, con un errore, Giorgio Vasari apre il capitolo delle sue Vite dedicato al Mantegna. Un errore frequente, eloquente e significativo: anche per assonanza onomastica, Mantova rivendica a sé la cittadinanza del pittore che trascorse nella città dei Gonzaga più di metà della sua vita, dal 1460 al 1506. E lo fa soprattutto in occasione del quinto centenario dalla morte del pittore, con un fiorire di mostre, convegni e attività a carattere mantegnesco.
Fra queste è anche e soprattutto la grande esposizione allestita presso le Fruttiere di Palazzo Te: diciannove opere di mano del maestro radunate una di fianco all'altra. Certo: la mostra è altra cosa rispetto alla grandiosa e irripetibile esposizione mantovana del 1961, in occasione della quale i capolavori del maestro, oggi considerati inamovibili, lasciarono i musei che li custodivano allora come oggi, per giungere a Mantova, a riportare l'arte del Mantegna nelle mura della reggia gonzaghesca. All'epoca, le norme che regolano i prestiti museali e che vigilano sulla conservazione delle opere d'arte erano assai diverse da quelle ora in vigore: si pensi, ad esempio, alla Morte della Vergine del Prado (assente nella mostra attuale) che in quell'occasione arrivò a Mantova in treno. Oggi tali arditezze non sono nemmeno più immaginabili: le diciannove opere giunte a Palazzo Te rappresentano comunque un campione cospicuo della produzione mantegnesca, soprattutto se si considera che le opere che la critica attribuisce concordemente a Mantegna sono circa sessantacinque.
È quindi procedendo per frammenti che la mostra mantovana restituisce l'immagine di quella che fu la stagione mantovana della pittura del Mantegna. L'equilibrio di questa campionatura è però, purtroppo, poco rispondente alla effettiva portata dell'arte del Mantegna: tre ritratti evocano la sua funzione di ritrattista ufficiale della corte gonzaghesca, ben undici opere ci parlano invece di un Mantegna devozionale. Solo cinque opere, infine, restituiscono l'immagine di un protagonista di prim'ordine nel processo di rinascita dell'antico: quattro opere a monocromo dedicate a quattro illustri donne dell'antichità (su cui si veda il contributo pubblicato in questo numero di 'engramma') e la grande tela proveniente dal Louvre, un tempo nello studiolo di Isabella d'Este, con Minerva che caccia i vizi dal giardino della Virtù.
È soprattutto in queste opere che si avverte e si legge lo spirito di un Mantegna perfettamente inserito nella temperie culturale del tempo: un clima che prevede e permette la felice convivenza di figure del mito antico (Minerva, Diana, Dafne...) e dell'allegoria cristiana (Giustizia, Fortezza, Temperanza), fintanto all'elezione a exempla di figure bibliche (Giuditta), accanto a immagini della storia (Artemisia/Sofonisba) e del mito (Didone e Tuccia).
Accanto alle opere di mano del maestro, la mostra mantovana prevede anche la presenza di due sezioni dedicate ai rapporti fra i pittori mantovani e Mantegna e al cosiddetto interregno (il torno d'anni, tra 1506 e 1524, che va dalla morte dell'artista fino all'arrivo in città di Giulio Romano). Le due sezioni presentano interessanti spunti sui processi di tradizione/tradimento dei modelli mantegneschi e sulla loro mediazione dell'antico: le derivazioni dalla Pala di San Zeno (in mostra a Verona) nelle opere di Nicola Solimani, le citazioni del San Sebastiano del Louvre (non concesso dal museo) nelle opere di Bernardino da Parenzo, il riutilizzo da parte di Fermo Ghisoni di modelli calcografici mantegheschi (l'incisione con la Madonna della Tenerezza pure esposta a Verona), le dipendenze dalla Madonna della Vittoria (rimasta a Parigi) nell'opera di Francesco Verla.
All'esposizione allestita a Palazzo Te si affiancano altre mostre: a Palazzo San Sebastiano una serie di placchette e rilievi in bronzo legati ai temi sviluppati da Mantegna in dipinti e incisioni – e qui sì che si respira la rinascita del paganesimo antico – mentre, nel Castello di San Giorgio, attorno alla Camera Picta, sono raccolti codici miniati e sculture che risentono delle innovazioni – artistiche, tematiche, tecniche e concettuali – portate a Mantova da Andrea Mantegna. Si segnala, nella sezione della mostra dedicata ai codici miniati, la presenza dell'Iliade bilingue appartenuta al cardinale Francesco Gonzaga, sulla quale si rimanda al contributo di Monica Centanni, Tradurre l'oro. La mostra La scultura nell'età di Andrea Mantegna propone infine un'interessante lettura del doppio binario su cui si muove il gusto del tempo: da un lato l'algida compostezza dei modelli classici, dall'altra, invece, l'irruenza delle pathosformeln del dolore. Fra serene madonne-matrone romane e concitate menadi sotto la Croce, la mostra ripercorre la produzione scultorea dell'Italia settentrionale dalla stagione padovana di Donatello fino agli anni immediatamente a ridosso del 1506, data della morte del Mantegna e della riscoperta, a Roma, del Laocoonte: un modello classico e patetico al contempo, finalmente in grado quindi di assumere il ruolo di auctoritas per entrambe le scuole di pensiero.