Dalla bottega al cantiere. I Lombardo e l'architettura a Venezia tra '400 e '500
Recensione a: I Lombardo. Architettura e scultura a Venezia tra '400 e '500, a cura di Andrea Guerra, Manuela M. Morresi, Richard Schofield, Università Iuav di Venezia, Marsilio editori, Venezia 2006
Gianmario Guidarelli
Sottoposta alla censura vasariana e 'riscoperta' solo nel tardo XVIII secolo ad opera di Tommaso Temanza, la vicenda artistica della famiglia Lombardo ha sofferto prima di un sostanziale misconoscimento e poi di una serie di fraintendimenti. Il momento di passaggio è segnato sicuramente dalla monumentale opera di Pietro Paoletti L'architettura e la scultura del Rinascimento in Venezia, che a fine Ottocento pose le basi documentarie per una radicale revisione non solo dell'attività della famiglia Lombardo, ma di tutta la storia dell'arte di Venezia nel XV e XVI secolo. La massa di informazioni pubblicata da Paoletti fotografa l'attività della maggiore bottega di lapicidi operante a Venezia nel cinquantennio a cavallo tra XV e XVI secolo, dando conto della sua poliforme attività: dalla fornitura di materiali (grezzi o semilavorati) alla progettazione ed esecuzione di edifici e monumenti, fino al dettaglio dei decori scultorei.
L'operazione scientifica ed editoriale di Paoletti ha certamente reso disponibili le fonti per qualunque successiva indagine sui Lombardo ma, nel tentativo di fotografare in un insieme unitario e organico l'attività così ramificata e plurigenerazionale della bottega lombardesca, ha finito per ingenerare alcuni fraintendimenti. L'attività della bottega è stata così interpretata come un'impresa collettiva con una produzione architettonica e scultorea frutto di una cultura formale unitaria e coerente. Una cultura collettiva che, agli occhi di Paoletti, ha prodotto "opere di transizione" da un sistema figurativo all'altro. A partire da questa situazione di partenza, negli ultimi tre decenni un grande numero di studiosi ha affinato gli strumenti di analisi, cercando di distinguere le mani di Pietro, Tullio e Antonio, di precisare le collaborazioni con altri proti (per esempio Giovanni Buora), ma anche di individuare le variazioni del gusto e i diversi modelli formali, che hanno portato progressivamente alla formazione di autonomi filoni nella produzione lombardesca. Per la realizzazione di questa strategia di ricerca, i singoli manufatti (architettonici e scultorei) sono stati passati al vaglio di una più accurata lettura formale, che, integrando i dati documentali, ne ha scalfito in qualche modo la natura unitaria e coerente, consentendo l'individuazione di autonome e dinamiche esperienze artistiche.
Questo metodo di lavoro, imposto dalle precondizioni storiografiche dettate da Pietro Paoletti, si è però concentrato sui singoli manufatti (siano essi edifici, tombe o opere di scultura) e, molto più raramente, sul tentativo di tracciare monograficamente il profilo dei membri della famiglia Lombardo. Ma qualunque monografia lombardesca che, nel difficile tentativo di isolare una personalità all'interno della bottega per coglierne i caratteri specifici, esuli proprio dalle modalità in gran parte collettive con cui i manufatti erano concepiti e realizzati costituisce un ulteriore modo di fraintendere l'attività dei Lombardo. Si verifica così quella situazione solo apparentemente paradossale per cui la necessità di individuare lo specifico percorso di una personalità obbliga ad integrare la singola vicenda in quella della bottega. Nel caso dei Lombardo, insomma, è necessario superare la forma monografica, mettere in relazione le singole esperienze artistiche (nella loro evoluzione) e i singoli episodi (siano essi edifici o sculture) per mezzo di una rete di informazioni documentarie, di osservazioni stilistiche e di analisi tecnologiche dei manufatti, che in gran parte è ancora da costituire. Così, se è vero che per ogni impresa scientifica bisogna affinare i propri strumenti di ricerca (ed eventualmente introdurne di nuovi) in questo caso è la stessa forma di ricerca che diventa strumento di lavoro, e la sua modalità è ancora tutta da individuare.
Una prima, importante risposta a questo interrogativo è stato il volume collettaneo edito nel 2003 e curato da Mario Piana e Wolfgang Wolters, dedicato alla chiesa dei Miracoli. In quel caso, l'occasione dei restauri della chiesa aveva permesso di avviare una serie di osservazioni (a un grado pressoché inedito di approfondimento per Venezia) che, confrontando tra loro storici dell'architettura, della scultura e della pittura, storici della Chiesa e della musica, restauratori e chimici, aveva realizzato nel caso di un singolo edificio quella modalità interrelata di ricerca tra varie discipline che è l'unica condizione per poter studiare i Lombardo. L'esperimento sul singolo edificio è però solo un primo approccio metodologico, che va allargato, con un salto di scala, all'intera produzione architettonica della bottega lombardesca, nel contesto allargato della Venezia tra XV e XVI secolo.
Una tappa importante in questo progressivo affinamento della conoscenza dell'attività dei Lombardo è stato il convegno svoltosi nel luglio del 2001 presso il Dipartimento di Storia dell'Architettura dello IUAV, i cui atti sono oggi stati raccolti nel libro I Lombardo. Architettura e scultura a Venezia tra '400 e '500. Il testo, curato da Andrea Guerra, Manuela Morresi e Richard Schofield, inaugura una collana con cui l'Università IUAV di Venezia, in collaborazione con la casa editrice Marsilio, intende dotarsi di una propria University Press.
La dichiarazione di intenti, espressa nell'introduzione, chiarisce fin da subito lo scopo che si prefigge questo particolare approccio al problema, che si avvale di una "diversificazione dell'approccio filologico a uno stesso tema" e della "molteplicità di strumenti con cui differenti studiosi operano sul campo". In questo modo è possibile, prima di tutto, incrociare tra loro due questioni cruciali: le fonti di Pietro e Tullio Lombardo e i rapporti con la cultura figurativa e letteraria del tempo. Cristiano Tessari nel suo saggio indaga sulle "radici medievali della maniera all'antica" nel linguaggio lombardesco. Tessari sgombra il campo dall'anacronistico concetto di "opere di transizione" che, in una visione progressiva della storia dell'architettura veneziana, anticiperebbero una compiuta e omogenea ortodossia linguistica. La cultura visiva di Pietro Lombardo, spesso intesa come l'acquisizione gradualmente sempre più consapevole di un linguaggio moderno, appare, al contrario, come una raffinata commistione di riferimenti lessicali e sintattici medievali, che, in una meditata operazione di commistione, sono risolti in forme "alla moderna". Una inerzia formale, che può essere meglio compresa alla luce della "prudentia" che guidava l'azione politica e culturale della committenza patrizia veneziana. Così, nelle tombe dei Lombardo, il tema "all'antica" del trionfo può convivere con l'adozione della forma tradizionale del baldacchino che inquadra il sarcofago, quanto, in un significativo salto di scala, modelli bizantini e adriatici come l'iconostasi, lo schema a quincunx e il coronamento trilobato delle facciate possono essere reinterpretati in chiave moderna in edifici come la chiesa dei Miracoli, il saepto della Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, la transenna dei Frari.
Alla selezione delle fonti medievali si intreccia un processo di graduale allargamento del repertorio lessicale "all'antica", che, come dimostra il saggio di Andrea Guerra sulla cattedrale di Belluno, si avvaleva soprattutto di mezzi di trasmissione solo tangenzialmente architettonici. Così, oltre ai disegni e ai taccuini, che costituivano un po' il sistema linfatico della cultura architettonica del tardo Quattrocento, Pietro e Tullio Lombardo potevano avvalersi dei rilievi di Donatello per l'altare del Santo a Padova, ma anche di quel vasto repertorio di forme imbastito nei teleri di Vittore Carpaccio. Nel caso studiato da Guerra, però, il medium più importante per la conoscenza delle novità del contesto italiano potrebbe essere stato lo stesso committente, l'umanista Pierio Valeriano, che era sicuramente aggiornato sulle sperimentazioni spaziali di Raffaello nel cantiere di San Pietro. Solo con queste conoscenze, suggerisce Guerra, Tullio può avere concepito il sistema spaziale del duomo di Belluno, dove l'architettura "muraria" del Sant'Andrea di Alberti (mediata forse dal tramite martiniano del duomo di Urbino) è come alleggerita dalla trasparenza medievale degli spazi veneziani, reinterpretata nello schema bizantino del quincunx e "tradotta" in un sistema strutturale concettualmente opposto a quello delle volte collaboranti albertiane. Un linguaggio "all'antica" che, come suggerisce Manuela Morresi, rimane a lungo per Tullio Lombardo quasi una lingua straniera, correttamente ma scolasticamente utilizzata su un doppio registro, che consente anche inflessioni dialettali ma senza una piena acquisizione che ne ammetterebbe licenze e trasgressioni.
Il punto di svolta, una vera e propria inversione di tendenza, avviene però con la realizzazione del monumento Zen (1512): in questo caso il contesto funerario, così coerentemente collegato al motivo umanistico del trionfo dopo la morte, è per Tullio un eccezionale campo di sperimentazione che gli consente di metabolizzare tutta la precedente esperienza di bottega in un nuovo sistema di valori e di forme, ma anche di compiere il successivo e decisivo salto di scala. Infatti, nel progetto del 1518 per la facciata funeraria da realizzare per la chiesa medievale di Sant'Antonio di Castello, Tullio concepisce autonomamente per la prima volta un organismo architettonico. La vicenda della sepoltura dei membri della famiglia Grimani, come hanno già chiarito Antonio Foscari e Manfredo Tafuri, si intreccia con quella della facciata di San Francesco della Vigna e vede come successivi protagonisti Andrea Palladio e Jacopo Sansovino. Sarà proprio l'architetto fiorentino a dover portare a termine il progetto di Tullio per Sant'Antonio, sfibrando significativamente quegli elementi di dirompente novità introdotti trent'anni prima. Nella sua analisi della facciata, distrutta nel 1805, Manuela Morresi sottolinea come per la prima volta a Venezia coppie di colonne libere fossero utilizzate nel prospetto di una chiesa per alludere al tema del trionfo, un'innovazione perfettamente compatibile con una committenza tre le più colte e aggiornate nel panorana veneziano di inizio Cinquecento.
Il cantiere più prestigioso diretto da Pietro Lombardo fu sicuramente quello di Palazzo Ducale. Il saggio di Charles Hope anticipa alcune delle riflessioni di un più vasto programma di ricerca sulle fasi costruttive dell'edificio, focalizzando l'attenzione su un dettaglio solo apparentemente marginale: i due camini sicuramente terminati da Tullio e Antonio Lombardo nel dicembre 1505. Per ricostruire la sede a cui erano destinati i due manufatti, Hope affronta l'intricatissima questione della planimetria dell'ala orientale dell'edificio nella sua sistemazione precedente agli incendi di fine Cinquecento, intrecciando testimonianze documentali e iconografiche. Il risultato è un quadro inedito della organizzazione dell'appartamento dogale e delle sale superiori riservate alle udienze del Collegio, dove verosimilmente erano sistemati i due camini.
Uomini di stato, istituzioni pubbliche, Scuole Grandi, umanisti: la varietà della committenza è uno dei moventi di una progressiva accumulazione (e selezione) delle fonti formali e iconografiche cui ricorrono i Lombardo. Nei rilievi per la facciata della Scuola Grande di San Marco, oggetto dell'analisi geometrica del saggio di Camillo Trevisan, Tullio Lombardo reinterpreta la tradizionale iconografia marciana con significative innovazioni. Come nota Laura Corti, nelle raffigurazioni della Guarigione e del Battesimo di Aniano l'allusione alla committenza non è affidata, come da tradizione, a una esplicita raffigurazione dei confratelli inginocchiati davanti al santo patrono, ma alla natura taumaturgica e pastorale dei due episodi della vita dell'evangelista; eludendo il ruolo di San Marco come patrono di Venezia, i confratelli preferiscono così sottolinearne la coerenza della sua leggenda con la natura assistenziale e devozionale della Scuola.
Ben diverso è il registro che l'umanista Bernardo Bembo impone alla commissione ravennate di Pietro Lombardo. Nella tomba di Dante, oggetto del saggio di Debra Pincus, l'artista veneziano reinterpreta l'iconografia funeraria di uomini di lettere, da lui già sperimentata nella tomba Rosselli a Padova: il poeta non è raffigurato disteso sul sarcofago, ma colto nel pieno dell'attività intellettuale. Un modello eroico di umanista tradotto in exemplum, in una complessa operazione intellettuale realizzata da Bembo sotto forma di eloquenti epigrafi marmoree, che integrano il rilievo lombardesco.
Il continuo aggiornamento del repertorio iconografico e formale dei Lombardo deve molto al circolo umanistico veneziano e alla produzione libraria della seconda metà del XV secolo. Il saggio di Alison Luchs dimostra l'importanza delle miniature nei primi libri stampati a Venezia come mezzi di trasmissione di dettagli decorativi poi utilizzati, prima di tutto, nei marmi dei Miracoli; segno che per i Lombardo la conoscenza del mondo editoriale non si limitava a quella, comunque determinante, dell'Hypnerotomachia Poliphili. D'altronde, come suggerisce Sarah Blake McHam, i rapporti tra Antonio Lombardo e un altro umanista come Pomponio Gaurico sono indispensabili per comprendere appieno il significato e le innovazioni stilistiche che appaiono nei rilievi della cappella di Sant'Antonio nella basilica del Santo a Padova. I suggerimenti affidati dal letterato alle pagine del De Scultura sono puntualmente raccolti dallo scultore nella realizzazione dei rilievi con scene della vita del Santo: un superamento del naturalismo verso una bellezza ideale temperata dall'espressione dei sentimenti per mezzo di una perfetta conoscenza dell'anatomia e dei lineamenti facciali; la scultura come l'arte più adatta per raggiungere e superare i risultati dell'antichità; la funzione pedagogica dell'opera d’arte, finalizzata alla rappresentazione di modelli comportamentali esemplari.
In certi casi, però, la ricostruzione della rete di relazioni contestuale alla realizzazione di un pezzo scultoreo o di un edificio non basta a comprenderne appieno il significato, la datazione e la stessa paternità: è qui, allora, che lo strumento dell'analisi filologica può risultare decisivo. Di due "problemi aperti" di questo tipo e di "un fantasma" si occupa appunto Richard Schofield nel primo dei suoi due saggi. Si tratta di due tombe di patrizi veneziani della seconda metà del XV secolo. Riguardo la prima, costruita per Francesco Foscari nel presbiterio dei Frari, Schofield rileva la singolare commistione di elementi tradizionali e di dettagli "all'antica", che non sono però sufficienti a districare quel groviglio attributivo lasciatoci dalle ambigue parole di Sebastiano Giampiccoli. Un'analisi accurata del manufatto, comunque, porta Schofield a individuare la presenza di due diverse mani: un architetto e uno sculture che avrebbero collaborato nella realizzazione del monumento. Nel secondo caso, il monumento a Vittore Cappello sulla facciata della chiesa di Sant'Elena, l'identificazione di più fasi costruttive, forse conseguenti alla successione di più progetti, non impedisce a Schofield di rilevare una cultura formale molto aggiornata sulle novità veneziane, ferraresi e padovane (dalle facciate della Scuola Grande di San Marco e di San Giovanni Crisostomo al monumento donatelliano del Gattamelata), che porterebbe a datare il monumento ai tardi anni ottanta del Quattrocento. Il "fantasma" evocato da Schofield è quel misterioso Antonio Dentone "scultor vinitiano e di gran nome al suo tempo" che Francesco Sansovino, spesso confondendolo con Antonio Rizzo, relega nelle nebbie del dubbio. Lo studioso inglese, ricostruendo la genealogia della omonima famiglia di scultori padovani di origine bergamasca, identifica nella persona di Antonio Dentone di Sansovino il bisnonno di Giovanni Rubino detto il Dentone attivo a Padova nel secondo decennio nel Cinquecento.
Diverso è il caso della facciata della Scuola Grande di San Marco, di cui conosciamo con certezza datazione e paternità. La lettura analitica cui Schofield sottopone il manufatto nel secondo saggio, però, riserva delle rilevanti novità e insinua numerosi dubbi nel quadro che Pietro Paoletti, Philip Sohm e Wendy Stadman Sheard avevano delineato con convincenti argomentazioni. Come e dove sono stati reimpiegati i materiali della facciata del precedente edificio scampati all'incendio del 1486? Come spiegare, se non con una serie di varianti in corso d'opera, le numerose anomalie della facciata (dalle doppie lesene del portale all'ambigua natura del fregio che lega i capitelli del primo ordine di lesene)? È necessario ricorrere al precedente bramantesco di Santa Maria presso San Satiro per individuare il modello dei rilievi prospettici di Tullio?
Una serie di interrogativi che, sembra suggerire la stessa natura del libro, può forse trovare delle risposte nel concorso di più discipline, che contribuiscano a chiarire, per esempio, il funzionamento della bottega dei Lombardo. In questo senso, i due saggi di Lorenzo Lazzarini e di Silvia Foschi rendono i primi risultati di due vasti progetti di ricerca: il primo riguarda la catalogazione dei marmi utilizzati dai Lombardo, il secondo la costituzione di un database che, per mezzo di uno standard informatico, possa raccogliere tutti i dati sulle maestranze veneziane tra Quattro e Cinquecento raccolte fino ad oggi dagli studiosi di tutto il mondo. Una collaborazione indispensabile per raccogliere e mettere in rete quella serie di dati documentali e analisi sui singoli manufatti che possa permettere di compiere quel salto di scala necessario per la comprensione dell'intera opera lombardesca.
"A questo mondo non c'è che teatro"
Recensione a: Edoardo Sanguineti, Teatro antico. Traduzioni e ricordi, a cura di Federico Condello e Claudio Longhi, Rizzoli, Milano 2006
Anna Banfi
Con la frase citata nel titolo, Edoardo Sanguineti ha concluso il suo intervento presso l'Università degli Studi di Palermo il 26 marzo scorso durante la presentazione del libro Teatro antico. Traduzioni e ricordi. Al centro della sua attività di drammaturgo e traduttore c'è la visione del teatro come luogo in cui si manifesta il lavoro collettivo culturale di una società. Proprio alla sua esperienza drammaturgica è dedicato questo volume che raccoglie i drammi classici tradotti da Sanguineti tra il 1968 e il 1992: Le Baccanti di Euripide (1968), Fedra di Seneca (1969), Le Troiane di Euripide (1974), Le Coefore di Eschilo (1978), La festa delle donne di Aristofane (1979), Edipo tiranno di Sofocle (1980), I Sette contro Tebe di Eschilo (1992).
Sanguineti non ha mai tradotto un testo classico se non su precisa richiesta di un regista: egli stesso, nella prefazione al volume, ripercorre la storia delle committenze che ha ricevuto, sottolineando di volta in volta l'atteggiamento di registi e attori di fronte alla propria traduzione, in alcuni casi attualizzata senza che tale scelta venisse da lui pienamente condivisa. È il caso questo, ad esempio, della messa in scena de Le Baccanti presso il Teatro Stabile di Genova nel 1968 per la regia di Luigi Squarzina: il regista inquadra la tragedia di Euripide nel clima politico e culturale del tempo, pensando all'avvento di Dioniso e delle Baccanti come a una rivolta sessantottesca.
Sanguineti svolge delle riflessioni interessanti sul ruolo del traduttore: la differenza tra una traduzione destinata alla lettura, che può liricizzare il testo, e una traduzione destinata al teatro è, secondo il poeta, abissale. Ma poi aggiunge: "Io, in verità, non agirei diversamente nemmeno di fronte a una traduzione destinata alla lettura, perché chi legge correttamente un testo drammatico lo mette in scena in un teatro interiore: dipinge i fondali, mette i costumi, sceglie le musiche; altrimenti legge male, o comunque non legge teatro. A me è sempre interessata innanzitutto la dicibilità del testo tradotto per il teatro: la parola drammaticamente forte".
Il traduttore deve essere cosciente che, nel momento stesso in cui traduce un testo, diventa egli stesso l'autore, un autore che non è lo stesso dell'opera originale, perché usa altre parole e scrive filtrando il testo attraverso la propria esperienza di scrittore e di uomo. Ogni traduzione è diversa dall'altra, perché prodotto di epoche e di penne diverse: chi traduce riscrive e lo fa ogni volta in modo originale, perché nella sua opera si specchia la sua indole, la realtà in cui vive e l'interpretazione personale che dà di essa.
Il tentativo di chi traduce di rendersi trasparente, di consegnare il testo antico così come doveva essere è pura utopia: è importante che il traduttore riconosca l'originalità del proprio lavoro, dice Sanguineti e, aggiungiamo noi, è importante che ne sia cosciente anche il pubblico, perché comprenda di leggere o di vedere rappresentata un'opera che non ha la pretesa di essere, a secoli di distanza, esattamente ciò che era in origine. La ricchezza di un testo teatrale antico è forse proprio quella di poter essere letto e riletto da occhi diversi, da prospettive differenti, spronando sempre alla riflessione, più feconda e stimolante proprio perché collettiva.
I curatori del volume sottolineano l'unicità della figura di Sanguineti nel panorama della traduzione italiana dei testi antichi: egli è lontano dall'esperienza classicistica di Romagnoli, come da quella anticlassicistica di Pasolini; non trova punti di contatto né con la traduzione filosofica di Severino né con la cosiddetta "traduzione di servizio" – accademica e divulgativa a un tempo – che prende il via negli anni settanta. Sanguineti rimane così una figura isolata, eccezionale, che, come traduttore, non si può inquadrare in una corrente letteraria precisa. Egli insiste nel ribadire con fermezza la distanza degli autori classici dal mondo moderno: gli scrittori antichi non sono nostri contemporanei, lo sono i traduttori.
Sanguineti sostiene che la forza della tragedia greca è l'insolubilità del conflitto. Nelle Baccanti da una parte c'è Dioniso, come epifania del divino, dall'altra la democrazia greca: non c'è soluzione, il poeta non prende posizione ed è proprio questo che rende il conflitto profondo, irrisolvibile, tragico appunto. Il teatro è il luogo in cui vengono rappresentati questi conflitti e in cui si riflette, si discute e si pensa la realtà. Sanguineti dice che a questo mondo non c'è che teatro: alla luce di queste considerazioni, possiamo forse aggiungere che a questo mondo non ci sono che teatro e politica.
Una città e il suo occhio. Piranesi: Roma e il suo tempo
Recensione a: La Roma di Piranesi. La città del Settecento nelle grandi vedute, Roma, Museo del Corso 14 novembre 2006-25 febbraio 2007; catalogo della mostra a cura di Mario Bevilacqua e Mario Gori Sassoli, Artemide, Roma 2006
Alberto Spinazzi
Basterebbero alcune parole del saggio di Marcello Fagiolo a spiegare l'intero senso della mostra sulla Roma vista e rappresentata da Giovanbattista Piranesi appena conclusasi: "In tutta la millenaria storia della città si scontrano dunque, anche nella vicenda evolutiva della sua rappresentazione, le due opposte categorie dell'Ordine e del Caos".
La mostra recentemente tenutasi a Roma, La Roma di Piranesi. La città del Settecento nelle grandi vedute (Museo del Corso, 14 novembre 2006-25 febbraio 2007) ha il merito di presentare l'opera che il maestro e i suoi contemporanei traggono dalla città e un catalogo di alta qualità culturale e scientifica (ed. Artemide, Roma 2006). I saggi in esso contenuti variano dal completo lavoro di Mario Bevilacqua sulla Roma di Piranesi, dove viene messo in luce tutto il percorso formativo dell'artista, fino a saggi più specifici quali quelli sul rapporto con il mondo inglese di John Wilton-Ely, e francese di Francesca Lui. La mostra ha inoltre il merito di affiancare le opere del grande maestro con una serie di apparati che coadiuvano la comprensione della Roma settecentesca e dell'atmosfera che vi si respirava. Vanno ricordate, tra le tante cose, vedute di altri pittori, le piante del Nolli e del Vasi, un'interessante raccolta numismatica, di possesso della Cassa di Risparmio di Roma, che sponsorizza e ospita l'evento, vedute del Pannini, gli studi su Villa Adriana completati dal figlio di Piranesi, modelli per la fontana di Trevi, taccuini con schizzi e diverse matrici per incisioni in rame fornite dall'Istituto Nazionale della Grafica, inaugurando così una nuova collaborazione tra gli studiosi ed il medesimo istituto.
Come spiega Bevilacqua, a partire e anche precedentemente alla pubblicazione piranesiana della Raccolta di varie vedute di Roma sia antica che moderna, concepita verso la fine degli anni quaranta del Settecento e il cui nucleo determina l'esperienza della mostra, si ha un forte sviluppo nel guardare in modo nuovo alla storia e al contesto antiquario che la contraddistingue, assodati oltretutto una circostanza temporale illuministica da un lato e arcadica dall'altro, che si incontrano nello sviluppo di un scambio antiquario senza precedenti in Europa. Tale mercato trova proprio nell'incisione il suo culmine, grazie anche all'interesse sempre più pressante, nella produzione delle medesime, della Camera Apostolica, una sorta di Ministero del Tesoro dello Stato Vaticano. Nel catalogo sono presentate tutte le vedute piranesiane, e l'impressione che se ne trae è quella di una certa "mappatura" dei luoghi di Roma che Piranesi ritiene più significativi, come San Pietro o Santa Maria Maggiore, angoli minori o rovine, come i lacerti della Domus di Nerone o gli attuali Fori, o ancora interni quali quelli del Pantheon o del Mausoleo di Santa Costanza.
Il maestro appare, come spiega ulteriormente Bevilacqua, influenzato dall'esperienza vissuta, ai primordi della carriera romana, presso gli studi del siciliano Giuseppe Vasi e del lombardo Giambattista Nolli. Entrambi produrranno delle piante della Città Eterna, alle quali è ormai assodato abbia lavorato anche Piranesi, ed è proprio questo tentativo di restituzione delle diverse realtà della città che contraddistingue l'opera posteriore del maestro presente in mostra e stampata accuratamente nel catalogo. Si tratta, altresì, di un tentativo di consegnare ai posteri delle imagines urbis diversissime tra loro e giustapporle senza alcuna soluzione di continuità: dove c'è l’interno del Pantheon, vuoto in tutta la sua bellezza, vi sono diverse vedute di rovine di ville antiche nei pressi di Tivoli, che niente hanno della degna venustas imperiale di tante altre incisioni. Tale è la Roma di Piranesi, e simile è l'effetto che necessariamente evoca nei nostri contemporanei, innamorati del fascino di una città presentata per frammenti, per parti, come avrebbe detto Aldo Rossi, autoreferenziali in tutto il loro lacerato splendore.
Ciò che l'arte grafica di Piranesi in mostra c'insegna è il totale artificio cui lo spettatore è sottoposto; la sua veduta di Piazza di Spagna elude l'importanza della scalinata per comporre una sorta di teatro cui tutto è costretto a sottostare per poter convivere con l'illusione prospettica imposta. Si deve così elaborare uno spazio compresso dove tutti i frammenti dell'antico stiano insieme, come nel Teatro di Marcello, con le superfetazioni medievali o nella veduta dell'Arco di Settimio Severo, dove si nota in primo piano l'isolamento della colonna corinzia e man mano l'arco e infine la chiesa barocca. Roma è sì per il giovane Piranesi il modello dell'evoluzione delle civiltà storiche, e ciò porta alla sua straordinaria qualità di restituzione archeologica, ma è anche l'occasione per rendersi conto che quando un'architettura diventa forma cessa il dialogo con ciò che le sta intorno. In questo senso le sue incisioni di Roma, soprattutto gli esterni, non sono per niente confortanti: le forme sono indispensabili ma non sono utili nella ricerca di una riconciliazione fra tempo e spazio. La straordinaria veduta della Dogana di Terra di Piazza Pietra ci parla di un'attentissima restituzione archeologica, quasi scientifica, ma allo stesso tempo ci mostra un insieme di frammenti che chiedono di essere rappresentati nel loro sfaldarsi all'interno di un passato che non permette il dialogo.
Il saggio di Fabio Barry, Rinovare anziché ristorare. Piranesi architetto, termina la serie degli interventi che compongono il catalogo, mettendo in luce l'effettiva attività del maestro come architetto durante il papato di Clemente XIII Rezzonico; dal rifacimento della chiesa dei Cavalieri di Malta sull'Aventino, Santa Maria del Priorato, fino ai progetti mai realizzati per il nuovo coro della cattedrale di San Giovanni in Laterano. In merito a quest' ultimo Barry propone anche un'interessante appendice documentaria, che contestualizza il progetto di Piranesi all'interno di una più generale questione sul rifacimento dell'area absidale, in merito alla quale viene presentata anche un'animazione video che mostra come sarebbe stato il progetto principale se fosse stato realizzato.
Conclude il catalogo un apparato dove vengono elencate tutte le opere presenti in mostra di cui si è sopra parlato, secondo le ormai consolidate clausole museali che mirano a ricostituire, per quanto possibile, il contesto del periodo e della committenza che si vuole descrivere.
Per citare questo articolo / To cite this article: G. Guidarelli, Dalla bottega al cantiere. I Lombardo e l’architettura a Venezia tra ‘400 e ‘500. Recensione a: I Lombardo. Architettura e scultura a Venezia tra ‘400 e ‘500, a cura di Andrea Guerra, Manuela M. Morresi, Richard Schofield, Università Iuav di Venezia, Marsilio editori, Venezia 2006, “La Rivista di Engramma” n. 57, maggio 2007, pp. 37-43 | PDF of the article