Giulia Farnese come Madonna, in un dipinto di Pinturicchio per Alessandro VI Borgia
Iconografia ‘nuziale’ nella pittura del XVI secolo
Sergio Bertelli
English abstract
In un saggio del 1979, Giovanni Pozzi si era chiesto se i tanti ritratti cinquecenteschi di ‘donne alla toilette’ e le tante ‘Flore’ non fossero, in realtà, ritratti fisiognomici, anche se aggiungeva: “A me a me non va per nulla che in un ritratto di nozze la donna rinascimentale si presenti in camicia” (Pozzi 1979, 24). In realtà, posso affermare (ed è la tesi che ho esposto nel terzo saggio del mio libro, Le mammelle della sposa. Cortigiane sfacciate e sposi voyeurs (Bertelli 2002) che, nel corso del Cinquecento, fosse invalso l’uso, da parte dei novelli sposi, di commissionare un doppio ritratto della donna che avevano impalmato: il primo la ritraeva con l’abito di gala della cerimonia nuziale, il secondo con le sue nudità. Si trattava di dipinti riservati, gelosamente custoditi nella camera nuziale, coperti da una tirella che celava a sguardi estranei le fattezze della giovane sposa. Come esempio massimo di un simile doppio ritratto, indicavo Amor sacro e amor profano (Bertelli 2002), ma individuavo anche una serie di dipinti gemelli, che ritraevano una stessa modella, in abito nuziale prima, discinta poi. In campo letterario, Pozzi ha individuato due canoni della bellezza muliebre, un primo che ha definito ‘breve’ (Petrarca) e un secondo ‘lungo’ (Boccaccio). “Il canone suppone un catalogo fisso delle parti anatomiche privilegiate e questo suppone a sua volta una concezione tipizzata della bellezza fisica” (Pozzi 1979, 5). La descrizione petrarchesca privilegia il volto, il collo, il seno, la mano, mentre Boccaccio si spinge ad altre parti del corpo (nella Commedia delle ninfe fiorentine) sino ad arrivare a Olimpo da Sassoferrato con il suo Libro d’amore chiamato gloria (1520), dove appaiono ventidue strambotti introdotti dalla didascalia “Comparazione de laude alla signora mia, cominciando dal capo infino alli piedi”. Al canone breve (citazione delle sole parti ‘elevate’) si atteneva Ronsard (Vigarello 2004, 16) – gli occhi, la fronte, le labbra e il seno:
Seni bianchi come alabastro
E i tuoi occhi due soli
I tuoi bei capelli
Un’ampia descrizione di beltà fisiche è dato trovare anche nell’Hypnerotomachia Poliphili. Sappiamo, a questo proposito, che Vincenzo Gonzaga appronterà un camerino dedicato alle donne più belle1 (Piccinelli 2000, 23, 41).
Potremmo tentare di costruire anche noi un canone per i molti ritratti muliebri quattro-cinquecenteschi, specie di ambito veneziano. Li potremmo dividere in due tipologie: il ritratto con il vestito nuziale, e il suo pendant con la donna nuda o seminuda. Vi sono alcuni elementi che ricorrono in maniera costante (anche se non necessariamente tutti assieme), tratti dalle fonti classiche (in particolare da Plutarco, semmai mediato da Giovan Paolo Lomazzo): il velo nuziale, il cintolo verginale, l’acqua e il fuoco (allusione alla prolificità e all'amore perenne) e la mela cotogna2 (cfr. Prudentissimi et gravi documenti circa la elettion della moglie, dello eccellentissimo et dottissimo M. Francesco Barbaro... nuouamente dal latino tradotti per Alberto Lollio, Vinegia, appresso Gabriel Giolito de Ferrari 1548, 35), il mirto (attributo di Venere e di Bona, dea patrona dei parti), il lauro (indice di castità: lo si veda nella fanciulla di Giorgione dipinta ‘ad instantia’ di un tal ‘Messer Giacomo’ (Vienna), la rosa, il bouquet di fiori, l’anello, spesso con una perla incastonata (simbolo di purezza)3, la catena d’amore, il bracciale all’omero sinistro, il guanto, infine il pavone (il volatile attributo di Giunone).
Talvolta, ai piedi della bella, compare un cagnolino: dall’Alciati (1531, Emblema LXI) è inserito In fidem uxoriam e, secondo Cesare Ripa, esso indica la fedeltà. Che non si tratti, come si è spesso creduto, di rappresentazioni di cortigiane, è dimostrato dal fatto che costoro, se si volevano far ritrarre, come Vittoria Franco, sceglievano semmai le sembianze di Leda, Danae, Venere (Filippi 1996, 171). Se poi intendevano comparire apertamente, allora vestivano sontuosamente, come la cantante e amante di Messer Niccolò, Barbera Salutati Raffacani, ritratta da Domenico Puligo, con in mano un foglio di musica (forse una delle canzoni scritte per gli intermezzi della Clizia da Philippe Verdelot?)4.
Il canone è arricchito da un altro simbolismo, che ritorna sovente: la donna ritratta mostra la mano destra con l’indice e il medio divaricati a forbice. Lo si veda ne La Velata (1513) di Raffaello (Firenze, Uffizi); nella Giovane donna romana (ca. 1513) di Sebastiano del Piombo (Berlino); in Flora di Tiziano (Firenze, Uffizi); in Violante di Giovanni Cariani (o Palma il vecchio? oggi a Budapest). Un gesto che io interpreto come allusivo al sesso, ricordando Dante (“il ladro le mani alzò con amendue le fiche gridando: Togli, Dio, ch’a te le squadro” Inferno, xxv, 2).
Rintracciare il doppio delle tante Flore, o il corrispettivo di Donna veneziana di Palma il Vecchio (Milano, Poldi Pezzoli), della Donna allo specchio di Giulio Romano (Mosca, Museo Puskin) o della tizianesca Venere alla toletta (Washington, National Gallery), è difficile, se non addirittura impossibile.
Tuttavia, nella mia ricerca, ho potuto rintracciare alcuni ritratti muliebri che, sparsi in varie parti del mondo, è stato possibile ricomporre ad unguem. Tralasciando alcuni dipinti a soggetto chiaramente nuziale dei quali ho già dato conto nel mio libro, do qui di seguito un breve elenco di coppie gemelle. Tiziano: La bella, risalente al 1536 (Firenze, Pitti), e Giovane donna in pelliccia (Vienna), dello stesso anno, sono due dipinti che vanno ricongiunti.
Come ho già notato in precedenza, la dama avvolta nella pelliccia indossa, in realtà, il cotardio (la cotte hardie), un indumento usato nelle notti invernali e che pertanto rinvia immediatamente al letto nuziale. I due quadri misurano rispettivamente cm. 95x63 e cm. 75x69. La stessa donna è di nuovo ritratta Con cappello piumato (Hermitage, cm. 97x75) e nuda, distesa sul letto, come Venere (Firenze, Uffizi)5.
Altro doppio è quello de La Velata (databile al 1513) e La Fornarina (un titolo risalente al 1772!) di Raffaello. I quadri misurano cm. 85x64 e cm 85x60. Anche in questo caso abbiamo a che fare con un prima e con un dopo. È la stessa donna a mostrarsi col velo nuziale, e quindi a sciogliere la camicia e a mostrare allo sposo il seno nudo6. Ritroviamo nel dipinto gli stessi canoni già segnalati: il velo nuziale, la mela cotogna, il mirto, la fede coniugale. Non solo, ma nell’inventario del 1644 del cardinale Antonio Barberini, che ne era il proprietario, è registrato che i quadri erano dotati di due ‘sportelli’, che li racchiudevano, nascondendoli ad occhi indiscreti.
Altri quadri gemelli appaiono la Fanciulla che si scopre il seno e il Ritratto di dama sconosciuta di Tintoretto, oggi al Prado a Madrid. Entrambi misurano cm. 75x65 e appaiono di nuovo soggetti nuziali, con un prima e un dopo.
Analogamente, quadri gemelli appaiono quelli, di Girolamo Forabosco (1604-1679), che ritraggono la contessa Ginevra Baglioni (Firenze, Uffizi e Pitti): entrambi misurano cm. 65,5x52,5 e 66x51,2. Sebbene in questo ultimo caso la pruderie seicentesca vieti la completa nudità, è certo che la donna appare in un primo tempo in tutta la sontuosità dell’abito nuziale, in deshabillé nel secondo.
Quale destinazione avevano questi quadri gemelli? Ha scritto Rosanna Sacchi che “il capitolo relativo alla fruizione contemporanea dei ritratti rinascimentali è ancora tutto da scrivere” (Sacchi 2007, 77). Ritengo che essi venissero custoditi nella zona più intima della casa: il talamo nuziale. Leon Battista Alberti consigliava di appenderli “ubi uxoribus conveniant nonnisi dignissimos hominum et formosissimos vultus [...]; plurimum enim habere id momenti ad conceptus matronarum et futuram spetiem prolis ferunt” (De re aedificatoria, IX, 4).
Lo ripeteva Giovan Paolo Lomazzo (1538-1600), nel Trattato dell’arte de la pittura, quando raccomandava di situare ogni dipinto “al suo luoco dicevole e conveniente” (Lomazzo [1584] 1968, I, 143). Dello stesso avviso era il senese Giulio Mancini (1558-1630):
Et simil pitture lascive in simil luoghi ove si intrattenga con sua consorte sono a proposito, perché simil veduta giova assai a far figli belli e gagliardi […] ma però non devono esser viste da fanciulli e zitelle, né da persone esterne e scrupolose (Mancini 1956-57, I, 143).
Ora, il luogo appropriato non v’è dubbio fosse il cubiculo del signore. Lo conferma una lettera di Pietro Aretino a Don Diego Mendoza, del 15 agosto 1542, a proposito di un dipinto di Tiziano:
Chi dubitasse, Signore, de la bizzarria de i vostri andari, consideri il sonetto che mi avete fatto comporre sopra il ritratto del quale mostrate solamente lo invoglio di seta, che lo ricopre a guisa di reliquia. Ma perché son certo che i miei versi non tengono in sè tanto di buono quanto in lei mostra di naturale la Donna che, senza averla inanzi, vi ha rasemplata il Vecellio, ne chieggo perdono al fantastico del suggetto impostomi.
Il sonetto che accompagnava la lettera contiene due passi che mi sembrano importanti:
Furtivamente Tiziano e Amore
Presi a gara i pennelli e le quadrella
Duo essempi han fatto d’una Donna bella,
E sacrati al Mendoza aureo Signore
Ond’egli altier di sì divin favore.
[…]
Per seguir cotal Dea cone sua Stella
L’uno in camera tien, l’altro nel core.
E mentre quella effigie e questa imago,
Dentro di sè scopre, e fuor cela ad altrui,
E in ciò che più desìa, meno appar vago,
Vanta il secreto che s’asconde in lui.
Che, s’ognun è del foco suo presago,
Ardendo poi non sa verun di cui.
Dunque al poeta è stato commissionato un sonetto, ma gli è stato contestualmente impedito di vedere il ritratto (evidentemente la donna è discinta!), solo consentendogli di ammirare l’“invoglio di seta” che lo ricopre. È la stessa tirella che, col motto SVA CUIQUE PERSONA, copriva il volto de La monaca (sic!) di Giuliano Bugiardini (1475-1554, Firenze, Uffizi). Ma il sonetto ci informa di un’ulteriore cosa importante: ci dice che il dipinto è custodito nel talamo nuziale (“L’uno in camera tien”), celato a sguardi ‘altrui’.
A questo punto potrebbe sorgere un dubbio: com’era possibile che il marito consentisse a un pittore di ritrarre le nudità della propria sposa? Ma qui dobbiamo rifarci a Norbert Elias, che ci ricorda come la soglia del pudore fosse diversa dalla nostra e come lo spogliarsi davanti ad un servitore (e tale andrà considerato anche il pittore) non la infrangesse, non implicasse alcuna remora (Elias 1982, 311 sgg.).
Ignoro quando fosse invalso questo uso di tenere il ritratto dell’amata nel luogo più riposto della casa. Ma ci viene in soccorso, come datazione cronologicamente alta, l’affresco che Alessandro VI, in modo quasi blasfemo, commissionò nel 1492 a Pinturicchio per il proprio cubicolo, negli appartamenti Borgia. Il committente si era fatto ritrarre inginocchiato di fronte alla Vergine col Bambino divino, solo che alla Madre aveva prestato il volto l’amante del pontefice, Giulia Farnese! Successivamente, la damnatio memoriae non solo avrebbe fatto isolare l’intero appartamento (sarà riscoperto nell’aprile 1889 da Leone XIII); l’intero affresco sarebbe stato distrutto, quasi certamente su ordine di Alessandro VII Chigi della Rovere, segando e risparmiando soltanto le due immagini sacre: il Bambino e la Madonna (entrati in possesso dei Chigi).
Dobbiamo alla rivalità fra i Gonzaga e i Farnese se è stato possibile, a Giovanni Incisa della Rocchetta, ricostruire l’affresco nella sua integrità originaria. La vicenda è stata narrata recentemente da Franco Ivan Nucciarelli7 (Nucciarelli, 2007). Nel novembre 1940, invitato a giudicare un dipinto custodito in un palazzo mantovano e attribuito dalla sua proprietaria al Francia, Incisa della Rocchetta vi riconosceva invece subito la copia dei due lacerti posseduti dai Chigi e a lui ben familiari (sua madre era la principessa Eleonora Chigi). Poté così scoprire che Francesco IV Gonzaga aveva incaricato il pittore mantovano Pietro Facchetti di fare una riproduzione del compromettente affresco: quella che, appunto, adesso Incisa della Rocchetta (Incisa della Rocchetta 1947, 176-84) aveva davanti e che gli consentiva di ricostruire l’affresco nella sua interezza! Prima e dopo la comunicazione di Incisa della Rocchetta, sulle orme di una notizia vasariana, numerosi critici d’arte avevano cercato l’affresco negli appartamenti Borgia (Sibille, Credo, Arti liberali, Santi e Misteri). Non avevano guardato laddove mai avrebbero potuto immaginare la grandezza blasfema del papa Borgia: nella sua stanza da letto. Ma, mi si consenta di concludere: quod demonstrandum erat!
Note
1 L’esempio sarà seguito da Carlo II d’Inghilterra, cfr. Painted Ladies. Women at the Court of Charles II, a cura di C. MacLeod, J. Marciari Alexander, London 2001.
2 Scrive Francesco Barbaro: “Era consuetudine di rappresentare alla nuova sposa il fuoco e l’acqua, et ella l’uno e l’altra con le mani toccando, dava facilmente ad intendere, che per generare principalmente figliuoli si pigliava la moglie. Imperò che sì come il calore et la humidità che in quelli elementi si trovano eccellenti sono cagione della generazione delle cose, così a punto la copula del maschio et della femina per la produttion della prole è stata dagli huomini introdutta, e per quanto riguarda la mela cotogna e i velo Solone, uno de i sette famosi savi della Grecia, ordinò che la donna che si accompagnasse al marito, dovesse prima mangiare un pomo cotogno, quasi volendo inferire che la voce e il parlar della moglie doveva sempre essere inverso il consorte soave, piacevole e gioconda”. Lo segue Sofonisba Anguissola (1535-1625 ca., Roma, Galleria Doria Pamphili).
3 Non necessariamente un richiamo petrarchesco: “Parea chiusa in fin or candida perla” (Rime, 325, 80).
4 Riproduzione in Domenico Puligo, 1492-1527, cat. della mostra, Firenze 2002, tav. 27.
5 Sul riconoscimento di questa giovane donna come altrettanti ritratti di Giulia da Varano si veda quanto scrivo in Il re, la Vergine, la sposa, 86-89.
6 Su questo dipinto e il suo restauro si veda L. Mochi Onori, La Fornarina di Raffaello, Skira, Milano, 2002.
7 Il dipinto del Bambino è oggi proprietà della Fondazione Guglielmo Giordano.
Bibliografia critica di riferimento
- Bertelli, 2002
S. Bertelli, Il re, la Vergine, la sposa. Eros, maternità e potere nella cultura figurativa europea, Roma 2002. - Elias, 1982
N. Elias, La civiltà delle buone maniere, Bologna 1982. - Filippi, 1996
E. Filippi, Le donne del Tintoretto, in Jacopo Tintoretto nel quarto centenario della morte, a cura di P. Rossi e L. Puppi, Venezia 1996. - Incisa della Rocchetta, 1947
G. Incisa della Rocchetta, Ricostruzione d’un Pinturicchio borgiano, Strenna dei Romanisti, 8, 1947. - Mancini, 1956-57
G. Mancini, Considerationi sulla pittura, ed. L. Salerno, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1956-57. - Nucciarelli, 2007
F.I. Nucciarelli, Pinturicchio. Il Bambin Gesù delle mani, Perugia 2007. - Pozzi, 1979
G. Pozzi, Il ritratto della donna nella poesia d’inizio Cinquecento e la pittura di Giorgione, “Lettere italiane”, XXXI, 1, gennaio-marzo 1979. - Piccinelli, 2000
R. Piccinelli, Le collezioni Gonzaga. Il carteggio tra Firenze e Mantova (1554-1626), Milano 2000. - Sacchi, 2007
R. Sacchi, Intorno al perduto ritratto di Francesco II Sforza di Tiziano, in Il ritratto nell’Europa del Cinquecento, Atti del Convegno (Firenze, 7-8 novembre 2002), a cura di A. Galli, C. Piccinin, M. Rossi, Firenze 2007. - Vigarello, 2004
G. Vigarello, Storia della bellezza, Roma 2004.
English abstract
Through a sequence of iconographic evidences, the essay aims to support the thesis according to which commissioning a double portrait of the bride was a common custom among newlyweds in the sixteenth century: the woman used to be depicted firstly in her wedding gown and then in her nudity.
keywords | Nuptial iconography; Pinturicchio; Giulia Farnese.
Per citare questo articolo / To cite this article: S. Bertelli, Giulia Farnese come Madonna, in un dipinto di Pinturicchio per Alessandro VI Borgia. Iconografia ‘nuziale’ nella pittura del XVI secolo, “La Rivista di Engramma” n. 59, novembre 2007, pp. 1-11 | PDF