"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

129 | settembre 2015

9788898260744

Cortesie per gli ospiti. O “L'Atlante del gesto” di Virgilio Sieni

Fondazione Prada, Milano, 18 settembre- 3 ottobre 2015

Silvia De Laude*

English abstract
Una casa infestata di fantasmi

Lo splendido testo scelto da Virgilio Sieni come epigrafe dello scritto che accompagna il suo Atlante del gesto (progetto che si è articolato in fasi di ricerca aperte ai visitatori, sessione di proiezioni e presentazione di cicli coreografici – questi ultimi tutti i venerdì e sabato, alla Fondazione Prada di Milano, dal 18 settembre al 3 ottobre 2015) è tratto da un'opera di Simone Weil – una delle meno note e più vertiginose, L'Iliade o il poema della forza. Il testo suona così:

"Gli esseri umani intorno a noi con la loro stessa presenza hanno il potere, che appartiene solo a loro, di fermare, di reprimere, di modificare tutti i movimenti che il nostro corpo abbozza; un passante non devia il nostro cammino per strada allo stesso modo di un cartello, quando si è soli non ci si alza, non si cammina, non ci si risiede nella propria posizione allo stesso modo di quando c'è un visitatore" (Weil [1940-1941] 2014).

Sulle orme di Simone Weil lo stesso Virgilio Sieni ci ricorda che i gesti che compiamo, le posture che il nostro corpo assume nelle diverse situazioni sono sempre relazionali. Nella parola visitare si avverte l'eccitazione di senso implicata nell'intensivo latino - guardarsi intensamente, con cura e attenzione; visitarsi l'un l'altro significa anche questo: che il nostro corpo prende piega e movenze declinate secondo il campo energetico innescato dalla presenza dell'altro, degli altri, dell'ambiente in cui avviene la nostra actio, che è anche il fondale su cui si muove la piccola danza quotidiana della nostra vita.

Se ne ascoltiamo il senso all'interno del progetto milanese, il termine “visitatore” sembra potersi intendere in due accezioni diverse: quella di pubblico, naturalmente (“gli spettatori”, che com'è precisato nel foglietto illustrativo “sono liberi di muoversi all'interno dello spazio per l'intera durata della performance”, senza che ad essi sia assegnato un posto fisso), ma anche quella di fantasma, spettro, revenant, qualcuno che torna in altra forma in un luogo dove è già stato, e inevitabilmente condiziona chi adesso si trova in quello stesso luogo. Non per niente Salvatore Settis, nel catalogo della mostra all'origine delle iniziative 'a grappolo' cui ha dato vita l'Ur-esposizione su serialità e iterazione nell'arte antica di Serial Classical (Serial Classic, appunto, come Serial Killer è definito un omicida che torna a colpire, replica il crimine, commette delitti in serie), ha intitolato il primo paragrafo del suo saggio proprio Fantasmi:

"Come un fantasma in una casa infestata, l'arte classica (greco-romana) abita ancora la nostra immaginazione. La occupa, anzi, quanto più (intanto) si allontana dall'orizzonte comune l'intima conoscenza delle civiltà antiche che fino a metà Novecento marcò in Europa la cultura delle élites. Quella frequentazione degli antichi era fondata sui testi greci e latini […]. Ma trovò un veicolo privilegiato di valori, di pensieri, e di modelli anche nell'arte classica" (Settis 2015a, 273).

Delle due accezioni evocate per il termine "visitatori", la seconda, quella di spettro o fantasma, rinvia alle statue antiche che per più di un mese hanno abitato il Podium della Fondazione Prada a Milano, allestito da Rem Koolhaas parrebbe appositamente per loro, perché, tra piani inclinati, avvallamenti e dislivelli che ricostruiscono per figura la fisionomia dell'agorà di una polis, potessero confrontarsi, incrociare gli sguardi e osservare l'una il movimento dell'altra, come i due straordinari corridori di Napoli. 

Venivano da diverse parti del mondo le statue del Podium – da Atene, Vienna, Roma, Dresda, Parma, Teheran... – e la loro partenza, il viaggio che le ha allontanate dallo spazio progettato perché si incontrassero, sono stati oggetto tra la fine di agosto e i primi di settembre di una singolare forma di finissage: un gruppo di studenti universitari di Venezia e di Pavia hanno potuto assistere all'imballaggio e al trasporto di Veneri accovacciate, satiri, discoboli, Penelopi, cariatidi e Apolli, che privi dei sostegni aggiunti in epoche posteriori avevano convissuto per circa un mese, ricevendo la visita di spettatori che su quello stesso suolo erano stati liberi di muoversi fino al 24 agosto, giorno della chiusura di Serial Classic, curata dallo stesso Settis in collaborazione con Anna Anguissola.

  

La co-curatrice ha pubblicato pochi anni fa uno studio sulla "difficillima imitatio", la pratica delle copie in età antica, che proietta la sua luce anche sull'allestimento di Serial Classic, la mostra-antefatto dell'"Atlante del gesto" (Anguissola 2012): quando troviamo l'uno accanto all'altro, per esempio, due marmi e un bronzo che riproducono la posa dell'atleta sul punto di lanciare il disco – quel Discobolo che è fra le più abusate icone dell'arte classica – l'accostamento che abbiamo di fronte non è solo un'operazione in vitro, o un esercizio di dimostrazione della maggiore o minore approssimazione del singolo pezzo superstite all'originale assente, e neppure solo un modo per far ragionare attraverso le immagini: già in epoca romana si era raggiunto un tale livello di consapevolezza nell'uso della tradizione che multipli di uno stesso originale, come appunto il famosissimo Discobolo di Mirone, potevano trovarsi esposti insieme, come era successo con ogni probabilità (prima che le vie del collezionismo le separasssero) per le due copie che avevano convissuto in un'area della Villa Adriana a Tivoli e destinata a palestra (Anguissola 2015, 286).

The Lovely Bones

Se già l'idea del finissage teatralizzato tradiva la difficoltà di chiudere un'esperienza per molti versi unica (il prodigioso aerolito atterrato a Milano dalle parti di via Isonzo, fermata Lodi della metrò gialla, dove con un numero volutamente non esagerarto di pezzi benissimo scelti e un allestimento impeccabile, tutto in levare, una mostra ha cambiato il nostro modo di intendere l'arte greca e la sua funzione), ancora di più l'incombenza di 'disinfestare' e 'riconsacrare' è stata assunta dal progetto coreografico di Sieni, che anche a questo allude, credo, quando parla di “un nuovo modo di abitare lo spazio” e della “creazione di un contesto inedito di riflessione sugli spazi e pratiche in continua relazione con la visione”. Diciamo pure che "L'Atlante del gesto" è stato anche un atto rituale, e che Sieni ne è stato in qualche modo l'officiante, aggirandosi tra i danzatori come un Magister ludi medievale, in posizione defilata, quasi in sordina, riuscendo purtuttavia a dirigere e orientare l'energia del gruppo di danzatori e spingendo danzatori e pubblico a creare una specie di “energia affettiva” (Tomassini 2014, 64 e per il Magister ludi nel teatro medievale De Laude 2014).

È stato lui stesso – il coreografo-officiante – a raccontarci il progressivo prendere forma del progetto, in un'estate milanese torrida, e l'effetto che il singolare popolo di statue, ben visibile “in panoramica” dall'alto delle finestre della sala prove allestita nella Biblioteca (al primo piano del vecchio edificio antistante allo scrigno trasparente di Koolhaas), ha prodotto inevitabilmente sullo stesso fisico dei danzatori, chiamati a ripensare i loro movimenti e lo statuto fisiologico dei loro corpi nel confronto con il gesticolare esclamativo e reclamante dei bronzi e dei marmi sottostanti, primi abitatori e assoluti protagonisti di un luogo così irrecusabilmente loro, pur se lontanissimo dalla provenienza geografica originaria e attuale di ciascuno.

Per riprendere la metafora di Settis, quello spazio, nato dall'intenso confronto tra l'architetto e il curatore della mostra proprio per inventare il modo migliore, il più giusto per ospitare l'eterogeneo popolo di statue, era per i danzatori che si preparavano a trasferirvi la loro azione scenica, una volta terminata la mostra, una specie di “casa infestata” – uno spazio comunque da aprire. Proprio per questo Sieni ha chiesto l'apertura nel Podium di un grande scivolo, da cui si accede all'ampio cortile, dove il pubblico poteva muoversi liberamente e arrivare al Cinema per assistere ad un assolo emozionante di Annamaria Ajmone.

Il Podium, insomma, ha aperto le sue porte, anche se non ci si poteva né ci si voleva illudere che loro – le statue, gli “ospiti” che avevano ammantato la “casa” col loro problematico splendore – se ne andassero alla spicciolata, come se niente fosse, e senza lasciare traccia di sé nel luogo costruito per loro e negli stessi corpi dei danzatori, costretti per mesi a una forma di coabitazione forzata (dapprima solo tramite la visione dall'alto, dalle finestre) con quella folla eterogenea e variamente piena di pretese: gli “amabili resti” della prima vetrina (un braccio delicato forse infantile, ciglia rovinate, una bocca di bambino o di bambina, che come nel romanzo di Alice Sebald sembra avere ancora qualcosa da dire); personaggi che credevamo di conoscere da sempre, come il Doriforo o il solito Discobolo di Mirone, perduto ma sostituito (in rappresentanza) da alcune delle sue copie romane; clamorose new entry, come la Penelope addolorata ritrovata in epoca relativamente recente negli scavi della Persepolis distrutta da Alessandro Magno: elegante, dignitosa, circondata da frammenti di sorelle (copie forse del suo stesso archetipo perduto), veste un peplo di grande effetto scenografico e si presenta in posa, atteggiata in modo da produrre in chi la osserva un forte impatto emotivo, con il capo sostenuto malinconicamente dal braccio (una specie di os columnatum, sbeffeggia Plauto la postura nel Miles gloriosus), che configura una fra le più proverbiali Pathosformeln censite da Warburg nell'Atlante Mnemosyne: un “Atlante di gesti”, appunto, anche se non solo (Settis 1975; Giuliani 2013).

Serial Classic si apre con un’assenza: i frammenti di statue bronzee di etàˆ classica da Olimpia, che formano una sorta di prologo, rappresentano un vuoto, una perdita, un lutto. Mettendo insieme fonti antiche e risultati di scavo, si valuta che vi fossero nella sola Olimpia da 1000 a 3000 statue di bronzo. Ma gli scavi hanno recuperato solo poche decine di frammenti: occhi, dita, piedi, mani, genitali, ciglia, orecchie... L’umile testimonianza di questi frammenti simboleggia quel che accadde dappertutto nel Medio Evo: il nudo metallo valeva più di qualsiasi “opera d’arte” e veniva fuso; i marmi vennero spesso usati per farne calce o reimpiegati nella costruzione di chiese o palazzi. Perci˜ò la produzione artistica dell’antichità è quasi interamente perduta, e non ce ne resta più del 2 per cento; i bronzi greci più o meno interi oggi non sono che un centinaio, quasi tutti tornati alla luce negli ultimi 120 anni, spesso emergendo dal mare, millenni dopo il naufragio della nave che li trasportava (Settis 2015b).

Se è così, l'"Atlante del gesto" di Sieni rappresenta, fin dalla sua lunga preparazione, un rito di riappropriazione da parte dei corpi di carne di sé e dello spazio circostante. Consapevoli o no della posta in gioco, i corpi veri dei danzatori danno luogo con straordinaria concentrazione ed energia a un'azione in cinque movimenti (Origine, Annuncio, Gravità, Rituale, Nudità), che ha una sua autonomia, nell'insieme e nelle parti che lo compongono, ma è anche un cerimoniale congedo dagli schemata – le immagini, le posture e i gesti – del disperso popolo di statue: il vocabolario di gesti e posture cristallizzato proprio attraverso la serialità in media diversi, come la danza, il teatro, la pittura, la scultura, nonché l'ufficio del rito. The comfort of strangers, potremmo dire, ovvero, per riprendere il titolo italiano di un bel libro di Ian Mc Ewan, Cortesie per gli ospiti.

Dopo una prima fase di ricognizione non palesemente mirata, un po' come quando sconosciuti si osservano senza darlo a vedere (da Charles Darwin, Warburg aveva imparato moltissimo, come ha ribadito di recente Carlo Ginzburg) – la fase che corrisponde all'osservazione del Podium dall'alto della sala prove, “in visione panoramica” (secondo le parole dello stesso Sieni) – i danzatori approdano a loro volta sul suolo sconnesso del Podium, dove a piedi nudi si trovavano le statue, e si esercitano nel trapiantare nel nuovo spazio l'azione coreografica memorizzata altrove. C'è poi il debutto, e con il debutto l'arrivo nel cerchio magico del Podium di altri “visitatori”. A quel punto, i danzatori si trovano tra due fuochi: i fantasmi imperiosi delle statue e del modo in cui hanno occupato lo spazio immaginato per loro da Settis e Koohlaas, ma anche i corpi veri degli spettatori, liberi di spostarsi a loro volta in quello spazio – e qualche volta, soprattutto dopo la meno affollata anteprima (il 17 settembre), tanto numerosi da costituire involontariamente un intralcio, in grado di determinare “con la sua stessa presenza”, come nella frase di Simone Weil, un movimento imprevisto: un'improvvisa deviazione, il ripiegare o l'avanzata di un gruppo, o anche solo un incrocio di sguardi, uno scarto, la verità di un'esitazione.

Nelle postazioni del Podium – l'immaginaria polis, per dirla con Settis "lo spazio politico" allestito per il popolo di statue dai curatori della Ur-esposizione l'intervento dell'azione coreografica è stato decisivo per dimostrare (warburghianamente) come i gesti dei precedenti abitatori di marmo e di bronzo non potessero essere confinati al ruolo di repertoriabili posture: sintomi di emozioni, espressioni proprie della specie, come Warburg aveva imparato da Darwin, le formule, o schemata, sono per la loro stessa natura manifestazioni fisiologiche di organismi viventi prima che pose plastiche comuni alla statuaria, alla pittura, alla danza, al teatro. La “cristallizzazione gestuale” era un medium trasversale a diversi generi dell’espressione visuale, e fissava modi e tecniche del corpo per esprimere determinati valori, o passioni (Catoni 2008). E certo la frase di Simone Weil fatta figurare da Virgilio Sieni in esergo al foglietto volante di accompagnamento all'esibizione allude anche a questo: nel caso della performance milanese sono due, e non una, le categorie di visitatori che “con la loro stessa presenza” hanno il potere “di fermare, di reprimere, di modificare” i movimenti dei danzatori e il sensibilissimo ingranaggio del loro pulsare e della loro fisiologia: l'incontro (reale) con i corpi viventi degli spettatori e quello (fantasmatico) con i corpi delle statue, che ci sono – pesano, sono lì, anche se non collidono direttamente e fisicamente con le sequenze previste dall'azione scenica.

In questo senso, lo spettacolo milanese rappresenta una tappa importante nella ricerca di Sieni, che da anni porta avanti un lavoro di sperimentazione dell'umano nello spazio, o sul corpo, “la cosa della politica”, e il suo abitare la città, “il luogo della politica”, per riportare i gesti alla loro natura di pura prassi, denudati di ogni sovranità e ricondotti a schemata antropologici che hanno a che fare, piuttosto, con la cultura e con la fisiologia (così Tomassini 2014, riprendendo alcune osservazioni di Agamben 2013, 16). Questa idea del corpo quale strumento politico ha avuto il suo apice efficace in "Agorà" – una delle sezioni dell’ultima Biennale Danza di Venezia, La Dignità del gesto – dove i corpi dei danzatori e del pubblico si muovevano liberamente nello spazio del campo veneziano di San Maurizio e quest’ultimo svolgeva silenzioso il suo naturale ruolo scenografico: anche lì i corpi degli interpreti e del pubblico determinavano e delimitavano il luogo dell’azione. Sieni in scena con loro, mescolato al pubblico, stando in disparte orienta quella che Luce Irigaray ha chiamato “energia vitale relazionale” (Irigaray 2013, 21).

Ho visto l'azione coreografica di Sieni troppe volte e in troppe fasi della sua elaborazione per non notare le differenze fra un'esecuzione e un'altra, l'incessante smania di sperimentazione che agita e sconvolge come onde il flusso motorio dei corpi impegnato nell'allestire le cinque “stazioni”. Ricordo però – dopo la mostra e dopo lo spettacolo – il soprassalto di molte piccole ma emozionanti agnizioni: il riconoscimento improvviso di uno schema; la replica da parte dei danzatori di posture così interiorizzate da farsi naturalmente fisiologiche; intere scene, come quella a cui ho più volte assistito al piano terra del Podium, lungo il lato dove stavano le Veneri accovacciate a terra, che paiono realizzare per figura – con corpi veri, e Warburg, si sa, adorava il teatro – quella figura ostensiva (l'atto di indicare – quell'ecce che è uno snodo capitale dell'Atlante Mnemosyne). Questa parte dell'azione merita a margine qualche considerazione.

Il movimento d'insieme che coinvolge l'organico dei danzatori replica qui un gesto, serializzandolo e quasi trasmettendolo per contiguità dal corpo dell'uno al corpo dell'altro: il gesto è quello deittico di indicare qualcuno o qualcosa, con il braccio teso e il dito puntato, gesto-chiave dell'atlante warburghiano. A ben vedere, fra i puntelli del movimento di pensiero che lo ispira, se l'ecce (in Daniele 7, 13 e altri passi biblici) è per l'appunto “un dispositivo che ci proietta in un'altra dimensione, quella della visione profetica” (Ginzburg 1998, 111-112; Ginzburg 2015, 115-156), in quanto movimento di pensiero alla base del gesto ostensivo, sul presupposto del deittico-ostensivo apre la strada alla presentificazione e al riuso del passato.

A un livello elementare, nella forma canonica della traduzione/rilettura in chiave cristiana di immagini pagane (l'interpretatio christiana di Erwin Panofsky), il “bassorilievo di bronzo di una donna inginocchiata e con le mani protese in atteggiamento di supplice”, di fronte a un altro bassorilievo con “un uomo in piedi, che avvolto splendidamente in un manto, tendeva la mano alla donna” (così Eusebio di Cesarea, all'inizio del IV secolo), è letto senza esitazione come scena di Cristo che guarisce l'Emorroissa, accogliendo una lettura attestata localmente (nella città di Paneas, poi Caesarea Philippi), mentre la figura col mantello rappresentava con ogni probabilità, almeno in un'ottica di filologia archeologica, un Esculapio (Giuliani 2013, 109-110).

Come dire meglio e più warburghianamente l'annuncio, se non dando la massima enfasi a un gesto che fa emergere da immagini e valori all'inizio differenti “le premesse di un fenomeno diverso e del tutto nuovo”, quale è “l'emergere dell'immagine di culto cristiana” (Ginzburg 1998, 112)? A variare il fondamento ostensivo del gesto, senza ritorno, è già l'evangelista Giovanni, il "discepolo che Gesù più amava", che, nella brevità di due versetti evangelici, allestisce la drammaturgia di una doppia presentazione-rivelazione, di commovente impatto emotivo e di grande effetto icastico: – "Gesù, allora, vedendo la madre e lì accanto il discepolo che egli amava, disse alla madre: – Donna, ecco tuo figlio! Poi disse al discepolo: – Ecco tua madre” (Gv, 19, 26-27).

C'è poco da fare

C'è poco da fare. Se la “cristallizzazione gestuale” era un medium trasversale a diversi generi dell’espressione visuale, e fissava i modi e le tecniche del corpo per esprimere determinati valori, niente più che un "Atlante del gesto" affidato a corpi veri poteva concludere l'esperienza cui aveva dato avvio l'Ur-esperimento di Serial Classic, continuandolo e insieme reinventandolo, ma anche prendendo le distanze dall'"atto" precedente. E ancora, tornando a dettagli più minuti: nell'Atlante del gesto rinviano a Warburg citazioni esibite di gesti tòpici, quasi (l'imprevisto dei corpi) in falsetto; l'idea stessa di catalogo; l'incedere marziale e assorto con cui spesso gruppi di danzatori si muovono sulla scena, incarnando la Pathosformel del vincitore mista a un'ombra di intertezza (solo dovuta all'incontro-scontro con gli “spettatori” in carne ed ossa che affollano il Podium, divenuto palcoscenico dopo la partenza delle statue): sono diretti non si sa dove, e non si sa perché. Ma era la Weil a leggere in questa chiave di insensatezza l'Iliade, comela più pura, amara e straziante” rappresentazione della miseria umana, costretta a combatter in un conflitto senza scopo che si alimenta da solo, senza che esistano davvero, credibilmente, dei buoni e dei cattivi.

Secondo Simone Weil, il riconoscimento e la contemplazione della miserevole condizione umana espressa nell'Iliade “implica una spiritualità altissima”, e l'intera civiltà greca si potrebbe intendere come “una ricerca di ponti da lanciare tra la miseria umana e la perfezione divina". “Tutte le arti dei Greci, cui nulla è comparabile”, aggiungeva, “non erano altro che ponti” (Weil [1940-1941]1953). Anche a questi ponti, forse, pensava il Sieni lettore di Simone Weil, quando ha deciso di fare spazio nel Podium alla larga passerella che aprendo l'aerolito trasparente di Koolhaas lascia entrare aria e proietta l'azione scenica verso altri spazi.

Metonimie

Per metonimia, nell'azione coreografica di Sieni ai marmi e ai bronzi che hanno soggiornato nel Podium alludono anche le discrete scritte chiare, in caratteri epigrafici, che non esibite su retoriche targhe ma sullo stesso suolo su cui le statue posavano i piedi declinavano in sobria didascalia durante la mostra-antefatto le generalità di singoli e gruppi, insieme alle fonti antiche ad essi riferite, spesso sorprendentemente esigue e reticenti. Il coreografo ne ha mantenuto una parte. Un chiarimento? Una excusatio non petita? Piuttosto la singolare offerta votiva non di qualcosa che è propriamente un oggetto ma, vale come analogon di un gesto di rispetto, il riconoscimento di un'identità e una memoria: il modo forse di ingraziarsi i morti (le statue) mentre i vivi (i danzatori) devono muoversi e agire nello spazio che i morti hanno abitato.

Insostituibili le musiche eseguite dal vivo da Roberto Cecchetto e Michele Rabbia, attenti psicagogi nell'accompagnare i danzatori nella loro ricerca di ciò che se n'è andato; capaci – ci dice lo stesso Sieni – di ascoltare i gesti, più che smaniosi di intervenire con l'interferenza del suono; bravissimi a inventare tempi e ritmo per quel Denkraum – la spaziatura per il pensiero – che nel Bilderatlas Mnemosyne è il distanziamento sintattico tra immagine e immagine e che qui nella danza di Sieni è spazio libero per la relazione tra corpo e corpo, ma anche tempo di sospensione tra gesto e gesto, che a ogni gesto dà senso e misura.

Perché per esempio, ci si può chiedere, tanta parte dell'azione coreografica si concentra quasi per un'attrazione magnetica verso il basso nella zona più ctonia del Podium, dove durante la mostra erano disposti in cerchio i poco conosciuti fittili di Memna (c. 500-470 a.C.), colonia greca fondata da Locri Epizephirii sulla costa tirrenica della Calabria? Dalla Calabria erano arrivati qui busti di donna prodotti in serie da una matrice, ma diversificati per particolari dell'acconciatura, del trucco, o per l'inclinazione del sorriso; i busti erano stati ritrovati dagli archeologi, insieme ad altri piccoli oggetti votivi, in un tempio dedicato a Persefone, la dea-ragazza rapita alla madre Demetra dal dio degli Inferi, e inghiottita nelle viscere della terra per sposare Ade, il dio degli Inferi. Proprio tante piccoli Persefoni raffigurano col loro sorriso indecifrabile i busti di Memna. Una ha un fiore, forse di loto, in mano. E proprio in questa zona ctonia e angusta del Podium si concentrano (ci sarà un motivo) momenti essenziali della performance, che nell'incessante variazione e sperimentazione offerte nelle diverse sessioni segue una traiettoria significativamente in linea col pensiero espresso da Salvatore Settis nell'Ur-mostra Serial Classic e nei suoi derivati.

*Questo articolo è debitore di due intense conversazioni con Virgilio Sieni (una insieme a Monica Centanni) e di un proficuo scambio di idee con Francesca Romana Dell'Aglio e Stefano Tomassini; molto deve anche ad Angelica Basso (per il lavoro sulle immagini, e non solo).

Riferimenti bibliografici

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G. Agamben, Premessa a Biennale Danza 2013. Abitare il mondo. Trasmissioni e pratiche, a cura di S. Tomassini con D. Giuliano, La Biennale di Venezia, Venezia 2013.

Anguissola 2012
A. Anguissola, “Difficillima imitatio”. Immagine e lessico delle copie tra Grecia e Roma, L'Erma di Bretschneider, Roma 2012.

Anguissola 2015
A. Anguissola, Copie di capolavori. Il canone greco per un pubblico romano, in Serial/Portable Classic, Fondazione Prada, Milano 2015, 284-292 [le illustrazioni sono solo nella versione inglese del testo, ivi, 73-79].

Catoni 2008
M. L. Catoni, La comunicazione non verbale nella Grecia antica, Bollati Boringhieri, Torino 2008.

De Laude 2014
S. De Laude, L’ “attore”. Su teatro e racconto nel Medioevo, Il Bagatto Libri, Roma 2014.

Ginzburg 1998
C. Ginzburg, Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza, Feltrinelli, Milano 1998.

Ginzburg 2015
C. Ginzburg, Paura reverenza terrore. Cinque saggi di iconografia politica, Adelphi, Milano 2015.

Giuliani 2013
L. Giuliani, Sarcofagi di Achille tra Oriente e Occidente: genesi di un'iconografia, in M. L. Catoni, C. Ginzburg, L. Giuliani, S. Settis, Tre figure. Achille, Meleagro, Cristo, a cura di M. L. Catoni, Feltrinelli, Milano 2013, pp. 13-46.

Irigaray 2013
L. Irigaray, Elogio del toccare, Il Melangolo, Genova 2013.

Settis 1975
S. Settis, Immagini della meditazione, dell'incertezza e nel pentimento nell'arte antica, “Prospettiva”, 2, 1975.

Settis 2015a
S. Settis, Sommamente originale. L'arte classica come seriale, iterativa, portatile, in Serial/Portable Classic, Fondazione Prada, Milano 2015, 273-287 [le illustrazioni sono solo nella versione inglese del testo, ivi, 51-72].

Settis 2015b
“Serial Classic”, Foglietto di presentazione della mostra, Fondazione Prada, Milano 2015.

Tomassini 2014
S. Tomassini, Danzare isolati. Logiche di affezione e pratiche discorsive urbane in Sieni, Sciarroni e Di Stefano, “Danza e ricerca” VI, 5, 2014, 55-75.

Weil [1940-1941] 2014
S. Weil, L'Iliade ou le poème de la force, “Cahiers du Sud”, 230 e 231, dicembre 1940 e gennaio 1941; ora in Ead., La rivelazione greca, a cura di M. C. Sala e G. Gaeta, Adelphi, Milano 2014, 31-64.

English abstract

As Salvatore Settis wrote in the first essay of the volume on the theme of seriality and copying in Classical art and the reproduction of small-format Greek and Roman sculptures from the Renaissance period (Serial / Portable Classic, Fondazione Prada, Milano 2015), “like ghosts in a haunted house, classical (Greco-Roman) art inhabits our imagination”. This paper aims to demonstrate that L'Atlante del gesto, the extraordinary choreographical project by Virgilio Sieni which closed the exhibition, is also a surprising and fascinating strategy to find a new way to live this haunting space – through body of dancers engaged with a double comparison, both with the visitors and the ghosts of the statues still haunting the exhibition and performance space.

keywords | Exhibition; Fondazione Prada; Milan; Venice; Serial/Portable Classic; Serial Classic; Performance; Virgilio Sieni; Atlas; Gesture.

Per citare questo articolo/ To cite this article: Silvia de Laude, Cortesie per gli ospiti. O “L'Atlante del gesto” di Virgilio Sieni. Fondazione Prada, Milano, 18 settembre- 3 ottobre 2015, in “La Rivista di Engramma” n.129, settembre 2015, pp. 59-70 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2015.129.0007