Ideologia e furore. La distruzione dei simboli nel radicalismo islamista
Renzo Guolo
English abstract
Siti archeologici fatti saltare con l’esplosivo. Statue abbattute a colpi di piccone. Roghi di libri. Chiese, ma anche moschee e tombe di santi musulmani, devastate. Il furore iconoclasta degli islamisti radicali sunniti sembra non avere limiti. Il teatro di questa distruttiva rappresentazione, sullo sfondo del duplice conflitto siro-iracheno, è principalmente quello della Mezzaluna fertile, la Siria e l’Iraq. Da Mosul a Hatra, da Nimrud a Raqqa, gli uomini dell’IS cancellano il passato pre-islamico, mentre la splendida Palmyra è trasformata in arena di esecuzioni pubbliche di massa e il tempio di Baal viene distrutto. A Mosul, di fatto la capitale dell’autoproclamato Califfato, l’IS ha demolito edifici di interesse storico e religioso, comprese alcune moschee funerarie sciite, come quelle che celebrano Husayn, terzo imam della shi’a.
Nella triste lista dello sfregio vi sono anche luoghi che ricordano il pluralismo confessionale della regione. Monasteri cristiani, la Chiesa Verde di Tikrit, importante simbolo della storia cristiana locale in una città che per molti secoli è stata metropolia della Chiesa siro-ortodossa, la Chiesa dell’Immacolata a Mosul. O il Tempio di Lalish, caro agli yazidi, fedeli di una religione sincretica che mescola elementi di Islam, cristianesimo, zoroastrismo, e considerati “adoratori del Diavolo” dagli jihadisti dello Stato Islamico.
Una furia che ha, altrove, famigerati precedenti. Come la distruzione dei Buddha di Bamiyan in Afghanistan da parte dei Taleban, nel 2001. O lo scempio operato, in anni più recenti, da gruppi qaedisti come Ansar Dine e l’Aqmi a Timbuctù. Nella mitica città di fango del Mali, occupata dalle milizie jihadiste, sono state smantellate le tombe dei santi sufi e dato alle fiamme, in parte, il contenuto della biblioteca nella quale erano raccolti migliaia di manoscritti arabo-islamici dei secoli XIII-XVI.
Ma perché tanto odio verso statue e libri, colonne e cinte murarie, propilei e bassorilievi, oltre che verso alcuni luoghi di culto e testi islamici? I motivi sono teologici e politici. L’islam radicale contemporaneo è intriso di wahhabismo, purista e rigidamente monoteista (Roy 1992; Guolo 2004). Il divieto di adorare alcuna divinità “all’infuori di Dio” è uno dei cardini della dottrina islamica ma nella rigida visione wahhabita a questo principio si affianca quello che proibisce ogni forma di culto rivolta a figure umane o reliquie, tipico della religiosità popolare. O verso quanti sono considerati intermediari con il divino, come i Dodici Imam nella dottrina sciita. Pur in una differenziata gerarchia dell’eresia, sono ritenute entrambe forme di politeismo poiché associano nell’adorazione esseri umani a Dio. In questa lista delle proibizioni ricadono anche le rappresentazioni figurative, dipinti o sculture, che “osano” immortalare divinità pre-islamiche, espressione dell’idolatria che precede la rivelazione profetica, o figure umane. Per ricaduta, diventano luoghi di “empietà” i siti che le ospitano, siano quelli originari o i musei che ne raccolgono i reperti.
I custodi dell’ortodossia dell’IS, dicono che a ordinare la distruzione delle statue sarebbe stato il Profeta. La fonte non è il Corano, ritenuto diretta parola di Dio, ma la Sunna, la tradizione, che raccoglie i “detti del Profeta”, in particolare quello che si riferisce alla presa della Ka’ba con la “battaglia del Fossato”, dopo la quale Muhammad diede ordine di distruggere tutti gli “idoli” in essa contenuti. L’avversione di un monoteismo assoluto, come quello islamico, si rivolge all’idolatria – letteralmente in lingua araba ibadat al-asnam, il culto degli idoli. Gli idolatri, infatti, sono ritenuti ostili al monoteismo in quanto “associano” qualcosa a Dio (Corano, 6, 81; 22, 30). L’iconoclastia dell’Islam delle origini era motivata dal fatto che ogni famiglia del tempo, nella penisola arabica, aveva un proprio idolo oggetto di culto, per lo più scolpito in legno, e si conservavano pietre idolatriche (nusub), venerate e che fungevano da talismani legate al culto degli idoli nel santuario della Mecca prima dell’avvento dell’Islam. Ma una volta cessato quel culto, quelle statue di pietra, che “fanno ombra” poiché ritraggono l’essere umano in forma tridimensionale, non rappresentano più un pericolo per il monoteismo. Eppure, la condanna si è estesa nel tempo a dipinti figurative sino alla fotografia. E la crescente influenza della purista dottrina wahhabita all’interno del salafismo (Amghar, 2011) non ha certo allentato l’ostilità verso le immagini.
Ovviamente, l’iconoclastia degli islamisti radicali si nutre di elementi politici, non solo teologici. In primo luogo il rifiuto della cultura occidentale, della sua penetrante influenza culturale, che i radicali chiamano polemicamente Westoxification, intossicazione da Occidente. E, dunque, anche dell’archeologia e della museologia ritenute, appunto, discipline occidentali. In particolare l’archeologia è direttamente collegata al colonialismo, al quale si imputa l’inizio della decadenza del mondo islamico e la frantumazione della umma, la comunità dei credenti musulmana, in stati-nazione. La passione degli occidentali per le vestigia delle antiche civiltà; la vocazione a creare grandi musei; la nascita di discipline accademiche antichistiche, come l’assirologia. Tutto, per i radicali, rimanda al periodo storico ritenuto alle origini della “malattia dell’Islam” (Meddeb 2002). Persino il ricordo del ruolo politico degli orientalisti occidentali. Come Gertrude Bell, studiosa e viaggiatrice, ma anche agente segreto dell’Ufficio Arabo britannico, lo stesso di Thomas Edward Lawrence, il mitico Lawrence d’Arabia, con il quale contribuì a fare da levatrice all’odierno Iraq, suggerendo quei confini rifiutati e messi in discussione oggi dall’ideologia transazionale e panislamista dell’IS. Gertrude Bell ebbe un importante ruolo alla Conferenza del Cairo del 1921 durante la quale, anche attraverso la creazione dello stato dell’Iraq, venne data forma geopolitica al Medioriente. Del nuovo sovrano dell’Iraq, Faisal bin Hussein, scelto dalla Bell insieme a Lawrence, l’archeologa e arabista britannica divenne poi la principale consigliera. Una costruzione, quella irachena, in seguito disconosciuta, tanto che la Bell abbandonò l’impegno politico e tornò ai suoi interessi archeologici, fondando il Museo Nazionale di Baghdad e divenendone la direttrice. Insieme a Leonard Wolley, che riportò alla luce la necropoli reale di Ur, Bell e Lawrence costituirono l’ossatura del nucleo di archeologi-agenti segreti, creato da David George Hogarth, direttore dell’Ashmolean Museum di Oxford, che entrò a far parte dell’Intelligence militare di Londra a partire dal 1915.
Nella sindrome del colonizzato (Roy 2012) la valorizzazione occidentale dell’eredità culturale pre-islamica è letta come parallela svalutazione del patrimonio islamico. Così la distruzione di quell’antica eredità ha la funzione di colpire l’Occidente attraverso ciò cui esso assegna valore. Significative le parole del Mullah Omar, che spiegherà la distruzione dei Buddha di Bamiyan – atto fondativo della nuova iconoclastia radicale – come risposta alla richiesta di emissari occidentali di restaurare le gigantesche statue danneggiate da piogge torrenziali. Il leader dei Taleban dirà, qualche anno dopo, che ne aveva ordinato la distruzione di fronte all’insensibilità dimostrata, anche nella circostanza, dagli occidentali preoccupati solo per le sorti di “oggetti inanimati” ma non delle vite umane e delle abitazioni danneggiate dall’alluvione. La motivazione formalmente adotta fu la necessità di sopprimere l’idolatria, peraltro inesistente nell’Afghanistan privo ormai di buddisti. Il messaggio era, invece, chiaramente rivolto agli occidentali e alle istituzioni internazionali ritenute da loro controllate, come l’Unesco. E, all’interno, alla popolazione hazara sciita, che con le grandi statue conviveva da secoli nelle grotte ai piedi della grande falesia di arenaria che faceva da nicchia ai Buddha.
Questo tipo di accusa – l’indifferenza per la sorte dei popoli musulmani, l’attenzione “verso le pietre” e non verso le vite di quelli che muoiono per stenti o sotto i bombardamenti – è uno dei classici dell’ideologia radicale. Ben presente nella narrazione che sorregge i video mandati in rete dalle case mediatiche dell’IS, in primo luogo di al Furqan a Al Hayat, che pure hanno un ruolo attivo nella costruzione di immagini “dedite alla causa” nei quali quelle “pietre” sono distrutte. Immagini, che a prima vista possono apparire controproducenti per la ripulsa generale suscitata, ma che per gli islamisti radicali devono parlare non solo a noi, mostrandoci la diversità fra i sistemi di valori, ma anche ai musulmani, nel molteplice intento di: dimostrare cosa significhi lottare contro il taghut (l’idolatria); smentire l’accusa, ricorrente, che i reperti archeologici siano posti in vendita sul mercato nero per finanziare la causa; sollevare l’entusiasmo di quanti odiano l’Occidente e lo vedono dolersi per lo scempio.
In tal modo gli islamisti sunniti sottolineano anche la loro diversità con gli sciiti, anche con quelli che aderiscono all’islam politico (Guolo 2007; Guolo 2008). Questi ultimi non distruggono il patrimonio archeologico; in Iran il regime degli ayatollah si fa un vanto del Museo Nazionale di Teheran, che raccoglie il patrimonio artistico e culturale dell’antica Persia; gli Hezbollah libanesi non demoliscono i resti della città romana di Baalbek, nella loro roccaforte della Valle della Bekaa. Quanto agli sciiti al potere a Baghdad riaprono il Museo Nazionale fondato dalla Bell. L’islam politico sciita non pratica l’iconoclastia: lo dimostra la stessa diffusione nella tradizione religiosa (Amir-Moezzi 2006) dello shamâ’il portatile, l’immagine pia tascabile, oggetto devozionale cui si attribuisce la capacità di assicurare benedizione e protezione al proprietario. Si tratta di una tavoletta in legno, occasionalmente ricoperta di cartapesta dipinta, che talvolta si presenta anche sotto forma di piccolo retablo composto da due o più tavolette che possono nascondere uno specchio, il quale generalmente contiene l’immagine di ‘Alî Ibn Abî Tâlib, il primo imam della shi’a, solo o accompagnato da uno o più personaggi. Grazie allo specchio, chi contempla la tavoletta può passare rapidamente dall’immagine di ‘Alî al riflesso del proprio viso e viceversa. Gesto che rinvia al noto adagio sciita: “Colui che conosce se stesso, conosce il suo Imam che è il suo Signore”. Uno sguardo che consente un diverso approccio, da quello sunnita, al tema dell’immagine.
Nella loro azione di legittimazione davanti alla comunità internazionale, gli islamisti sciiti usano la carta della tutela dell’arte e della bellezza come forma di soft power. Una conferma, agli occhi dei radicali sunniti, della natura di apostati dei seguaci di ‘Alî.
Mai come in queste circostanza le “pietre” parlano. E ci raccontano come l’iconoclastia in versione radicale si nutra di elementi della tradizione e della reinterpretazione in chiave attivistica e politica della stessa, tipica dei movimenti islamisti.
Riferimenti bibliografici
- Amghar 2011
S. Amghar, Salafisme aujourd’hui, Michalon, Paris 2011. - Amir-Moezzi 2006
A. Amir-Moezzi, La religion discrète : croyances et pratiques spirituelles dans l’islam shi’ite, Vrin, Paris 2006. - Bettetini 2005
M. Bettetini, Contro le immagini, le radici della iconoclastia, Laterza, Roma-Bari, 2005. - Guolo 2004
R. Guolo, Il partito di Dio. L’islam radicale contro l’Occidente, Guerini e Associati, Milano, 2004. - Guolo 2007
R. Guolo, L’Islam è compatibile con la democrazia?, Laterza, Roma-Bari, 2007. - Guolo 2008
R. Guolo, Generazione del fronte, Guerini e Associati, Milano, 2008. - Guolo 2012
R. Guolo, Il conflitto settario in Iraq, in “Quaderni di Relazioni internazionali” ISPI, n.16, 28-39. - Meddeb 2012
A. Meddeb, La maladie de l’islam, Seuil, Paris, 2012. - Meijer 2009
R. Meijer, Global Salafism: Islam’s New Religious Movement, Roel Meijer Edition/ Columbia University Press, New York, 2009. - Roy 1992
O. Roy, L’echec de l’islam politique, Seuil, Paris, 1992. - Roy 2012
O. Roy, La sainte ignorance. Le temps de la religion sans culture, Seuil, Paris, 2012.
Abstract
The iconoclastic fury of radical Sunni Islamists seems to have no limits. Mosul, Hatra, Nimrud, Raqqa, Palmyra are just some of the sites attacked by IS militias, determined to clear the Fertile Crescent from its pre-Islamic past. It is a fury that has had notorious precedents – such as the destruction of the Buddhas of Bamiyan in Afghanistan by the Taliban in 2001 – and which is a result of the strictly ortodox Wahhabi vision. According to the Wahhabi doctrine it is absolutely forbidden to worship any gods besides God, as well as any form of worship to human persons or relics. The fundamentalist intransigence finds its legitimacy in the Sunna – according to which, after the capture of the Ka'ba, the Prophet Muhammad ordered to destroy the idols. But, above all, it is a political ideology of rejection of the so-called "Westoxification", the penetration of Western culture in the Arabic world. However, this form of iconoclastic radicalism does not belong to Islam Shiite, who allows the veneration of some devotional objects – as the portable shamâ'il – and which is also proud of his important National Museums – like the Baghdad and Tehran ones.
keywords | Middle East; Islamic radicalism; Palmyra.
Per citare questo articolo / To cite this article: R. Guolo, Ideologia e furore. La distruzione dei simboli nel radicalismo islamista, “La Rivista di Engramma” n. 131, dicembre 2015, pp. 121-126 | PDF