UNO
Ed ecco che, scendendo probabilmente dal cielo – o forse dalle profondità della terra, accanto a quel corpo supino, Carlo vede venire due esseri, di una natura che non è certamente umana: ma appare tuttavia naturale, inserendosi nella logica della Visione. Si mettono uno di qua e uno di là del Corpo, coi piedi all’altezza della sua testa, e cominciano a parlare. Benché anche il loro linguaggio non sia umano, Carlo lo capisce: non solo, ma la lingua umana in cui esso è percepito da Carlo, è una lingua meravigliosa. Ogni sua parola ha infatti una chiarezza rivelatrice: così che il capire, non è soltanto capire, ma è anche la gioiosa cognizione del capire. Si direbbe, insomma, che quei personaggi parlino in versi o in musica. (Pasolini, Petrolio, Appunto 3)
Posta all’inizio di Petrolio questa immagine di due esseri (‘disputanti’ dice Pasolini, l’uno di "aspetto angelico", Polis, l’altro di "povero aspetto infernale, di miserabile", Tetis) che si contendono il corpo, che è caduto come corpo morto, di Carlo e al tempo stesso lo sdoppiano e lo resuscitano, rimanda irresistibilmente a quella immagine dell’Ercole al bivio su cui Erwin Panofsky ha scritto nel 1930 un libro di "pulsante, eppure in qualche modo quasi esoterica, centralità" (cfr. Ferrando 2010, pp. 259 e sgg.), una immagine che si rintraccia nel Rinascimento con un piccolo dipinto di Raffaello, conservato alla National Gallery di Londra, e conosciuto come Il sogno del cavaliere, dove si vede:
Un giovane in armatura mentre dorme appoggiato ad uno scudo, il capo coperto da un elmo […] Di lato, immediatamente alle spalle, due figure femminili gli rivolgono lo sguardo protendendo attributi diversi. La donna a sinistra, in vesti austeramente scure e con il capo fasciato, mostra nella mano destra una spada e nella sinistra un libro. Quella sulla destra, con una veste rossa e una sopravveste azzurro chiaro dai ricchi panneggi, ha il capo scoperto abbellito da un filo di corallo e da un serto fiorito che le ferma i capelli sulla nuca insieme a una banda svolazzante. Con la mano sinistra regge il filo di una collana che le cinge la vita e le traversa nei due sensi il seno, mentre con la destra tende un mazzetto di fiori. (Gandolfo 1978, p.17)
Un corpo giace in terra come in un sonno di morte che ha un sapore iniziatico, ai suoi lati appaiono una sorta di angelo, una virtus, e un povero diavolo, una voluptas: Pasolini non li figura se non come emanazioni (che si identificheranno come in uno specchio nelle sue due identità), del corpo di Carlo (il cui nome come dice Pasolini è il Nome-del-Padre, letteralmente di suo padre, scelto per una ragione illogica, senza “nessuna possibilità di raffronto”, e la cui data di nascita sembra essere la leggera diffrazione, una soggettiva che si stacca dal corpo cui resta accanto, come un ‘corpo sottile’, un ‘corpo dentro un corpo’, rispetto a quella di Pasolini: il 6 Marzo, nascita di Carlo, un giorno dopo rispetto al 5 Marzo, nascita di Pasolini, e il 1932, un decennio dopo rispetto a quel 1922 in cui nacque Pierpaolo), e questo corpo è come se fosse un intercessore visionario dello stesso ‘corpo’ pasoliniano (inteso come sua fisicità, come suo trascorrere animico, come sua epitome mitico-genealogica, e, evidentemente, come ‘corpus’ poetico-politico, in sé doppio e coincidente con il suo essere poeta, cineasta, pittore e intellettuale, cittadino, politico, una sorta di crogiolo in cui si coniugano, in coalescenza, tanto il/la ‘Tetis’, che in greco antico è il sesso sia maschile che femminile, la pulsione creativa e sessuale, quanto il/la ‘Polis’, il suo essere accanto, in un discorso/soggettiva libero-indiretto, a coloro che, da ultimi, dis-abitano la comunità).
Il ‘corpo di Carlo’ diventa allora in Petrolio una anatomia e una intercessione, il romanzo stesso si fa anatomico e insieme eucaristico, riassumendo così uno dei caratteri profondi di tutta l’opera pasoliniana: lo scandalo e il paradosso di uno sparagmos tragico che però, nell’offerta, nel darsi in pasto sacrificale, nello spargere il sangue e nel farsi carne di un pane comunitario, accede a un sacro riso, a una commedia dell’innocenza, dove lo Stradivari e lo Zufoletto (Totò e Ninetto), i temporali e le primule presiedono a un rinascere, a una survivance, a una sopravvivenza (che si scorge fin dentro il conflitto carnevalesco-apocalittico della Fine della Storia, fin dentro una ‘apocatastasi’ che turbina nell’immane cosmicità di un sacrificio già da sempre avvenuto e di là da venire, come nello splendido finale del progetto di film PortoTeoKolossal, laddove il quarto Re Magio, Epifanio/Eduardo e l’Angelo/Ninetto siedono nel vuoto cosmico ad aspettare che succeda qualcosa).
Ecco che quella immagine emblematica dell’inizio di Petrolio assume una umiltà e una sacralità in cui il concreto e l’allegorico coincidono: è la scena di una ‘pesatura delle anime’, laddove San Michele Arcangelo lotta con il demonio (il cui corpo sirenico e serpentino ha talvolta il viso di donna bellissima, come nel dipinto cinquecentesco di Leonardo da Pistoia, in Santa Maria del Parto a Mergellina, dove è sepolto il corpo di Iacopo Sannazzaro); è il combattimento tra Cielo e Inferno, è la caduta-conversione di Paolo e la crocefissione capovolta di Pietro (il doppio nome: Pier / Paolo); è insieme la maschera che piange della Tragedia e quella che ride della Commedia. È in altri termini la cifra pitagorica Y, o l’alchemico essere bicefalo e androgino conosciuto come Rebis, entrambi non a caso sostrati archetipi dell’immagine dell’Ercole al bivio, immagine di un sentiero-monticello che si biforca (come nella xilografia di Sebastian Brant La decisione di Ercole, nella Stultifera Navis), oppure nell’esile pianta d’alloro, che sembra proiettarsi dal corpo del Cavaliere nel dipinto di Raffaello (auratico e astrale fallo-vagina che nasce dal suo corpo, come l’incavo delle gambe nude dei ragazzi che furono immagine erotico-primaria per Pasolini bambino, cui diede il nome, in cui l’inconscio risuona, di Teta – Veleta). Ed è quindi la cifra di un mysterium (e tale doveva essere nelle intenzioni di Pasolini Petrolio) che presiede a tale endiadi ‘nel sogno’, entro cui nasce il doppio corpo onirico:
Una notte di agosto del 1974, nella sua casa di Chia, in provincia di Viterbo, Pasolini sognò una “Discesa agli Inferi” in cui Carlo “primo”, ormai diventato un “santo”, va alla ricerca del suo doppio. A un certo punto di questo sogno, e della parte dell’opera che ne sarebbe derivata, appariva un centauro "col cazzo enorme tra le gambe davanti anziché tra quelle di dietro" (Trevi 2012, p. 202).
Trevi rintraccia i mysteria demetrici ed il loro lessico rituale nell’appunto 127 di Petrolio, il cui titolo è “Quarto momento basilare del poema (dal “Mistero”), che ha i caratteri di una ripetizione rituale ("A quanto pare, tutta la storia umana non fa altro che ripeterci una cosa: è solo ciò che è stato"), nel cesso di un Bar e davanti a uno specchio, del gesto di Baubo, la mostrazione dei genitali che suscita il riso di Demetra e che, come in uno spalancarsi di nulla e di tutto compie un prologo al ritorno primaverile, costituendo il rovescio del momento aporretico, della rivelazione del tremendum:
Compiendo veloce l’anasyrma, ecco che nello specchio del cesso, che lo aveva già specchiato da studente, anziché Polhymnia rivide Polhymnos, o se si vuole, Baubo anziché Baubon. Polhymnia o Polhymnos, Baubo o Baubon, la cosa non cambia poi molto, per la verità. È causa di riso - magari sacro - e con riferimenti funebri- sia per il bambino che per la divinità cosmica, come il lettore sa meglio di me. Ciò non toglie che fu con profonda emozione che Carlo - nel vecchio specchio del cesso - vide che il suo torace era un magro torace senza seni; e, toltisi - appunto secondo il rito dell’anasyrma, senza però che nel caso specifico nessuno ridesse - i calzoni e le mutande, vide che di nuovo gli penzolava in fondo alla pancia, sotto i radi peli, il vecchio pene (Pasolini, Petrolio, p. 538).
La visione che in certo modo apre Petrolio, lo scindersi misterico dei due corpi e delle due nature angelica e demonica contenute in un unico Vas, in una sola, corporea, materia prima, sarebbe anche quella che lo chiude, riaprendolo: lo specchiarsi possibile-impossibile della conversione, del permutare perenne, dell’uscire da un sogno per entrare in un altro sogno e insieme liberare tutti i sogni possibili in un sol corpo a venire. A proposito della immagine del Sogno del Cavaliere:
Raffaello scopre nella figura quel principio molto caro a Panofsky […] secondo cui due estremi suscettibili di confronto possono mediarsi divenendo compatibili grazie a quel mezzo che ne trattiene il segreto equilibrio. Nel dipinto raffaellesco, più la Virtus diventa mite, meno pericolosa si fa la Voluptas, e quello che si disegna non è il territorio di scontro di due diversi principi etici, ma quello dell’incontro di due diversi stili di vita e di pensiero, di cui uno dei rimandi più noti è la condizione mediana feconda – positiver Mittelzustand – di Goethe, che si realizza privilegiando il rapporto di correlazione piuttosto che quello di esclusione, e che Cassirer aveva da poco messo in luce in un libro per molti versi cruciale nella problematica panofskiana dell’Ercole, vale a dire Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, uscito anch’esso due anni prima, nella collana degli Studi della Biblioteca Warburg (cfr. Ferrando 2010, p. 282).
Se torniamo a quei primi appunti di Petrolio, ci appare adesso come un cenno misterico, sorridente e insieme pieno di commozione, velato dalle lacrime delle cose e insieme radiante come il mattino di risveglio, dell’ “alba sul mondo”, l’accordo tra i due esseri, sovraceleste e infraterrestre (è indifferentemente dal cielo terso o dal profondo umido della terra che provengono i due corpi sottili). Se alla petizione angelica che si apre e si chiude a un sol modo: "Se questo è il Corpo di un uomo… questo Corpo è mio", l’ostinata e musicale eco del diavolo è ogni volta: "ma il Peso che è dentro di lui è mio…", se il responsorio è all’inizio un contrappunto, se la preghiera si sgrana come un Rosario e da dentro il peso specifico che, come l’Anima corrisponde al Corpo, si giustappone, allora ciò che dice il Mistero è che “Tutto è Santo”, infatti:
"È santo, questo Polis, perciò è disposto non solo a dialogare - con un essere tanto diverso da lui - ma anche a collaborare di fatto: non ci si può comprendere a parole. L’unica dimostrazione di buona volontà reale è l’azione comune: anche, e tanto più, se scandalosa. “Bene” dice alla fine Polis venendo a patti con l’Inconciliabile “allora che cosa vuoi fare?”. […] “Tu prenditi ciò che è tuo, e io mi prendo ciò che è mio”. “Cioè?” s’informò comprensivo, l’angelo. “Tu” risponde il diavolo “ti prendi il tuo Corpo. E io mi prendo l’altro Corpo che c’è dentro”. La proposta del diavolo è ragionevole! Polis lo guarda come affascinato. Tace e lo guarda. E mentre tace e lo guarda, un sorriso sale dal suo profondo, lentamente, come un cielo su cui il vento spazza via le nubi, e pian piano lo rende perfettamente sereno e luminoso: finché il sorriso, suscitato dalla proposta del diavolo, ma, forse giustificato da calcoli più profondi, si tramutò in parola: “Accetto” disse Polis “prenditi l’altro corpo” (Pasolini, Petrolio, p. 15).
È come un primissimo piano di un volto che guarda in macchina e su cui si disegna, nel tratto ermetico di una pittura quattrocentesca, il sorriso delio ed etrusco di ogni nascita. E il diavolo tira fuori il suo coltello, come in un parto cesareo apre il ventre di Carlo, vi fruga nelle viscere e ne estrae un feto: con una mano, passandola sulle labbra sanguinose del taglio, medica e cicatrizza la ferita; con l’altra alza il feto al cielo, come una levatrice felice della sua opera.
Come il feto è divenuto adulto, e sta in piedi sul terrazzino, accanto al suo patrono, Carlo vede che anche il corpo disteso per terra, privo di sensi, si ricomincia, come una puerpera, a rianimare. Lo vede aprire lentamente gli occhi, guardarsi intorno smarrito; rimettersi gli occhiali, e, puntando la mano a terra, rialzarsi, finché è dritto, in piedi, accanto a Polis: colui al quale (pare) appartiene (Pasolini, Petrolio, p. 15).
Pasolini pensa a un’altra immagine duale, a un altro bifronte Giano, a un ulteriore sdoppiamento, quello che Borges chiamerebbe “tema del traditore e dell’eroe”, nel raffigurare l’incontro, di profilo, in un immobile e incipiente bacio, dei due corpi, un corpo dentro un corpo, o un sogno dentro un sogno, un ‘corpo di sogno’, che destina l’uomo in un unico gesto alla redenzione e al tradimento, al sonno e al risveglio, al morso e al bacio, al pianto e al riso, alla derisione e alla pietà, a un doppio volto che è quello dipinto da Giotto: Cristo e Giuda. Con la coda dell’occhio, in tralice, ciò che di sfuggita si può vedere, quasi senza accorgercene è che angelo e diavolo si allontanano "conversando amichevolmente e tenendosi sottobraccio come due vecchi amici che condividono la vita (hanno recitato una commedia)" (Pasolini, Petrolio, p.16).
Lo stare accanto, l’intercessione, la libertà indiretta dello sguardo, che mentre aderisce si stacca, che mentre divide abbraccia, che mentre separa unisce, fondando su un atto di misterium sexualis la possibile comunione tra angelico e demonico, tra Tetis e Polis: ecco il “Sogno del Centauro” Pasoliniano, ecco il segreto contenuto in un Vas d’elezione, o anche in un reale/nominale “Calderone”.
DUE
C’è stato chi, come Giuseppe Zigaina (pittore, amico e studioso di Pasolini), ha messo in luce le suggestioni che a Pasolini derivavano dalle letture di Mircea Eliade (certo accanto al vivo interesse che gli suscitarono anche gli studi antropologici di De Martino). Un testo come Calderón, l’unico pubblicato in vita (ed epitome di un nuovo teatro che travalicasse tanto le accademie quanto le avanguardie, come ebbe a dire lo stesso Pasolini), andrebbe anche letto al riverbero del discorso eliadiano della ripetizione rituale di un atto di creazione cosmogonica che si inscrive nello spazio cicloide e mandalico e si realizza con la precisione e la crudele gioia di un gioco, come dell’assimilazione della dimensione del mito a quella del sogno, in quanto amplificazione e trasposizione in un “altro corpo” e in uno spazio altro in cui le apparizioni divine assumono la sacralità dell’ “ab initio”, di una epifania in cui la ripetizione, il simulacro, lo sdoppiamento, la metamorfosi, il trascorrere animale-divino costituiscono un teatro in cui la vita si specchia, appunto come in un sogno, e insieme un sogno che si corporizza e diviene vivente, al punto da incarnarne le visioni, e far sì che il desiderio, nella sua polivalenza incestuosa (che racchiude il mysterium di una coniunctio filosofale, di una mostruosità come di una bellezza, alchemica) si anteponga e si giustapponga, sia nell’interdetto, nell’imprigionamento, che nella liberazione, nello spostamento dello stesso desiderio.
Pasolini confidò a Zigaina, nel settembre del 1975, di lavorare intorno a un’opera autobiografica che doveva intitolarsi Vas, e alla richiesta dell’amico pittore sulle ragioni del titolo, il poeta gli rispose che "il Vas è un po’ il calderòn che si usa in Friuli per riscaldare il mangime del maiale oppure l’acqua, quando d’inverno lo si uccide" (cfr. Zigaina 1993). È lo stesso Zigaina che, affascinato dall’intreccio di alchimia e pittura, in un certo modo lo proietta su Pasolini, puntualmente illuminandone i tratti alchemici. Uno di questi è il rapporto con il ‘crogiolo’ della pittura velazqueziana. Naturalmente a cominciare dalla ‘prescrizione’ e dall’iscrizione delle linee di fuga e delle direzioni convergenti-divergenti dei punti di vista di un quadro come Las Meninas, che viene sezionato, decostruito, evocato, animato nel testo teatrale del Calderón, come luogo rivelativo, come matraccio alchemico, come Palazzo/Torre/Prigione dei sogni e dei risvegli di Rosaura ma allo stesso tempo in quanto amplificatio del plesso fisiopsichico, del corpo sognante, dell’Aura umana (Rosaura è un Aura Rosa si dice nel testo) che avvolge il corpo e lo rende risonanza dell’anima (“il fonema senza il gesto è un semantema diverso” scriveva nella prefazione dell’intervistato ‘da leggersi assolutamente' a Il sogno del Centauro).
Si tratta di un Theatrum Alchemicum, di un costrutto a un tempo metaforico e attivo, vivente. Nell’immaginare il suo teatro ‘di parola’, il suo ‘nuovo’ teatro Pasolini parte dalla rilettura (che fa immobilizzato a letto per due mesi da un’ulcera) dei dialoghi platonici, che gli appaiono appunto come una parola vivente, come un luogo paradossale (una sorta di oracolare ‘libro magico’) dove l’oralità impossibile da rappresentare e significare ‘per verba’ viene trasumanata nell’incarnazione delle idee (“le idee sono i reali personaggi”). E ciò, lungi dal dar luogo a un teatro per così dire ‘ideologico’, dovrebbe, secondo il progetto pasoliniano (scrivere sei ‘tragedie' tutte d’un fiato), essere l’anatomia, il ‘segno vivente', di un corpo che viene in un certo senso posto sul tavolo anatomico, come cadavere, ma anche racchiuso in un alambicco per essere (dopo lo smembramento rituale) resuscitato, trasmutato. In tal modo il teatro cui pensa Pasolini trova luogo e si attiva non su una scena, ma nella realtà, nel corpo stesso del reale, che, lacanianamente, è un vortice, un buco nero, un occhio aperto-chiuso dove precipita la filogenesi delle nascite-morti-rinascite, come in un infinito piano sequenza, in cui i corpi si sdoppiano, si diffrangono (come lo spettro fotografico) e si pongono, come ‘altro corpo’ e ‘altro sguardo’, accanto allo stesso soggetto che lo ha generato (un corpo contenuto in un corpo come un sogno in un sogno).
Semiologicamente il teatro è un sistema di segni i cui segni, non simbolici ma iconici, viventi, sono gli stessi segni della realtà. Il teatro rappresenta un corpo per mezzo di un corpo, un oggetto per mezzo di un oggetto, un’azione per mezzo di una azione (Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro, in Nuovi Argomenti, n. 9, gennaio-marzo 1968, pp. 6-22).
In questo senso l’idea del ‘nuovo’ teatro sembra nascere in Pasolini dalla stessa paradossale idea di cinema come ‘lingua scritta della realtà', come continuità rispetto alla vita (e al passaggio dalla vita alla morte e viceversa dalla morte alla vita, e in ciò Pasolini evidentemente va con la memoria a Dreyer, al Vampyr: "Soggettive famose, magari per extravaganza, non difettano: riandate con la memoria alla soggettiva del cadavere che vede tutto il mondo come può vederlo chi è disteso dentro una bara”, scriveva in Il cinema di poesia, nel 1965, un anno prima di iniziare a comporre i sei pezzi teatrali).
Calderòn, il primo pezzo teatrale che scrive, è un testo percorso da una forte, dolce e violenta visualità, un teatro che nasce da una dinamica cinematografica, ma anche dalla natura pittorica del mondo pasoliniano (memore delle lezioni di Roberto Longhi), reimmaginando la Vida es sueño di Calderón de la Barca, in una Spagna irretita nella dittatura franchista, e che rimanda alla spinta di rivolta contro tutti i poteri alla vigilia del ’68. Questa dinamica visuale, che si interseca con una straordinaria dinamica attoriale, è il punto di forza della messinscena di Teatri Uniti, con la regia di Francesco Saponaro, frutto di una residenza teatrale all’Università della Calabria, con cui lo spettacolo è coprodotto.
Nel testo c’è il riferimento a un quadro ‘simbolo’ della riflessione sulla rappresentazione del potere, Las Meninas di Velázquez (su cui Pasolini apre uno dei suoi film più emozionanti degli stessi anni, Che cosa sono le nuvole?, dove non a caso Totò dice a Ninetto: "Siamo in un sogno dentro un sogno"), e lo scenografo-pittore dello spettacolo, Lino Fiorito, ha concepito una scena-polittico, una ‘camera ottica’ in movimento, con porte, pareti, fori entro cui scorrono i disegni mobili e appaiono filmati i simulacri del potere (le altere Doña Lupe e Doña Astrea, rese con tagliente lucidità da Anna Bonaiuto, e i sovrani in uniforme regale). E ciò sulla scorta dell’idea di Saponaro che entrare nella scena del quadro di Velázquez, come il pittore che guarda fuori dal quadro, essendo dentro il quadro, potesse essere come entrare nel corpo di Pasolini, a scoprirvi quell’altro corpo, a rintracciare le voci-aure dei personaggi, altrettante anime, o aspetti/funzioni, pasoliniane, che, dal letto/ara sacrificale si spargono come ‘pezzi’ dello smembramento di un corpo-quadro vivente, a risvegliarsi in un sogno sempre diverso, eppure sempre su quella scena primaria, endogena, che nel ‘poeta morto’ che rivive continua a risonare, a proiettarsi. È il Palazzo dei Sogni, ma anche il bordello-fogna, il salotto borghese, il lager, dove Rosaura si sveglia continuamente in un sogno diverso. Il nome del poeta (Calderón) diventa il suo stesso corpo-Vas (e Lo Vas d’elezione è il modo dantesco di nominare l’apostolo Paolo, e Pasolini era chiamato dai suoi amici più intimi ‘Paolo’, nel nome dell’apostolo, del ‘santo’ così importante per lui, e cui voleva dedicare un film, e tacendo di quel Petrus che, alchemicamente, avrebbe presieduto a un ‘oro nero’, a un lato diabolico del maneggiare la materia, quel modo per cui ricavare un ‘oleum’ dalla pietra, Petr-Oleum, sarebbe stato, per quel Satyricon moderno che è il romanzo ‘incompiuto’, un tragitto trasmutativo anche nei recessi infernali del neocapitalismo).
Il “Calderón”, per la sua funzione, poteva corrispondere benissimo al Vas hermetis, perché in esso, per ottenere le ‘difficili amalgame', egli - per dirla con Jung - faceva “bollire” segretamente tutti i più strani “materiali raccogliticci”. Così dal livello popolare ci saremmo portati a quello mistico e aristocratico dell’alchimia. […] È dunque il vas che accoglie l’oleum petrae (o il mistico lapis) quando il fuoco sacralmente alimentato (l’amplificatio) porta l’opus alla trasmutazione (Jung), Operazione che presenta anch’essa le due facce: tam ethice quam phisice. (Zigaina 1993, pp. 300-302).
Nel preparare la scena dello spettacolo Fiorito ha disposto tutti i disegni che scorrono nelle ‘finestre' sceniche su un unico foglio 50x70 come fosse il luogo della mente di Rosaura. I ‘quadri ciechi’ della scena sono come buchi neri che si accendono di visioni dell’inconscio e i disegni a grafite sono ispirati, certo, a Las Meninas: le tre principesse, lo specchio, i ventagli etc… ma anche ad altre immagini di Velázquez come la suora, o di Picasso come la donna che si lava i piedi.
La scena è anche un volto, un cranio (come il ‘caput’ alchemico) con due occhi-finestre-schermi in alto e un serie di bocche-porte che scorrono e si dis-chiudono, entro cui i personaggi trasmutano e, sciamanicamente, sono diffratti, accompagnati, assimilati ad animali-guida, animali ‘del sogno infero’, direbbe James Hillmann. Nel testo appunto si dice che ogni reietto della Storia è come "candido animale che dona la sua bontà in pasto alla voracità del nulla". E, nel lavoro con le due giovani attrici (Laila Fernandez e Clio Cipolletta, vibranti e sferzanti), Saponaro ha pensato proprio alle ‘metamorfosi animali’ che spesso ci visitano nei sogni.
Regista e scenografo hanno immaginato un intrico di linee entro cui si intessono le forze, i vettori, le interferenze, una ragnatela che è trappola, prigione, ma anche nido, scrigno, torre di difesa, involucro generativo, in un continuo dibattito tra il sentirsi protetti e la fuga. Sensazione tipica della mente nel sogno, immagini che scorrono nella testa di Rosaura, e infatti Fiorito disegna anche degli occhi, che ripetono, come una panoramica continua, i punti di vista. Se scorriamo sul foglio dei disegni con l’occhio di una cinepresa si ha un piano sequenza, come un rullo che non finisce mai, come un grado zero dell’animazione. Non c’è mai un momento di cesura, è un flusso dinamico che fa precipitare un disegno in un altro, una trasformazione continua.
La scena è un reticolo di prospettive. Saponaro e Fiorito hanno immaginato la disposizione delle aperture, delle porte, delle finestre, degli specchi corrispondenti esattamente a quelle del quadro barocco. Infatti ognuno dei molti personaggi del testo è un aspetto del corpo-anima di Pasolini. Non solo le figure femminili (l’“aura rosa” e la sorella-specchio), l’adolescente ribelle Pablito/Enrique (Luigi Bignone), il medico e il prete (Francesco Cordella), ma perfino Sigismondo e Basilio (il militante antifranchista e il grande/piccolo borghese, cui Andrea Renzi conferisce due registri recitativi diversi, l’uno accorato, l’altro ambiguo). La drammaturgia investe questa scatola-reticolo, la tela del sogno che si forma si sprigiona dal quadro di Velázquez, come scriveva Maria Zambrano, laddove Pasolini entra nel corpo del quadro e noi entriamo nel corpo (e nell’anima) di Pasolini.
L’autore che guarda fuori dal quadro essendo dentro il quadro. Ciò che prende forma è proprio una meditazione (sulla scorta del Velázquez di Foucault, a sua volta letto e amato da Pasolini) sui corpi assoggettati dai dispositivi di potere, e sulle vie di fuga e liberazione. Nel disegno finale del Lager c’è un riferimento ai disastri della guerra di Goya: due montagne di corpi accatastati, una panoramica incorporata nel segno stesso, che poi si dischiude nel ‘sogno’ più bello: lo sventolio di bandiere rosse (filmate come un pezzo di Angelopoulos), che invadono le stradine di Rende, cittadina in Calabria che sembra un luogo andaluso.
Ed è, ritornando all’apertura di Petrolio, in un viaggio a Sud che si muove Tetis a cercare un sogno-segreto di cui potrebbe essere depositario uno scrittore misterioso, una donna (che è insieme Pasolini e la Morante), in una ulteriore trasposizione accanto, libera-indiretta, che sta in un albergo di Siracusa, alla fine di una grande strada (prima del ponte che immette a Ortigia), e che Tetis sceglie come depositaria di un segreto “che non poteva che essere di enorme valore pubblico, una volta rivelato”.
Questa persona è una donna dolce, umana, “padrona del proprio pensare”. Quando Tetis le dice che ha degli importanti segreti da confidarle il suo sorriso si trasforma in “una pericolosa risata”) il riso con “funzione risolutrice di crisi cosmiche” (Zigaina 1993, p.319). Non si può non pensare che questa Via Sacra, questa strada verso Siracusa che Tetis percorre all’inizio di Petrolio, sia una strada di rivelazione dei Mysteria, e che lì c’è un Teatro dove risuonava la parola di Eschilo (la cui Orestea Pasolini tradusse proprio per il Ciclo degli Spettacoli Classici), e che il poeta tragico parlava di cose indicibili, aporrheta, e fu accusato di divulgare in forma teatrale quei segreti.
Ma questa storia di Eschilo mi fa subito venire in mente P.P.P., anche nel suo caso si potrebbe formulare un’accusa di divulgazione dei Misteri, questo è il suo atteggiamento fondamentale quando scrive Petrolio, rendere pubblico un rito segreto, un Mistero (Trevi 2012, p. 219).
Appunto in una glossa di Petrolio si trova iscritto il Mysterion di cui fin qui si è disseminata la traccia:
Lo ripeto: questa iscrizione non è solo l’iscrizione del monumento che in questo momento del “Mysterion” ha importanza e interesse. Oltre a questo, essa. A) prevede o prefigura un atto “mistico” che accadrà alla fine di questo romanzo: e si tratterà di un atto risolutore, vitale, pienamente positivo e orgiastico: esso ristabilirà la serenità della vita e la ripresa del corso della storia; B) si pone addirittura come epigrafe di tutta intera la presente opera (“monumentum” per eccellenza): ma il suo senso è in tal caso diametralmente opposto a quello qui sopra accennato: esso è infatti irridente, corrosivo, delusorio (ma non per questo meno sacro!) [...] HO ERETTO QUESTA STATUA PER RIDERE [...] Voglio aggiungere che il “riso” cui qui si accenna - attraverso questa archeologica citazione - trova la sua spiegazione in una lunga tradizione appunto misterica, che lo lega agli “aporreta simbola”, veri o artificiali, come l’”olismo” (il bastone usato nell’onanismo femminile); e magari misti, come quelli di Iacchos: “eleleu kore dimorfe!”, in barba al moralismo di Aristotile (del resto assai più tardo). D’altronde è noto come il “riso” abbia una funzione risolutrice di crisi cosmiche, se causato da esibizione di “membro” o “vulva”. (Pasolini, Petrolio, pp. 386-387)
A Ostia, all’alba dopo il “di de mort” dal corpo smembrato del poeta si sarebbero staccati i due corpi, angelico e demonico, e si sarebbero allontanati in quella luce, braccia allacciate sulle spalle, stretti come due ragazzi di vita, come Dei che, leopardianamente, “si lasciassero di tratto in tratto vedere dagli uomini”, in una luce che è “nella pace di quel mezzogiorno, così attuale, e che noi sappiamo appartenere al passato”.
TRE
Fin da adolescente Pasolini frequenta la forma drammaturgica, e la composizione delle sei tragedie sembra essere il precipitato di un continuo ritorno, nelle pieghe del lavoro poetico o narrativo o filmico, al fatto teatrale che pare costituire da un lato il costante riferirsi alla suggestione classica di una specie di rito perduto, un ripensamento del mito alla luce della modernità (come del cristianesimo e della psicanalisi), e dall’altro, forse più segretamente, la 'sinopia’ di un affresco in divenire, quello della (sua) vita, quasi (come fu per lui il disegno e la pittura) un modo per farsi una radiografia in fieri, a ridosso del proprio corpo, di quel "gettarsi nella mischia” del proprio corpo dentro un mondo "che non lo vuole ma non lo sa": tale la frase che Pasolini scrive in uno dei riquadri di un disegno ritrovato da Graziella Chiarcossi in una cartella del 1965 assieme a scritti che possono spingersi fino al 1968. È un disegno ‘polittico’, diviso in scomparti, definito da Zigaina ‘mandala in ordine quaternario’, dove i tratti a matita grassa (neri su bianco) costituisco un movimento astratto e che può semmai richiamare il trascorrere di una nuvola, un uccello in volo, lo scorrere rapido di un paesaggio come visto dai finestrini di un treno.
Negli stessi anni del disegno Pasolini concepisce e scrive il Calderón, riferendo il mitologema della ‘vita è sogno’ non solo a una anacronica temporalità (che è la Spagna prima durante e dopo la guerra civile, ma è anche una trasposizione ‘scollata’, in-attuale, di quello che in quegli anni avveniva in Italia, la spinta di rivolta giovanile che si intersecava con i primi chiari segni di omologazione culturale, di mutazione antropologica sul corpo vivo dell’italiano, con il suo retaggio arcaico e la sua humanitas, travolto e stravolto dal consumo, cui è sempre più indotto e dall’assoggettamento a un potere che ritorna sotto varie maschere dissimulatrici), ma anche a una compagine scenica, a uno spazio immaginario, evocato dalle parole fuori campo che sembrano costituire una ‘scenografia verbale’ di ascendenza shakespeariana, e che disegnano tanto nella mente di Rosaura sognante che in quella dello spettatore la vertiginosa visualità del quadro epitome di quell’Age Classique che Foucault nomina come ‘età della Rappresentazione'.
Las Meninas di Velázquez è coacervo di un regime rappresentativo che mentre riassume i fili prospettici e scenici del grande teatro classico, con un solo, improvviso, gesto di irruzione nello spazio, come un brusco risveglio, li scompagina, li dissemina, li raddoppia, stabilendo un centro senza centro, una scena paradossale che sembra preludere al cinema, alla forma del piano sequenza, alla giustapposizione del campo-controcampo e all’ipostasi del fuori-campo. Dunque in quel lasso di tempo (1966-1968 ), intanto l’ossessione di Pasolini per il quadro di Velázquez: il cineasta lo pone, si è detto, come ‘manifesto cinematografico’, ma insieme anche locandina di un teatro di "guarrattelle", nei titoli di testa di Che cosa sono le nuvole?, girato nel 1967 (che è proprio un apologo in forma filmica della continuità tra teatro e vita, in cui i corpi delle marionette-filosofi sono fatti a pezzi, nelle loro apparenze di carne, come in un rituale dionisiaco, in uno sparagmos sacrale che si ripete nei bassifondi di una ‘baracca e burattini’), poi probabilmente la suggestione della lettura di Le mots et le choses di Foucault che esce in Francia nel 1966 e l’anno dopo viene pubblicato in Italia, e dove si legge, nella celebre analisi di apertura dedicata alle “damigelle d’onore”, che:
Nell’istante in cui pongono lo spettatore nel campo del loro sguardo, gli occhi del pittore lo afferrano, lo costringono ad entrare nel suo quadro, gli assegnano un luogo privilegiato e insieme obbligatorio, prelevano per lui la sua luminosa e visibile essenza e la proiettano sulla superficie inaccessibile della tela voltata (Foucault [1966] 1998, p. 19).
E infine un disegno (ritrovato postumo) mandalico e anatomico di quegli stessi anni, dove il rapporto corpo-mondo viene trascritto e incastonato. La quadrettatura di quel disegno pasoliniano viene definita da Zigaina come un gioco, o meglio un rito, assimilato ai disegni magico-propiziatori composti sulla sabbia dai Pigmei o dai Navaho, ai mandala orientali, e anche, significativamente, ai fotogrammi della pellicola cinematografica. Ma soprattutto ciò che Zigaina mette in campo, ipotizzando da parte di Pasolini una riflessione diretta (attraverso Eliade e Jung soprattutto), è un aspetto tecnico-magico riferito all’alchimia.
Ma l’aspetto più intrigante di queste ‘tecniche miste’ è l’aspetto, sì, magico, ma di una magia – se vogliamo accettare il termine - più simile a quella dell’antico laboratorio alchimistico. […] Infatti gli interventi dell’Autore sull’immagine, che sono solo apparentemente di tecnica pittorica, assumono un aspetto esoterico che li sottrae alla nostra comune sensibilità di occidentali. La stessa divisione in scomparti, non attuata a caso lì per lì, ma parte di un progetto ben meditato, è anch’essa un elemento ‘esotico’ che rimanda a certe immagini cultuali del mondo orientale. Non a caso infatti la sequenza delle immagini pasoliniane ha un ritmo ternario o quaternario (due o quattro serie di tre o quattro rettangoli affiancati o sovrapposti) per molti aspetti simile a quello di antichissime raffigurazioni simboliche che nello yoga tantrico si chiamano khilkor o mandala (Zigaina 1989, pp. 50-51).
In questo senso contemplare un mandala significa anche agire una visione, assimilando il dentro al fuori. Nella struttura del Calderón questo movimento del dentro nel fuori presiede a una lucida ‘dis-illusione’ rispetto a ogni ‘ordine del discorso’, collocando il testo nel punto in cui il sogno che si riversa sempre in un altro sogno, illumina la decostruzione di ogni rappresentazione e insieme l’età della Storia come età del Fuori, in cui la ‘prigione’ del sogno non richiede una ‘liberazione’ quanto un rovesciamento di prospettive dato dalla scrittura immediata dei corpi, inscrizione nella vita, traduzione della lingua scritta in lingua del reale, del verso nell’oralità.
Si tratta dunque di scrivere la libertà, di far sì che nella scrittura sia la libertà stessa a scrivere o, detto in altri termini, che la scrittura sia un atto di libertà e di liberazione. E Foucault, parlando dell’esperienza del fuori, indica esattamente una possibilità di svolta per il soggetto e per la sua liberazione o soggettivizzazione. […] Occorre sentire come il soggetto sia trascinato in un anonimato, in uno spazio senza astri nel quale la sensazione, appunto, del disastro è correlata alla possibilità di sentirsi liberi. […] Si tratta, allora, di aprire le pratiche al loro fuori: un fuori che fa tutt’uno con il loro uso. Non è questione di uscire da esse […] ma di abitarle, di trovare un nuovo ethos, un’attitudine che porti a uscire dalle regole codificate al fine di rinnovare il lavoro indefinito della libertà. (Ferrari 1986)
Ciò che la costruzione dello spettacolo di Francesco Saponaro fa emergere è la necessità di porre il testo di Pasolini come fuori da se stesso, fare in modo che non sia tanto rappresentato (e forse nemmeno rifratto e rispecchiato in una dislocazione spaziale o in una successione temporale, come pur avveniva nel laboratorio ronconiano di Prato oppure nel film per la TV di Giorgio Pressburger), quanto agito come un accadere, dove lo spettatore venga trascinato, da una ‘implicazione’ di sguardi (questa forse la ragione profonda dell’interpellazione di Velázquez nel testo pasoliniano, che ri-guarda appunto una interlocuzione tra autore e spettatore, l’ipostasi di un’agorà, di uno squadernamento della mente su cui gli sguardi degli spettatori, in corpore, possano affacciarsi).
Scena Reale e Scena della Visione appaiono come concetti in grado di condensare, in una terminologia prettamente teatrale, un motivo antico e prematuro: appunto la forma espressiva drammaturgica. (D’Elia 2005, p. 116)
Tale intarsio tra Reale e Visione, laddove il visionario (che per Pasolini risiede in un atto rivelativo del reale e non nell’equivoco di sovrapporre un “teatro della chiacchiera o dell’urlo”, cioè una rappresentazione nelle cui maglie (s)regolative si muovono tanto il teatro borghese-ufficiale da un lato che quello d’avanguardia dall’altro) possa scorrere per necessità aderendo, apprendendosi, incarnandosi nella lingua corporale di chi in scena agisce, ha presieduto alle ragioni di una riattivazione, obliqua e inassimilabile, del testo di Pasolini da parte di Teatri Uniti. In aggiunta al fatto che non di una messinscena ‘di routine’ si è trattato ma di un procedimento (frutto di una residenza universitaria in Calabria, in cui sono stati coinvolti studenti di teatro e di cinema) che si è attuato sotto gli occhi e nell’intreccio di sguardi di chi vi ha partecipato, e che tale squadernamento, apertura, anatomia ha messo in luce come del Corpus di Pasolini si trattasse non in quanto caso biografico ma appunto come Mysterium, come ‘psicomachia’, dal momento che in ogni ‘scheggia’ di personaggio si riflette una parte di quel corpo come in un ‘tutto’. E questo si ripercuote sotto gli occhi di chi, nell’assemblea del teatro, assiste allo spettacolo, con la coscienza della necessità e insieme dell’impossibilità del ripetersi del tragico.
Le ripetizioni del sogno di Rosaura scorrono su registri differenti, si amplificano su quei registri, mutano lingua (dall’italiano al castigliano al napoletano), per cui ogni ‘pezzo’ sacrificale prende vita a sé, e nello stesso tempo tutti i sogni (insieme) riprendono vita, come se rinascessero da sé. Ciò è messo in atto dalla “quadrettatura” anatomica della scena di Fiorito (che richiama la quadrettatura mandalica del disegno di Pasolini che prima si ricordava): in quei ‘fori’ di visione sono contenuti e insieme fuoriescono le visioni vive e mobili di un coacervo eterogeneo di segni, immagini, apparizioni, grafismi e prendono vita tanto le figure del potere quanto quelle dell’utopia liberatrice, entrambe intrecciate sul fondo inconscio e filogenetico di una stessa mente/corpo ipersognante, ribollente di immagini come in un crogiolo.
L’ordine è, a un tempo, ciò che si dà nelle cose in quanto legge interna, reticolo segreto attraverso cui queste in qualche modo si guardano a vicenda e ciò che non esiste se non attraverso la griglia di uno sguardo, di un’attenzione, di un linguaggio: soltanto nelle caselle bianche di tale quadrettatura esso può manifestarsi in profondità come già presente, in silenziosa attesa del momento in cui verrà enunciato. (Foucault [1966] 1998)
Ciò non significa un caos immaginativo e proliferante, quanto un ordo sotteso alla stessa dinamica della scena che si smaglia e si tesse in tempo reale. La sottile logica, che era la contraddizione vissuta di Pasolini (e che è la sua irriducibilità e inattualità rispetto ai discorsi ‘dis-ordinati’ dell’oggi, cui la parola pasoliniana oppone un ordine del discorso rovesciato e sempre irriducibile), viene attivata dalla dinamica dello spettacolo e rassomiglia allora al ruotare del mandala e a una amplificazione alchemica (l’araldica degli animali della psiche disegnati da Fiorito, i cerchi concentrici e le orbite oculari, la forma ‘ovulare’ del bacile nella scena della Fogna/Bordello, la circolarità dell’anello magico, le iridescenze dello specchio).
Il metodo dell’alchimia è, psicologicamente parlando, il metodo della sconfinata amplificazione. L’amplificatio è sempre indicata quando si tratti di un’esperienza oscura, i cui vaghi accenni devono essere dilatati e ampliati da un contesto psicologico per diventare comprensibili. (Jung [1944] 1981, pp.299-300)
Tale logica pasoliniana (che lo porta ad agognare una eternità sacra e antica, trascorsa e rovinata nella purezza della luce che illumina il suo sfaldarsi e insieme ad essere irresistibilmente, in modo veggente, sospinto dal vento nel futuro, il cui destino è un vortice inconcepibile che fa turbinare in sé illusione e disillusione, come nell’immagine dell’Angelus Novus di Klee, dell’Angelo della Storia di Benjamin) è quella del vivente che assume senso solo in quanto destinato a risolversi, e dissolversi, nel mondo. Morire al mondo nel mondo è il senso del vivente: "È dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita (con cui ci esprimiamo, e a cui attribuiamo la massima importanza) è intraducibile: un caos di possibilità" (Pasolini, Empirismo eretico, 1972, p. 241). Questo è precisamente il movimento, e l’atto del ‘montaggio’ rispetto al piano sequenza della vita. E se nel cinema questo atto è come diceva Cocteau “mort au travail” in tale progetto ‘teatrale’ Pasolini sembra attuare una ‘sequenza’ di sogni che riversano nella morte-ritorno in vita sempre ripetuto (come “sogno/Maja”) di Rosaura, ogni volta uno ‘squarcio in più’ nel Velo, e quindi un ‘senso in più’ a ciò che avviene (senso che risiede sempre nella filogenesi delle agnizioni e degli incesti, da Elettra ad Edipo). Il ‘montaggio’ tra azione, movimento scenico, filmato e disegnato, nello spettacolo sembra tener presente quella vicinanza tra teatro e cinema che lo stesso Pasolini arriva ad ammettere :
I miei studi semiologici mi hanno portato a considerare, teoricamente, teatro e cinema molto vicini l’uno all’altro. La differenza è che il teatro è una sorta di piano sequenza, ma presenta parecchi caratteri in comune col cinema: entrambi rappresentano la realtà con la realtà. […] Quando scrivo una scena per il teatro, questa scena è anche una scena cinematografica, secondo il mio modo di concepire il teatro, poiché tutto quello che faccio consiste nel produrre una sequenza cinematografica formata da una ripresa molto lunga. (Pasolini, Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, 1992, p. 133)
E questo stesso ‘taglio’ anatomico incide sul corpo che muore e rinasce, che sogna e si risveglia instaurando una compagine temporale e spaziale che produce lancinanti cortocircuiti, come quando nella collocazione della scena che corrisponde allo ‘specchio’ dove si riflette il potere (l’Ancien Régime, i Regnanti nel quadro di Velazquez), e alla vigilia della trasformazione del mondo in lager (così come prima dello schiudersi del sogno “anamnestico” delle bandiere rosse), appare nello spettacolo il filmato degli scontri di Valle Giulia (su cui ‘scandalosamente’ Pasolini scrive la poesia Il P.C.I. ai giovani), e in scena monologa il Padre Borghese, Basilio, che ‘indottrina’ ironicamente le due ‘damigelle’, l’una catatonica e impasticcata, e l’altra preda di una crisi isterica, prima che faccia il suo ingresso Enrique/Pablito, incarnando un ‘altro corpo’ pasoliniano, che trascorre dalla ‘meglio gioventù’ friulana al giovanotto borghese. In Descrizioni di descrizioni Pasolini stesso riflette sul proprio Calderón prendendo spunto dalla posizione di Adriano Sofri, cui la tragedia “dal punto di vista personale” lo interessa ma che dal punto di vista politico considera “nulla”, e non manca di scrivergli in risposta:
Sofri avrà forse potuto notare (“dal punto di vista personale”) con quanta leggerezza ed anche esattezza egli stesso entri nel testo, sotto forma idealizzata (cioè fisicamente modellata su altri suoi giovani compagni più innocenti) nella figura del secondo studente Pablo.
[…] In quanto io, parlandovi in prima persona ero, insieme, l’autore e un vero e proprio personaggio monologante. Ciò mi ha portato al teatro, quasi ineluttabilmente […] In quanto, dunque, personaggio scrivente, potenzialmente parlante, io appartenevo a quel mondo borghese dell’area Edipo Re-Teorema-Porcile-Medea . Per ciò che riguarda l’Edipo esso è appunto un monologo in cui il solito personaggio scrivente potenzialmente parlante, racconta-ora attraverso il cinema-un suo sogno (il sogno della sua vita). (Arecco 1972, p. 68)
Un Edipo all’alba è il quasi inaugurale pezzo scritto da Pasolini per il teatro, nel 1942, a vent’anni, in cui l’incesto è agito tra Ismene ed Eteocle, e dove quella sorella cerca una punizione facendosi uccidere dal padre Edipo, mentre i Tebani, che ne hanno ascoltato la confessione, ne pronunciano ora la condanna postuma : “peccatrice/insensata a turbarci/con voce vergognosa” (già una Rosaura la Loca nel bordello di Barcellona).
Edipo, Elettra, Rosaura… raccontano il sogno della sua vita: quel sogno di una cosa che si riverbera sul Calderòn con una strana luce, luce di assoluto, assoluto del nulla e della nascita, che si incarna in ciascun corpo sulla scena, nel quadro, nel sogno, nello specchio, nella vita ("Velázquez è in prigione perché ha un corpo"), laddove ogni volta il doppio corpo del poeta, il “corpo dentro un corpo”, il sogno di Pasolini discende e risale, viene messo a morte per nascere ancora, perché, come dice Manuel, il medico rivoluzionario: "La nascita è tutto".
Scheda dello spettacolo
Calderón di Pier Paolo Pasolini | regia Francesco Saponaro | scene Lino Fiorito | costumi Ortensia De Francesco | luci Cesare Accetta/ENTRACTE | suono Daghi Rondanini | con Maria Laila Fernandez (Rosaura); Clio Cipolletta (Stella, Suora, Carmen, Agostina); Andrea Renzi (Sigismondo, Basilio); Francesco Maria Cordella (Manuel, Prete); Luigi Bignone (Pablo, Enrique) e la partecipazione filmata di Anna Bonaiuto (Doña Lupe, Doña Astrea) | direzione tecnica Lello Becchimanzi | videoproiezioni Mauro Penna | assistenti alla regia Giovanni Merano, Luca Taiuti | assistente ai costumi Francesca Apostolico | sarta Anna Russo | foto di scena Laura Micciarelli /ENTRACTE | ufficio stampa Renato Rizzardi | produzione Teatri Uniti | in collaborazione con Università della Calabria
Riferimenti bliografici
- Arecco 1972
S. Arecco, Pier Paolo Pasolini, Roma, 1972 - D'Elia 2005
G. D'Elia, L’eresia di Pasolini, Milano, 2005. - Ferrando 2010
M. Ferrando, Tertium Datur, in E. Panofsky, Ercole al bivio, Macerata, 2010. - Ferrari 1986
F. Ferrari, Non rappresento più, sono in M. Foucault Il pensiero del fuori, Milano,1986 - Foucault [1966] 1998
M. Foucault, Le parole e le cose, Milano, 1998. - Gandolfo 1978
F. Gandolfo, Il ‘Dolce Tempo’, mistica, Ermetismo e Sogno nel Cinquecento, Roma 1978. - Jung [1944] 1981
C.G. Jung, Psicologia e alchimia, Torino, [1944] 1981. - Trevi 2012
E. Trevi, Qualcosa di scritto, Milano 2012. - Zigaina 1989
G. Zigaina, Pasolini tra enigma e profezia, Venezia, 1989. - Zigaina 1993
G. Zigaina, Pasolini e l’abiura. Il segno vivente e il poeta morto, Venezia, 1993.
English abstract
The recent version of the play of Pier Paolo Pasolini’s Calderòn - directed by Francesco Saponaro - offers a path through the poet’s ’heterologous’ and ‘erethic’ writing attitude. A first approach can be managed starting from the beginning scene of Pier Paolo Paolini’s Petrolio, in which the fallen body of the main character (Carlo) is contended by an angel and a devil; then the analysis goes deep into Pasolini’s idea of theater, how it is shown by his six tragedies, that have been written during a convalescence in 1966. Then the author describes the dramaturgical and pictorial plot of Calderòn. The concept of a “platonic politics” emerges in the play directed by Saponaro, in which painting, cinema and theater live together in a sort of mysterium.
keywords | Oresteia; Aeschylus; Pasolini; Calderòn; Saponaro; Petrolio.
Per citare questo articolo / To cite this article: Bruno Roberti, Mysterium Pasolini: tra Petrolio e Calderón, “La Rivista di Engramma” n. 133, febbraio 2016, pp. 103-125 | PDF dell’articolo