Storia dell’Atlante Mnemosyne di Aby Warburg: la gestazione di un’opera non "finibile"
Katia Mazzucco
Dopo il lungo ritiro al quale era stato costretto dalla malattia nervosa, nell’agosto del 1924 Warburg fece ritorno ad Amburgo. Nella città natale aveva lasciato una straordinaria raccolta di libri, organizzata nel più totale disinteresse per le correnti regole di biblioteconomia, e secondo il criterio personale della "legge del buon vicinato", che non ‘fissava’ i libri in sequenze alfabetiche o cronologiche, ma li accostava - "come tessere di un mosaico di cui aveva ben chiaro in mente il disegno" - in base agli ambiti culturali, tematici, ai significati intrinseci, accostamenti continuamente modificati con l’accrescersi della collezione e l’ampliarsi delle prospettive di studio.
Al suo rientro Warburg trovò un’istituzione sapientemente orchestrata - nel rispetto dei principi su cui era cresciuta - assiduamente frequentata da numerosi studiosi, attiva nell’organizzazione di simposi e nella pubblicazione degli annuari delle conferenze (Vorträge) e degli studi (Studien). Ad attenderlo trovò anche una sorpresa che, nata come un omaggio al maestro finalmente ristabilito, in breve tempo si trasformò in una nuova prospettiva per la ricerca. Fritz Saxl aveva allestito nelle sale della biblioteca un’esposizione con le fotografie delle principali opere che Warburg aveva studiato negli anni passati, appuntandole su grandi schermi di tela nera fissati a cornici di legno. La visione ‘circolare’ e sincronica del proprio lavoro, riversato e proposto in una forma nuova, rappresentò probabilmente la concretizzazione di un’idea di lunga gestazione: le riproduzioni raccolte negli anni e di cui Warburg si era sempre circondato, le immagini da cui tante intuizioni erano scaturite e che avevano corredato i suoi scritti e le sue lezioni, i suoi demoni, trovavano infine la forma espositiva che consentiva loro la massima eloquenza.
Warburg cominciò così ad adottare il sistema dei pannelli per raccogliere i temi che principalmente lo interessavano: in questo modo era possibile avere costantemente a portata di mano, o meglio, d’occhio, i nuclei di un’indagine, messi in rapporto non gerarchico tra loro e modificabili a piacere con l’evolversi della ricerca. Ciò significava non solo poter verificare in ogni momento, con un solo sguardo, il punto della situazione, fornendo alla parola un efficace ausilio visivo, ma anche, e soprattutto, sfruttare nella sua forma pura la potenzialità di un linguaggio affatto diverso da quello scritto e parlato. Warburg si abituò talmente a usare questa tecnica, e a costruire discorsi in termini di montaggio visivo, che non poté più lavorare senza pannelli.
L’elaborazione di ipotesi attraverso l’organizzazione di schemi visivi, d’altra parte, non era un processo nuovo per la mente di Warburg e infiniti sono gli schizzi, i disegni e i diagrammi presenti nei suoi appunti. Le numerose pagine di annotazioni per la conferenza su Dürer e l’antichità italiana del 1905 forniscono un efficace e precoce esempio di tale abitudine. Nei fogli della cartella di appunti sono segnati schemi complessi con tracciati a riquadri nei quali leggiamo riferimenti a soggetti, personaggi o opere specifiche; ogni foglio, inoltre, ha un titolo che definisce e semantizza il percorso suggerito dallo schema, marcato da linee di sviluppo ad albero o diagramma. Si tratta di vere e proprie ‘riflessioni grafiche’, che connettono i materiali relativi alla conferenza del 1905 con quelli di altre ricerche: oltre a "Dürer", "Pollajuolo", "Mantegna", ricorrono i nomi "Botticelli", "Baldini", "Finiguerra", "Signorelli", come anche i riferimenti a Petrarca, alle ‘imprese amorose’, a opere che hanno per soggetto Ercole, la punizione di Amore, il ratto. Gli spunti sottintesi da questi schemi nella connessione di opere, soggetti, artisti, non sono esattamente accostabili alla struttura e al percorso logico dei saggi incentrati attorno a quei temi; rimangono comunque saldamente legati ad essi, come se rappresentassero ipotesi, tracce di riferimento, fili rossi ripercorribili non in un solo scritto bensì attraverso distinti lavori o, ancora, tappe del raggiungimento di un obiettivo di analisi e interpretazione.
La realizzazione dei pannelli suggerita da Saxl era in perfetta consonanza con questo tipo di organizzazione grafica e mentale dei soggetti di studio e si rivelò ideale anche per la presentazione delle finalità di ricerca della biblioteca: divenuta un’affermata istituzione pubblica con esigenze divulgative, la KBW organizzò diversi allestimenti fotografici, spesso in occasione di mostre e convegni. Ciò fu possibile grazie alla moderna e ricchissima fototeca che Warburg aveva creato in parallelo alla raccolta di libri e che, proprio negli ultimi anni di attività, fu grandemente ampliata. Sin dalle prime richieste di finanziamento alla famiglia — risalenti al primo soggiorno a Firenze - Warburg annovera, assieme ai libri, le riproduzioni di opere come indispensabili mezzi della ricerca; nel corso degli anni lo studioso dimostrò inoltre di sapersi avvalere delle più moderne tecniche fotomeccaniche anche come efficaci strumenti della divulgazione — basti pensare all’intervento del 1912 a Roma sul ciclo pittorico di Schifanoia, durante il quale Warburg, per primo nel corso di un’occasione pubblica, proiettò diapositive a colori brevettate solo pochi mesi prima. La diffusione culturale — e l’utilizzo di tutti gli ausili possibili a questo fine - era per lo studioso di Amburgo una parte essenziale e costitutiva della ricerca, e le attività del suo Istituto presso la nuova sede di Heilwigstrasse, dotata di una sala ovale per le mostre e le conferenze, proiettori, e altri moderni strumenti, si svolsero sempre all’insegna di tale imperativo.
Ad aprire la stagione della ‘seconda fioritura’ di Aby Warburg — se vogliamo considerare Kreuzlingen come un crinale — fu la conferenza del 25 aprile 1925 tenuta in memoria di Franz Boll: affrontando il tema della tradizione astrologica, Warburg ricapitolò e riprese il filo delle ricerche compiute proprio grazie alla guida dello studioso e caro amico. In concomitanza con la conferenza su Boll fu organizzata una mostra di raffigurazioni astrologiche, riallestita l’anno successivo in occasione del Congresso degli Orientalisti del 30 settembre. Warburg aveva progettato dei pannelli attraverso i quali presentò i risultati raggiunti (nella tavola 1 di Mnemosyne possiamo vedere la foto di uno di questi schermi esposto nella sala ovale della nuova biblioteca. Sul pannello, dedicato alle peregrinazioni di Perseo nel corso della storia, erano fissate le immagini del mese di marzo dal Salone di Schifanoia e il particolare del primo decano, il disegno di Mary Hertz con le pitture del Salone, i decani dell’Ariete dall’Astrolabium planum, la sfera di Manilio, la cupola della cappella funeraria di Agostino Chigi in Santa Maria del Popolo, un’immagine dalla Loggia di Villa Farnesina, le immagini del mito di Andromeda dagli Aratea di Germanico tratte dal manoscritto di Leida. Tutte queste raffigurazioni erano già state utilizzate come materiali per i saggi scritti negli anni precedenti ma furono arricchite da nuovi importanti documenti visivi, tra i quali una singolare raffigurazione del primo decano dell’ariete tratta dal manuale arabo Picatrix. L’avvenimento suscitò grande interesse e nel 1927 il Deutsche Museum di Monaco richiese a Warburg lo stesso allestimento; poco dopo lo studioso prese l’impegno -portato a termine da Saxl in seguito alla sua scomparsa- di realizzarne una variante per una mostra permanente al Planetarium di Amburgo.
L’evoluzione del pensiero astronomico - dall’arte della divinazione ai precetti medico-astrologici, all’emancipazione scientifica dello studio delle stelle - e i travestimenti adottati dalle divinità e dagli eroi classici nel corso della storia, sfilavano, in questi allestimenti, direttamente davanti agli occhi dei visitatori, senza la ‘propedeutica’ intermediazione della parola, destinata a commentarli e ad accompagnarli ma non a tradurli; in questo modo l’osservatore era indotto a interrogare le immagini e a ricostruire le connessioni tra esse suggerite dagli accostamenti. Come ci ricorda Gertrud Bing a proposito del progetto per il Planetarium, il fine che Warburg si era posto "era quello di destare nel pubblico una coscienza storica"; inoltre, prosegue Bing:
"Non gli sembrava sufficiente che i visitatori si trovassero dinanzi agli occhi lo spettacolo del moto delle stelle come risultato bell’e pronto; essi dovevano trovare l’indicazione della storia che ha condotto alla nostra odierna immagine dell’universo".
Perseo, una delle figure più emblematiche di tali peregrinazioni e delle ricerche di Warburg sull’argomento, diventava riconoscibile anche nei manoscritti arabi medievali grazie all’accostamento con la sua immagine liberata del "barbaro costume" nel soffitto della Farnesina, e, prendendo per mano l’osservatore disposto a ripercorrere la sua storia anche nei momenti ‘bui’, indicava la via del lungo tragitto percorso.
Le attività dell’Istituto di Amburgo proseguirono senza sosta con numerose altre esposizioni e conferenze, contribuendo, con il loro spaziare attraverso i più diversi luoghi e modi della tradizione culturale europea, alla crescita degli studi della KBW e, di riflesso, del suo prestigio. Il lavoro coinvolse tutti i collaboratori, i frequentatori e i visitatori dell’Istituto: le tavole cominciarono a occupare i grandi spazi della biblioteca, in particolar modo la sala ovale, ma non risparmiarono altri locali, compresi quelli dell’edificio dell’abitazione.
Dalle fitte pagine dei diari della KBW si può dedurre che il progetto vero e proprio di realizzazione di un’opera in forma di atlante prese corpo tra il 1926 e il 1927, in seguito al grande successo riscosso dalle mostre. Se all’inizio, infatti, l’allestimento delle tavole era parte indispensabile del lavoro di preparazione di conferenze ed esposizioni, presto il rapporto si ribaltò e gli avvenimenti pubblici divennero pretesto per l’accrescimento e la presentazione del progetto — presentazione che avvenne ufficialmente a Roma, presso la Biblioteca Hertziana, il 19 gennaio 1929. I pannelli assunsero così il doppio ruolo di strumento di riconoscimento, studio, orientamento e mezzo di presentazione dei risultati raggiunti.
L’elaborazione delle tavole destinate a formare l’Atlante va accostata alla sistematizzazione dell’opera in vista di una possibile pubblicazione, e ricondotta a tre fasi principali: al 1928 risale una prima serie di 43 tavole; del 1929 sono la seconda serie, di 71 tavole, e la terza, quella ‘ufficiale’ - cioè l’ultima cui Warburg mise mano - che presenta una serie di 63 tavole, numerate, con alcune lacune, da 1 a 79. Nonostante la distinzione di tre serie, il lavoro procedette pressoché ininterrotto e Warburg, come già aveva fatto con la collocazione dei suoi libri nella biblioteca, intervenne in continuazione sulle composizioni dei pannelli, sulle iscrizioni, sulla posizione delle immagini modificando, di conseguenza, la logica dei percorsi. Inoltre, le modifiche che egli apportò negli stadi terminali del lavoro, ebbero come risultato che alcuni motivi, da principio rappresentati su un’unica tavola, vennero disperdendosi su un numero imprecisato di tavole, e il piano complessivo dell’opera si infittì di rimandi a distanza tra pannello e pannello che ne aumentavano ulteriormente la ‘densità’ contenutistica.
Consapevole del loro carattere provvisorio, Gertrud Bing insistette affinché le tavole fossero fotografate, e venissero così documentati i progressi e le variazioni del lavoro. Il materiale fotografico relativo all’Atlante, ora conservato presso l’Archivio del Warburg Institute di Londra, rende palese un elemento fondamentale della composizione dell’opera: Warburg aveva ben chiari gli ambiti e i nuclei di tutti i temi, i soggetti, i pensieri filosofici cui voleva dar forma nella sua opera, ma continuò a muoversi attorno a essi cercando i nessi, gli accostamenti, i percorsi logici più eloquenti. Attraverso le fotografie delle tre serie di tavole è possibile ripercorrere il cammino di alcune immagini, o gruppi di immagini, nel corso dell’evoluzione del progetto, e dedurre di conseguenza la logica delle modifiche apportate, ma non ricostruire con esattezza le ‘versioni’ dei singoli pannelli. Ogni immagine aggiunta o eliminata, ogni spostamento, ogni variazione, corrispondeva, probabilmente, alla feconda mutazione di un equilibrio, poi da ripristinare in altre nuove soluzioni combinatorie. Un elemento deducibile, però, è che tra la prima e l’ultima serie, furono abbandonate molte sequenze regolari e l’ultima versione, a scapito forse di una maggior leggibilità, presenta, nonostante alcuni raggruppamenti tematici ‘forti’, una maggiore frammentarietà dei percorsi, ma anche una trama che intreccia più solidamente pensiero e immagine.
La molteplicità dei percorsi proposti rappresentava, infatti, uno degli elementi di fascino e di forza dell’Atlante durante l’esposizione agli ammirati, e non di rado sconcertati, visitatori della KBW: il passaggio da una tavola all’altra era facilitato da una serie di fili conduttori sapientemente gestiti da Warburg, grazie ai quali era possibile orientarsi nel labirinto delle immagini.
Ancora oggi, a più di settant’anni dalla sua ideazione, dopo la pubblicazione del catalogo completo dell’ultima versione delle tavole (in occasione delle esposizioni Vienna 1992; Amburgo 1993; Siena-Firenze-Roma 1998), e la nuova edizione berlinese in volume (2000), Mnemosyne rimane un’opera difficile da afferrare e costringere dentro una struttura fissata.
Data la complessità dell’Atlante, particolarmente difficile fu infatti per Warburg il progetto di pubblicazione, che richiedeva obbligatoriamente la chiusura di un’opera cresciuta invece in una forma estremamente fluida. Alla primavera del 1927 risale il programma di una prima edizione delle tavole in fogli sciolti; nell'estate dello stesso anno, poi, Warburg cominciò a formulare un quadro più generale per il progetto, basato sui due nuclei tematici principali di ‘astrologia’ e ‘Pathosformel’. Nel 1928 lo studioso manifestò nuovamente l’urgenza di questo lavoro: intenzionato a compiere un secondo viaggio in America - progetto che fallì - Warburg desiderava lasciare in Europa un’opera che raccogliesse tutte le proprie ricerche. A questo fine, cominciò ad annotare nel diario alcune ipotesi per il titolo, chiedendo espressamente ai colleghi la formulazione di controproposte; alcune, riferite al concetto di Menschendarstellung (rappresentazione dell'uomo) furono presto scartate e il termine Mnemosyne prese il sopravvento, accompagnato da una serie di lunghi, ipotetici, sottotitoli. L’idea del termine greco ‘memoria’, nome della madre delle nove muse, può essere ricondotta alla lettura di Sprache und Mythos di Ernst Cassirer: in una nota del primo giugno 1925 nella propria copia del libro, Warburg aveva infatti annotato la parola Mnemosyne ai margini di un passo sul concetto di Augenblicksgott - il "dio dell’istante".
Con la scomparsa di Warburg il progetto non fu abbandonato, e ancor più forte si fece lo sforzo per rendere fruibile, e quindi fruttuosa, l’opera dello studioso. Alcune notizie importanti sui progetti editoriali postumi ci sono fornite da Fritz Saxl, il quale, assuntosi con Bing questo impegno, presentava in una lettera all’editore Teubner di Lipsia, un piano completo per l’edizione delle Gesammelte Schriften che sarebbe dovuta iniziare con la raccolta delle Kleinen Schriften, e avrebbe poi dovuto comprendere, oltre all’Atlante, le conferenze inedite, le lettere e gli aforismi. Nel descrivere brevemente l’opera e i principali gruppi di tavole, Saxl sottolineava un particolare aspetto dell’ultimo lavoro di Warburg: esso rappresentava l’esito di indagini condotte per decenni e dimostrava dettagliatamente "ad oculos", ciò che nei saggi era stato solo accennato. Per l’edizione venivano forniti alcuni dati tecnici, ma un problema era posto dalla frammentarietà del materiale scritto, al quale Saxl attribuiva un valore fondamentale.
Accanto al materiale fotografico documentario, dell’Atlante ci sono infatti pervenuti l'introduzione che Warburg stese e rimaneggiò fino agli ultimi giorni di vita, gli appunti nei diari di ricerca, e numerosi altri appunti frammentari che sarebbero dovuti confluire nei due volumi scritti di accompagnamento all’atlante di immagini. Più e più volte è stato ripetuto come la comprensione dell’Atlante necessiti assolutamente della conoscenza delle concezioni teoretico-metodologiche di Warburg nella loro evoluzione, senza escludere, quindi, le ultime ricerche i cui testi, confluiti nelle conferenze, nelle lezioni o direttamente nell’Atlante, sono rimasti inediti. L’interesse di questi inediti va visto proprio nella possibilità che essi offrono di confrontare immagini e parole utilizzati negli stessi anni per tessere riflessioni e proporre interrogativi sugli stessi temi; non va però dimenticato che i testi delle conferenze erano stesi in forma schematica, con introduzione e conclusione ben delineate e percorso di discussione spesso accennato solo per punti. Il motto warburghiano "all’immagine la parola", può essere ricondotto non solo all’importanza che i due volumi inediti di testo avrebbero avuto per una comprensione più completa dell’Atlante, ma anche al fatto che Warburg credeva moltissimo al potenziale comunicativo delle immagini, esaltato proprio grazie alla struttura e ai criteri compositivi delle tavole: alle immagini doveva — e deve - essere concesso il beneficio di un ascolto paziente; alle parole, in forma di "mosaici" di frammenti, quello di ricreare immagini con la loro "densità di significato". Sebbene, infatti, l’Atlante della Memoria sia rimasto incompleto e privo del suo corredo verbale, in esso rimangono impresse fortemente le tracce del pensiero warburghiano e chi, consapevole dell’incompiutezza dell’opera e della provvisorietà dei montaggi, voglia avvicinarsi alle tavole, percorrerne i sentieri e soffermarsi a interrogare le immagini, potrà seguire proprio quelle orme.
Esattamente come i libri della Biblioteca, le tavole e le immagini di Mnemosyne necessitano di poche parole di ‘orientamento’ per un primo, iniziale contatto, e solo la discrezione del lettore o dell’osservatore, e il desiderio di immergersi e prendere possesso dei contenuti delle opere, potrà produrre un reale arricchimento. Titolo, autore, collocazione, sono indicazioni sufficienti, anche per il più sprovveduto e inesperto dei bibliofili (‘iconofili’), per trovare il libro (l’immagine) desiderato e con esso, grazie al principio fondamentale sul quale è cresciuta la biblioteca di Warburg, anche un fitto ‘vicinato’ attraverso il quale intraprendere -con un esordio volontario o indotto- un cammino di ricerca.
Scrive Salvatore Settis a questo proposito:
"La biblioteca Warburg riflette sostanzialmente il lavoro del suo fondatore, ed è stata concepita come un itinerarium mentis che conducesse il lettore lungo vie determinate (i problemi di Warburg), anche se non verso sbocchi predeterminati; […] l’"itinerario" è concepito in modo che il passaggio da un settore all’altro sia avvertito come "naturale". […] È proprio questa "naturalezza" che trasforma il "labirinto" in una "prigione", nel senso che cattura l’attenzione obbligando il lettore ora ad arrestarsi su un nodo […] che non entrava nelle sue attese, ora a percorrere un filo […] che gli appariva marginale, ma può contenere l’informazione vitale per la sua ricerca".
L’immagine suggerita da Cassirer della KBW come luogo in cui perdersi, può infine fornire una riflessione anche su Mnemosyne: l’apparente groviglio di strade e sentieri dell’ultima grande opera di Aby Warburg è percorribile grazie a un filo di Arianna che, pazientemente svolto, conduca al centro del problema e consenta poi, a chi lo desidera, di tornare indietro.