"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

134 | marzo 2016

9788898260799

Tucidide e Machiavelli*

Luciano Canfora

English abstract
I

Il locus classicus, dal quale giova prendere le mosse, è la testimonianza di Paolo Giovio:

Constat eum [scil. Machiavelli], sicuti ipse nobis fatebatur, a Marcello Virgilio, cuius et notarius et essecla fuit, Graecae atque Latinae linguae flores accepisse quos scriptis suis insereret (Giovio 1577, 162-163).

Questo può significare che Marcello Adriani lo aveva aiutato anche per quel che riguarda la frequentazione degli autori greci: ad ogni modo la raccolta di “flores” da “inserire scriptis suis” indica che c’è stata, da parte del Machiavelli – come del resto è procedimento ovvio e ipotizzabile per tanti altri autori, antichi e moderni –, una schedatura, una raccolta di materiali preparatori da utilizzare all’occorrenza. La frequentazione sistematica degli Antichi, del resto, è rivendicata dal Machiavelli, nella dedica del Principe, come uno dei presupposti, insieme alla “lunga esperienza delle cose moderne”, per quella “cognizione delle azioni degli uomini grandi” che costituisce il bagaglio che col suo trattato egli intende trasmettere: “una continua lezione [lectio] delle [cose] antique”.

Ma quali letture in campo greco? Come si sa, il tema merita molta cautela. Contro l’eccessiva pretesa nella identificazione di fonti che Machiavelli avrebbe letto, caratteristica del saggio di Ellinger Die Antiken Quellen der Staatslehre Machiavellis (1888), protestava quasi un secolo fa Pasquale Villari ricordando che certe espressioni “il Machiavelli poté aver imitate non da uno ma da molti autori, come poté anche non averle imitate da nessuno perché sono di quelle che era difficile non adoperare” (Villari 1912, 278). Non ricorderemo qui, se non di passata, la disputa che vide a suo tempo contrapporsi il Villari e il Triantafillis, se non per rievocare l’ipotesi avventurosa alla quale lo studioso greco diede corpo: essersi cioè, il Machiavelli, trovato in possesso di un esemplare manoscritto contenente l’intera raccolta degli excerpta costantiniani, dei quali invece, com’è noto solo una piccola parte s’è salvata. L’ipotesi era volta a dar conto della puntuale conoscenza, da parte di Machiavelli di autori o di brani (per esempio il VI libro di Polibio) che all’epoca non erano stampati nemmeno in traduzione latina. Prescindeva dal dato decisivo, così sintetizzato dal Villari:“Moltissime furono le traduzioni fatte in quel secolo che restarono inedite e possono quindi essere ignote a noi”. Nessuno degli argomenti messi in campo dal Triantafillis resta in piedi (Triantafillis 1875). E quanto al ben noto caso della trasposizione, nel libro primo (cap. 2) dei Discorsi di ampia parte del libro polibiano sulle costituzioni, si debbono aver presenti i dati nuovi e risolutivi che Carlo Dionisotti ha reso noti anni fa (Dionisotti 1980, 139). Essi rendono comprensibile in modo concreto cosa si debba intendere quando si parla di circolazione di un testo in una cerchia di colti.

II

Assodato in via definitiva che dunque Machiavelli, pur non leggendo il greco, poté assimilare – grazie a traduzioni e a letture collettive – testi greci da lui poi messi a frutto (avrà continuato a schedare “flores” anche dopo il sodalizio con Marcello Adriani), è giusto lumeggiare alcuni presupposti, che ci gioveranno nel seguito:

a) la nozione e la pratica della molteplicità dei riferimenti;
b) l’insoddisfacente genericità di certi accostamenti testuali.

I due punti non sono tra loro slegati. Prendiamo in considerazione un passo molto noto, su cui ha attratto nuovamente l’attenzione Eugenio Garin (Garin 1993, 3), e cioè l’esordio del quinto libro delle Istorie fiorentine:

perché, non essendo dalla natura conceduto alle mondane cose il fermarsi, come le arrivano alla loro ultima perfezione, non avendo più da salire, conviene che scendino.

Pensiero che si presenta in forma semplificata nell’Asino d’oro: “Onde avvien che l’un sorge e l’altro muore, e quel che è surto sempre mai si strugge”. Qui si possono cogliere, probabilmente, differenti suggestioni: per un verso la frase conclusiva del proemio erodoteo (I, 5), dove e non solo vi è la considerazione sulle città un tempo grandi divenute oggi piccole e viceversa, ma esplicitamente ricorre il concetto di “fortuna umana che non sta mai ferma nello stesso luogo” (che riecheggia forse nel “non essendo dalla natura conceduto alle mondane cose il fermarsi”); per l’altro il sallustiano “omnia orta occidunt et aucta senescunt” (Jug. 2, 3), dietro cui però c’è Tucidide (II, 64, 3), alla conclusione dell’epitafio pericleo: “πάντα γὰρ πέφυχε καὶ ὲλασσοῦσθαι”. Né va trascurato il quadro iniziale della Catilinaria sallustiana (i grandi imperi del passato ed il loro declino).

Proemi sallustiani, proemio erodoteo, epitafio pericleo: testi di grande rilievo, e forse complessivamente influenti, direttamente o indirettamente, sulla formulazione tipicamente machiavelliana anche se nutrita di ‘fonti’, del proemio del quinto libro delle Istorie fiorentine. Difficile stabilire una graduatoria del maggiore o minore influsso dell’una o dell’altra fonte, stante che per quelle greche l’imperizia del Machiavelli nel greco non poté essere un ostacolo insormontabile vista la ricchezza di traduzioni latine correnti (delle quali non sempre ci è rimasta notizia). Certo, come fu osservato da Antonio La Penna, Sallustio è da considerarsi un ‘autore’ molto presente e operante nella memoria letteraria del Machiavelli, ma difficilmente si ravviserà – nel caso ora illustrato – in Sallustio l’‘unica fonte’.

Ecco perché scadono nella genericità, non di rado, le perentorie individuazioni di fonti. Tantissime pagine scritte su Tucidide e Machiavelli girano a vuoto intorno a concetti generali senza acciuffare mai il bandolo di un puntuale riscontro testuale. Non dico del vecchio, e a suo modo curioso, volume di G.B. Bottazzi del 1914, ma anche di studi dalla parvenza più moderna; che senso ha cercare di connettere Tucidide e Machiavelli come assertori entrambi della natura indiziaria della conoscenza, se poi il fondamento di ciò sì riduce a ricordare l’auspicio machiavelliano a conoscere tempestivamente “i mali quando nascono” (Zanzi 1981, 136)?

III

Che Machiavelli abbia letto, in tutto o in parte in traduzione latina presumibilmente, il racconto storico di Tucidide sembra, peraltro assodato. Diremo più oltre quali sono i luoghi che sorreggono questa affermazione. Se lo conoscesse in una delle numerose copie manoscritte circolanti, o addirittura nella stampa veneziana del 1485 della traduzione del Valla è difficile stabilire con certezza. Non sappiamo quale circolazione abbia avuto la stampa, curata da Bartolomeo Partenio (con dedica del Partenio a Franciscus Thronus, Veneti exercitus provisor) della traduzione tucididea del ValIa. I pochi esemplari superstiti (Paris, Bibliothèque Nationale, Rés. J. 32; ovvero J. 33; London, British Library, IB. 28439; ovvero C. 1. c. 4) lasciano ai moderni studiosi di incunaboIi l’incertezza se la stampa sia avvenuta effettivamente a Venezia, o non piuttosto a Treviso, per cura del tipografo Giovanni Rossi, o Rosso, di Vercelli; e anche – vista l’assenza di una data oltre che del luogo di stampa – se debba collocarsi nel 1483 o nel 1485. In seguito (151.3, Parisiis in aedibus Ascensianis) questa ‘edizione’ di Parthenius del lavoro del Valla vide altre stampe: ma quelle di cui Machiavelli poté aver nozione – sempre che non abbia avuto sott’occhio copie manoscritte – quando attendeva alla stesura dei Discorsi (circa 1511) o del Principe, sono quelle venete. Ricca fu peraltro la circolazione di copie manoscritte del Tucidide ‘latinizzato’ dal Valla: ancora oggi, e senza aver fatto particolari indagini, citiamo i tre esemplari presenti in Laurenziana (63, 32; 89, inf. 6; Acquisti e doni 712) ovvero i due Vaticani latini (oltre il Vat. Lat. 1801 recante la firma e la subscriptio del Valla medesimo), e ancora un esemplare alla Oliveriana di Pesaro, uno alla Guarneriana di San Daniele del Friuli, etc. E ciò ben si comprende, se si considera che l’invito a trarre copie dall’esemplare ‘autorizzato’ e ‘autenticato’ dal traduttore (cioè dal Vat. Lat. 1801) figurava, di pugno del Valla appunto in quel manoscritto Vaticano, vergato dalla mano del copista del Valla, Joannes Lamperti de Rodenberg.

“Ideoque – scrive il Valla in quella lunga subscriptio figurante al foglio 184rhec [secondo la corrente grafia umanistica] meo chirographo subscripsi, ut esset hic codex meae translationis archetypus, unde cetera possent exemplaria emendari”: parole del cui significato librario gli studiosi sono ben consapevoli (cfr. Westgate 1936, 242-243; Rizzo1973, 312).

IV

Citazioni esplicite da Tucidide Machiavelli ne fa, sia pure di rado. Due ne studieremo più a fondo; esse figurano entrambe nei Discorsi. La terza, verso la fine del libro III dell’Arte della guerra, è piuttosto probabile che non sia di prima mano, ma giunga a Machiavelli dalla lettura di Gellio. Scrive infatti il Machiavelli:

Da’ Lacedemonii, secondo che afferma Tucidide, ne’ loro eserciti erano usati zufoli; perché giudicavano che questa armonia fusse più atta a fare procedere il loro esercito con gravità e non con furia (Arte della guerra III; ed. Vivanti 1997, 465).

ll riferimento è a Tucidide V, 70, di cui diamo qui la traduzione Valla:

Lacedaemones vero cunctanter et ad cantum tibicinum, qui inter ipsos multi ex lege interpositi erant, non rei divinae gratia, sed ut sedate per modulationem incederent (dalla stampa datane dallo Stephanus nel suo Tucidide, Francofurti 1589, 321).

lI fatto è che Gellio dedica un intero capitolo, nel libro primo delle Noctes Atticae a commentare questa notizia antiquaria tucididea (I, XI, intitolato Quod Thucydides, scriptor indutus, Lacedaemonios in acie non tuba, sed tibiis esse usos dicit verbaque eius super ea re posita). Dopo aver parafrasato, o meglio amplificato, la citazione tucididea, che poi riferisce in extenso verso la metà del capitolo, Gellio propone una spiegazione del fine per cui gli Spartani fornivano alle loro truppe un siffatto accompagnamento musicale:

Ea ibi praecentione tranquilla et delectabili atque adeo venerabili [...] vis et impetus militum, ne sparsi dispalatique proruerent, cohibebatur.

Si può addirittura pensare che Machiavelli, scrivendo “più atta a far procedere il loro esercito con gravità e non con furia”, abbia in mente proprio questo commento di Gellio (‘venerabili’, ‘proruerent’; ‘gravità’, ‘furia’). Certo, fa dire a Tucidide più di quanto Tucidide – come l’ha tradotto Valla – non dica. Valla infatti ha eliminato, nel tradurre, l’indicazione di ciò che la musica intendeva impedire (ἴνα μὴ διασπασθείη αὐτοῖς ὴ τάξις), ed ha scritto semplicemente: “ut sedate per modulationem incederent”. È Gellio che, nella sua parafrasi latina, ha mantenuto per intero l’espressione tucididea ed ha scritto infatti, oltre che “ut moderatiores modulatioresque fierent”, anche “ne sparsi dispalatique proruerent”.

Ma veniamo ai due, più significativi, luoghi dei Discorsi. Innanzitutto il capitolo 16 del libro terzo, incentrato intorno al tema: “Egli fu sempre, e sempre sarà, che gli uomini grandi e rari in una repubblica ne’ tempi pacifichi sono negletti”. La spiegazione di ciò Machiavelli la trova nella costante invidia che attornia “gli uomini grandi”. In tempi pacifici, quando tutto è più facile, anche personaggi di scarso valore cercano il loro spazio. E qui gli viene a mente Tucidide, cui dedica una circostanziata riflessione che va riferita per intero:

E di questo ne è uno luogo buono in Tucidide, istorico greco, il quaIe mostra come, sendo la republica ateniese rimasa superiore in la guerra peloponnesiaca ed avendo frenato l’orgoglio degli spartani e quasi sottomessa tutta l’altra Grecia, salse in tanta riputazione che la disegnò di occupare la Sicilia. Venne questa impresa in disputa in Atene. Alcibiade e qualche altro cittadino consigliavano che la si facesse, come quelli che, pensando poco al bene publico, pensavono all’onore loro, disegnando essere capi di tale impresa. Ma Nicia, che era il primo intra i reputati di Atene, la dissuadeva, e la maggiore ragione che nel concionare al popolo, perché gli fusse prestato fede, adducesse, fu questa: che consigliando esso che non si facesse questa guerra, e’ consigliava cosa che non faceva per lui; perché stando Atene in pace, sapeva come vi era infiniti cittadini che gli volevano andare innanzi; ma, facendosi guerra, sapeva che nessuno cittadino gli sarebbe superiore o equale. Vedesi, pertanto, adunque, come nelle republiche è questo disordine, di far poca stima de’ valenti uomini ne’ tempi quieti (Discorsi III, 16; ed. Vivanti 1997, 465).

Quel che innanzi tutto colpisce in questo brano è la scelta di Machiavelli di tracciare un intero profilo del conflitto fino al momento della divisione tra autori e avversari della spedizione in Sicilia. Qui c’è dunque l’idea complessiva che Machiavelli si è fatta della guerra peloponnesiaca evidentemente ed esplicitamente (tutto il contesto dipende infatti dalle parole “il quale mostra”) sulla base dell’opera tucididea. Si potrebbe anche propendere per l’ipotesi, destinata peraltro a restare ipotesi in assenza di documenti che la certifichino, che qui Machiavelli dà conto di una lettura recente. Del che potrebbe essere una spia anche il fatto che ‘presenti’ Tucidide al lettore definendolo, appunto, “istorico greco”.

Un’altra considerazione preliminare che si impone, ed è di immediata evidenza, è l’uso di “guerra peloponnesiaca” per intendere la guerra decennale (o ‘archidamica’). Tale uso è bene attestato in Diodoro Siculo (XIll, 24, 2): è anche degno di nota che affiori in Diodoro proprio in un contesto relativo alla spedizione siciliana (si tratta del discorso del siracusano Nikolaos sulla condotta da tenersi verso i prigionieri ateniesi), e che venga lì adoperata quella espressione (“al tempo della, guerra peloponnesiaca”) per rievocare la guerra decennale ormai da tempo conclusa. Nikolaos parla nel 413; la guerra decennale, che Diodoro chiama ‘peIoponnesiaca’, si era conclusa con la pace di Nicia nel 421. Anzi la terminologia diodorea è inerente all’idea non unitaria del conflitto, che invece molto originalmente, Tucidide considera un unico conflitto (431-404); e i moderni con lui.

Machiavelli, buon lettore di Diodoro – basti pensare al peso dell’Agatocle diodoreo (libri XIX e XX) nella Vita di Castruccio Castracani ma anche, e forse più, nel Principe –, ha per così dire ‘contaminato’ o fatto interferire la sua antica e solida lettura della Biblioteca storica, per la quale gli giovavano la traduzione del Bracciolini e altre versioni latine, con la lettura di Tucidide. AI punto di far dire a Tucidide ciò che è agli antipodi della sua concezione unitaria del conflitto: che cioè ‘peIoponnesiaca’ è da definirsi appunto la guerra decennale, mentre la guerra in Sicilia è altra e diversa guerra rispetto a quella peloponnesiaca, conclusasi – su questo Machiavelli è molto chiaro – con la vittoria di Atene.

Ma anche questa idea che la pace di Nicia segnasse la vittoria di Atene (“sendo la republica ateniese rimasa superiore in la guerra peloponnesiaca”) è totalmente estranea alla concezione tucididea. Per Tucidide, a giudicare dai capitoli che commentano i trattati del 421, per non dire poi del cosiddetto “secondo proemio” (che riduce la pace del 421 ad una “incerta tregua”!), la pace di Nicia è il tipico compromesso senza vinti né vincitori. Un’immagine di Atene che rifiorisce e riprende slancio grazie alla pace del 421 poteva trovarla, semmai, nella Vita plutarchea di Nicia; difficilmente in Tucidide, visto che Nicia – proprio nel discorso tucidideo cui qui Machiavelli allude – fa notare che la città si sta appena riprendendo dai colpi durissimi della guerra decennale e del contagio mentre avventuristi come Alcibiade già sognano nuove imprese militari.

E, a rigore, la stessa citazione del pensiero di Nicia, che è il fulcro di tutto questo brano – la considerazione cioè che Nicia dalla guerra caverebbe onori, ma preferisce rinunciarvi perché ritiene la nuova guerra nociva per la città– anche questa citazione è presentata da Machiavelli in modo non corrispondente alla realtà del testo tucidideo. Sostiene infatti che “la maggiore ragione che, nel concionare al popolo [...] adducesse, fu questa”, laddove tale considerazione è solo una delle tante cui Nicia, in Tucidide, ricorre per piegare all’assenso i suoi ascoltatori. Essa nondimeno è parsa centrale e prevalente a Machiavelli, che infatti in quel capitolo 16 del libro terzo, sta sviluppando esattamente quel pensiero: “che la vera virtù si va ne’ tempi difficili a trovare”. È il concetto intorno al quale l’intero capitolo viene costruito, e perciò quella frase di Nicia (Tucidide, VI, 9, 2: “καίτοι ἔγωγε καὶ τιμῶμαι ἐκ τοῦ τοιούτου”) nοn solo viene piegata a confermare la tesi ma viene fatta giganteggiare all’interno dell’intervento assembleare di Nicia. Ovviamente questo non significa affatto che non più che un ‘fiore’ – per dirla con Paolo Giovio, citato in principio –, tratto dal discorso di Nicia all’assemblea, venga qui amplificato da Machiavelli con apporti estranei a Tucidide, ma presentati come pensiero tucidideo.

Nel contesto machiavelliano interferiscono, al solito, molteplici letture (s’è detto prima dell’insensatezza di una meccanica e schematica ricerca di ‘fonti’ in un pensatore e lettore di classici quale il Machiavelli), che interreagiscono in base alle linee del suo pensiero: pensiero tutto nuovo, tutto del Machiavelli, del quale i riferimenti classici, spesso, intrecciati, sono il nutrimento e lo spunto, non la sostanza. Si tratta di fonti da lui assimilate, filtrate attraverso la sua costruzione concettuale, e perciò ‘stravolte’ rispetto alla loro letterale verità. E in tanto affiorano alla sua memoria, mentre compone ed elabora, appunto in quanto hanno subìto quel processo di trasformazione, grazie al quale esse sono entrate a far parte del suo universo mentale. Ragion per cui, pur tra tante sovrapposizioni di fonti diverse e concomitanti nella rielaborazione che il Machiavelli ne dà, tuttavia spiccano alcuni concetti caratteristicamente tucididei – della visione tucididea del conflitto e delle sue cause remote. Essi attestano, oltre che la familiarità con l’autore, la capacità, da parte di Machiavelli, di individuare alcuni capitoli-chiave dello storico ateniese.

È il caso, in particolare, di quel cenno a torto riferito al 421, ad Atene giunta ad imbrigliare la potenza spartana per aver “quasi sottomesso tutta l’altra Grecia”. Formulazione che risente, direi, di Tucidide I, 88, cioè di un breve capitolo, strategicamente collocato, nel racconto tucidideo, tra la conclusione del lungo resoconto della conferenza di Sparta, da cui scaturì poi la dichiarazione di guerra, e la digressione sul “Cinquantennio” (πεντηκονταετία), e volto ad affermare – contro tutte le puntigliose rimostranze di corto respiro sviscerate nella conferenza di Sparta – la causa profonda del conflitto: e cioè l’inquietudine crescente, e si potrebbe dire il panico, di Sparta di fronte alla constatazione che Atene dominava o controllava ormai “τὰ πολλά τῆς Ἑλλάδος”, come si esprime Tucidide, ovvero “quasi tutta l’altra Grecia”, come si esprime Machiavelli.

Peraltro si dovrà aver cautela anche nell’assegnare, con un tratto netto, questo alla lettura di Diodoro e quest’altro alla rimembranza di letture tucididee. Certo che – come s’è appena detto – πελοποννησιακὸς πόλεμος è espressione prettamente diodorea se riferita al conflitto decennale; ed il discorso di Nikolaos, immaginato da Diodoro proprio alla conclusione della guerra in Sicilia, sta lì a testimoniarlo. Ma ciò non toglie che l’esordio stesso del libro sesto di Tucidide, dove incomincia, con l’archeologia siciliana, il racconto dei prodromi del conflitto con Siracusa si offra come particolarmente insidioso per chi abbia la familiarità che Machiavelli aveva con Diodoro e con la partizione diodorea del conflitto. Giacché almeno in quei primi righi Tucidide, quasi tradendosi o offuscando la coerenza della sua scelta ‘unitaria’, sembra parlare anche lui della “guerra coi Peloponnesiaci” come di un’altra guerra.

Leggiamolo ancora una volta nel latino del Valla:

Hac eadem hieme Athenienses decrevere rursus in Siciliam maiori quam curo Lachete et Eurymedonte apparatu transmittere, ad eam subigendam, si possent: ignari eorum plerique et magnitudinis insulae et multitudinis incolentium, tum Graecorum, tum Barbarorum: seque suscipere bellum haud multo minus quam illud fuerat quod adversus Peloponnenses susceperant.

Il greco di Tucidide dice però meno ‘imprudentemente’ ὅτι οὐ πολλῷ τινὶ ὑποδεέστερον πόλεμον ἀνῃροῦντο ἢ τὸν πρὸς Πελοποννησίους: laddove il ‘susceperant’ di Valla fa davvero pensare ad una guerra ormai passata e remota e conclusa. E certo Machiavelli ha inteso a questo modo, memore oltre tutto di quanto leggeva o aveva letto in Diodoro.

Tucididea è anche la scelta di presentare la smania ateniese di andare in Sicilia come una corrente d’opinione in cui Alcibiade si inserisce, non già – come apparirebbe invece dallo schematico racconto diodoreo nel finale del libro XII – come una scelta di Alcibiade di fronte ad una platea che fino a quel momento s’era limitata a inviare in Sicilia osservatori. Per Tucidide la responsabilità degli Ateniesi in quella scelta è prevalente (lo ribadisce con uno scatto polemico nel primo capitolo del libro ottavo: piangevano i loro morti come se non l’avessero voluta loro quella spedizione!); e così nel resoconto, prima ricordato, che Machiavelli dà di questa vicenda è la città nel suo insieme che “salse in tanta riputazione che la disegnò di occupare la Sicilia”, mentre Alcibiade è un ambizioso che – con altri – cerca di volgere a proprio vantaggio questa forte inclinazione dell’opinione pubblica: “pensando poco al bene pubblico, pensavano all’onore loro, disegnando essere capi di tale impresa” (Tucidide VI, 15: μάλιστα στρατηγῆσαι ἐπιθυμῶν). E anche in questo caso non è una scelta da poco. È il segno della capacità machiavelliana di mettere a fuoco i passaggi e le valutazioni politiche più rilevanti ai suoi fini diagnostici della politica moderna sulla base della “continua lezione degli Antichi”.

V

Nell’altro luogo dei Discorsi ch’io credo possa, e forse debba, ricondursi alla frequentazione del testo tucidideo, il nome di Tucidide non c’è. Si tratta questa volta di una allusione, che scaturisce dalla lunga tirata “polibiana” sulle costituzioni (Libro I, capitolo 2, Di quante spezie sono le republiche e di quale fu la republica romana). La lunga e talora letterale ripresa da Polibio termina con la celebre formulazione, anch’essa di matrice polibiana, sul “cerchio nel quale girando tutte le republiche si sono governate e si governano”. Fissata la tipologia, Machiavelli prospetta, a fronte dei sei modi ‘pestiferi’ (o per la brevità o per la malignità), il modello ‘misto’, prediletto dai legislatori che meritano “più laude”: primo tra tutti Licurgo, “il quale ordinò in modo le sue leggi in Sparta che dando le parti sue ai re, agli ottimati e al popolo, fece uno Stato che durò più che ottocento anni, con somma laude sua e quiete della città” (torneremo su questa cifra).

Al contrario intervenne a Solone, il quale ordinò le leggi in Atene; che, per ordinarvi solo lo stato popolare, lo fece di sì breve vita, che, avanti morisse, vi vide nata la tirannide di Pisistrato: e benché, dipoi anni quaranta, ne fussero gli eredi suoi cacciati, e ritornasse Atene in libertà, perché la riprese lo stato popolare, secondo gli ordini di Solone, non lo tenne più che cento anni, ancora che per mantenerlo facessi molte constituzioni, per le quali si reprimeva la insolenzia de’ grandi e la licenza dell’universale, le quali non furono da Solone considerate: nientedimeno, perché la non le mescolò con la potenza del principato e con quella degli ottimati, visse Atene, a rispetto di Sparta, brevissimo tempo (Discorsi I, 2; ed. Vivanti 1997, 465).

Si nota in questa pagina una puntigliosa attenzione ai numeri, alla durata in termini di anni dei vari regimi politici. E questo si spiega visto il tema, che è appunto la maggiore o minore durevolezza dei vari “modi”, con il corollario della prevalenza di quello che fu concepito dagli Antichi col proposito “che partecipasse di tutti”. Ma donde vengono queste cifre?

La meno ovvia sono gli ottocento anni di ‘somma quiete’ assicurata a Sparta dalle leggi di Licurgo. È un dato che ritorna. Per esempio nell’Arte della guerra Fabrizio Colonna dice ad un certo punto:

Stette Roma libera quattrocento anni [cifra peraltro opinabile: dalla fondazione della repubblica alla vittoria cesariana, o addirittura ad Azio intercorrono ben più che quattrocento anni], ed era armata; Sparta ottocento; e aggiunge: molte altre città sono state disarmate, e sono state libere meno di quaranta.

Qui sembra che il calcolo non riguardi la tranquillità interna dovuta al buon ordinamento costituzionale ma l’indipendenza coniugata con (e garantita dalla) efficiente milizia (“l’arme in dosso a’ suoi cittadini o sudditi, date dalle leggi e dall’ordine, non fecero mai danno”: Arte della guerra I; ed. Vivanti 1997, 311)

Ad ogni modo era possibile trovare nelle fonti due cronologie alquanto diverse per datare l’entrata in vigore della costituzione di Licurgo e dell’eunomia spartana. Per un verso Tucidide, il quale, verso la fine dell’“archeologia”, dice che l’eunomia spartana era rimasta ininterrottamente in vigore “per poco più di quattrocento anni fino alla fine di questa guerra”: il che comporta un calcolo che risalga a ritroso di quattrocento anni o a partire dal 421 o molto più probabilmente dal 404. Per l’altro lo pseudo-Platone del Minosse, dove Socrate dice (318 D) che la costituzione di Licurgo è in vigore da circa trecento anni. Visto che Socrate è un contemporaneo non molto anziano di Tucidide, le due datazioni divergono di un secolo all’incirca. A quale delle due si sarà ispirato il Machiavelli? Difficile dirlo: bisognerebbe capire dove egli ritenesse si potesse porre il punto terminale della lunghissima vita della costituzione di Licurgo. Problema ulteriormente complicato dal fatto che Machiavelli oscilla tra la nozione di ottocento anni di costituzione ‘intatta’ e ottocento anni di Sparta indipendente perché armata (il che è altra cosa). Oltre tutto i sussulti costituzionali della storia spartana sono sempre stati presentati come un ritorno alla costituzione di Licurgo: ragion per cui anche le crisi e le fratture nella storia politico-costituzionale di Sparta (Agide, Cleomene, Nabide, etc.) a rigore non interrompono la continuità licurghea. E lo stesso Machiavelli del resto, anche grazie alla sua originale frequentazione di Livio, vede in Nabide soprattutto un vindice della indipendenza spartana.

Sparta partecipa alla battaglia di Filippi, come alleata dei Cesariani, con duemila opliti. E partecipa con sue truppe, come alleata di Roma, alle campagne partiche di Marco Aurelio e di Caracalla. Fino alla distruzione da parte di Alarico è davvero difficile fissare un momento in cui l’indipendenza di Sparta formalmente cessa. A meno che non si pensi alla ‘tirannide’ instaurata da Eurykles (il quale aveva combattuto a fianco di Ottaviano ad Azio e pretendeva di aver dato un contributo essenziale alla vittoria), e alla penalizzazione inflitta, qualche anno dopo, da Tiberio al ‘tiranno’ Eurykles a Sparta. Periodizzando la storia spartana sulla base di questa crisi prodottasi all’inizio del I secolo d.C., e assumendo la cronologia tucididea (anziché quella dello pseudo-Platone), che poneva l’inizio dell’eunomia licurghea quattrocento anni prima della fine della guerra peloponnesiaca, si può approdare ad un calcolo approssimativo di ottocento anni di ininterrotta “indipendenza” di Sparta. Ma è arrischiato sostenere che Machiavelli abbia davvero ragionato in tal modo.

VI

È il calcolo di cent’anni di “stato popolare secondo gli ordini di Solone” vigente in Atene a partire dalla cacciata dei Pisistratidi, che ci riporta con maggiore certezza ad una probabile suggestione tucididea. L’osservazione infatti che il colpo di Stato oligarchico del 411 intervenisse ad interrompere cent’anni esatti di regime democratico a partire dalla cacciata dei tiranni si trova appunto al principio del lungo resoconto che Tucidide nel libro ottavo dedica all’avventura oligarchica dei Quattrocento. Ne presenta gli artefici e commenta:

Era grave impresa togliere la libertà al popolo di Atene nel centesimo anno dopo che erano stati cacciati i tiranni: quel popolo non è abituato ad essere soggetto ed anzi per metà di quel tempo s’era assuefatto a comandare lui sugli altri (Thu. VII, 68).

È estremamente probabile che i cent’anni di governo popolare dalla cacciata dei tiranni Machiavelli li abbia tratti di qui. Tra l’altro perché solo nel racconto tucidideo il breve, e tutto sommato non molto significante, episodio della dittatura dei Quattrocento (durata pochi mesi), cui tenne dietro ben presto la restaurazione del regime democratico, assume un rilievo enorme: per lo spazio che Tucidide dedica a quella crisi, e per l’enfasi che le attribuisce connettendovi una serie di preziose riflessioni politiche (che non sfuggirono ad Aristotele). Gli altri autori antichi cui Machiavelli deve la propria informazione sui fatti della storia greca – Diodoro e Giustino – non solo dedicano ben poco spazio alla vicenda ma si astengono da qualunque calcolo o periodizzazione che metta in relazione la crisi del 411 con la più o meno lunga durata della democrazia ateniese ovvero con la cacciata dei figli di Pisistrato nel 511/510. L’idea di un ‘ciclo’ secolare che incomincia con la fine della tirannide e culmina nella presa del potere da parte dei Quattrocento è unicamente in Tucidide: ai cui occhi, peraltro, quel periodo appare lunghissimo (perciò “era grave impresa togliere la libertà al popolo di Atene” appunto dopo un così lungo periodo di predominio popolare).

Un altro elemento visibilmente ricavato da quel rilevantissimo brano di Tucidide è la erronea convinzione che libertà e stato ‘popolare’ siano finiti, ad Atene, con l’oligarchia del 411: “non lo tenne più che cento anni”! Ovviamente così non è; nel 410/409 avviene, in forme estremamente solenni la restaurazione democratica; e questo regime ritorna definitivamente per un altro secolo all’incirca ad essere il regime caratteristico di Atene dopo la guerra civile del 404/403. Insomma è il racconto tucidideo, così come noi lo leggiamo, e come Machiavelli lo leggeva nelle traduzioni di cui si serviva, che dà l’impressione, visto che s’interrompe appunto col 411, di una fine della democrazia (impressione cui contribuisce non solo l’interrompersi del testo ma anche l’ampiezza spropositata del racconto che Tucidide dedica a quell’episodio). Nessun’altra fonte poteva suggerire al Machiavelli l’idea errata che la democrazia ad Atene fosse finita allora.

Che il testo di partenza sia Tucidide VIII, 68 è, a mio avviso, confermato anche da un altro tratto caratteristico, e tutt’altro che ovvio, di quella pagina tucididea: l’uso di “libertà” e “potere popolare” come sinonimi. Altrove per Tucidide quelle due nozioni non sono sinonimiche (basti pensare alla tensione “δημοκρατία κέκληται [...] ἐλευθέρως δὲ πολιτεύομεν” dell’epitafio pericleo: II, 37). Qui invece dice chiaramente che abbattere il regime democratico significava “togliere la libertà al popolo di Atene”. Adotta cioè, consapevolmente, la terminologia con cui il demo medesimo, i suoi campioni e i suoi capi, esprimono la perdita del loro potere in città: perciò dice “togliere al popolo la libertà”. Allo stesso modo che in un altro luogo, di cui Machiavelli, sempre nei Discorsi serba memoria, dice che al tempo della oscura vicenda degli ermocopidi il popolo temeva una “congiura oligarchica e tirannica” con equiparazione oligarchia/tirannide che è del linguaggio democratico, ma che non corrisponde certo ad una corretta (e a Tucidide ben nota) tipologia costituzionale. Per Machiavelli invece quella equiparazione è non soltanto vera ma parte non trascurabile del suo modo di concepire le forme politiche oltre che della sua esperienza. Per lui davvero “libertà” e “stato popolare” sono sinonimi; e perciò si esprime inequivocabilmente in questo passo: “e benché di poi anni quaranta ne fussero gli eredi suoi cacciati e ritornasse Atene in libertà perché la riprese lo stato popolare etc.”. Chi avesse dubbi su questo può utilmente rileggere l’altro luogo dei Discorsi in cui ritorna il motivo dei cent’anni di libertà ad Atene dopo la fine della tirannide (II, 2,1). Esso è tutto incentrato sulla tesi secondo cui solo principalmente in un regime ‘libero’ i popoli si riconoscono e le città fioriscono.

E facil cosa è conoscere, donde nasca ne’ popoli questa affezione del vivere libero: perché si vede per esperienza, le cittadi non avere mai ampliato né di dominio né di ricchezza, se non mentre sono state in libertà. E veramente maravigliosa cosa è a considerare, a quanta grandezza venne Atene per spazio di cento anni, poiché la si liberò dalla tirannide di Pisitrato (Discorsi II, 2; ed Vivanti 1997, 148).

Un luogo parallelo è alla fine del libro primo, ma non più corredato del riferimento ai cento anni:

Vedesi, oltra di questo, le città, dove i popoli sono principi, fare in brevissimo tempo augumenti eccessivi, e molto maggiori che quelle che sempre sono state sotto uno principe: come fece Roma dopo la cacciata de’ re, ed Atene da poi che la si liberò da Pisistrato (Discorsi I, 58; ed Vivanti 1997, 142).

Entrambi, come si vede, sono macchiati di una certa imprecisione. La cacciata dei figli di Pisistrato al cap. 2 del libro primo, qui diventa senz’altro la cacciata di Pisistrato. Ed i cento anni di “stato popolare” diventano senz’altro cent’anni di grandezza e di crescita, sebbene ciò sia storicamente insostenibile almeno per il periodo conclusivo di quel secolo ‘democratico’ visto che esso si concluse con la catastrofe militare ed economica, di cui appunto il golpe dei Quattrocento era stato un allarmante sintomo. Ma non si vuole abbandonare questo soggetto per passare al successivo senza aver rilevato che l’incongruità tra i due cenni ai “cento anni” rinvia ancora una volta al problema del modo in cui Machiavelli adopera le sue fonti. Molto preciso e vicino al testo di partenza, fino a costruire improprie deduzioni su di esso, in I, 2; svincolato dal testo di partenza e portato quasi ad un libero riuso mnemonico in II, 2, dove infatti il ricordo dei “cento anni” di “stato popolare” si svincola dal suo contesto tucidideo e diventa uno spunto autonomo utile per asserire che i (notori!) cento anni di democrazia in Atene furono anche – e non a caso – anni di crescente prosperità e grandezza.

VII

Pisistrato ricorre spesso nei Discorsi, come s’è visto. Di rado, forse una volta sola (III, 6, 19), per reminiscenza erodotea. E si tratta – conformemente al tono antitirannico dei Discorsi – del racconto degli inganni e della messinscena con cui Pisistrato ottenne di potersi circondare di dorifori e presto, ottenuto questo, instaurò la tirannide. Ma la tradizione, proprio il celebre excursus dedicato da Tucidide a dissacrare l’episodio fondatore della mitologia democratica ateniese (cioè il tirannicidio), offriva anche un’immagine diversa della tirannide in Atene. Era un quadro di prosperità e di ‘buon governo’, che Tucidide colloca proprio al principio del suo lungo excursus accentuatamente “revisionistico” rispetto alla tradizione democratica della sua città (VI, 54,4-6). Machiavelli se ne ricorda, probabilmente, nel cap. 28 del libro primo, là dove si impegna a sostenere una tesi piuttosto contro-corrente: che cioè la sospettosità quasi persecutoria degli Ateniesi contro i propri cittadini eminenti, sospettosità che si spingeva fino alla pratica dell’ostracismo, era in fondo giustificata dal fatto che, in Atene, “nel suo più florido tempo”, Pisistrato era riuscito a farsi tiranno ed a mantenere il potere “sotto un inganno di bontà” (Discorsi I, 28; ed Vivanti 1997, 110). Di modo che la durezza della democrazia ateniese nel perseguire i suoi potenziali avversari viene dal Machiavelli non solo giustificata e avallata ma addirittura messa nel conto degli addebiti da rivolgere alla tirannide stessa, non alla democrazia. Una riflessione, come sappiamo, ricca di futuro. Ma cos’è l’‘inganno di bontà’ che Pisistrato avrebbe praticato se non appunto la eco, in Machiavelli, di quel quadro a tinte altamente positive che Tucidide aveva tracciato, del governo di Pisistrato, nel citato excursus, dedicato alle ragioni non politiche per le quali si era attentato al governo dei suoi figli?

Ma se così è, se ne può dedurre che i luoghi tucididei sui quali Machiavelli maggiormente ha meditato, e che ha messo a frutto essenzialmente nei Discorsi, sono quelli in cui Tucidide si concentra sulla politica interna di Atene, sulle sue vicende e sulle sue crisi istituzionali: la crisi del 411; la tirannide e la sua fine, e prima ancora il suo stile di governo; la lotta politica in relazione al maggiore o minore impegno militare della città (lo scontro intorno alla scelta se andare o meno in Sicilia); forse il cenno alla lunga economia spartana (libro I, libro VI, libro VIlI).

VIII

Ho trattato altrove di un possibile riecheggiamento di una battuta del dialogo melio-ateniese (V, 102-103) nel capltolo XXV del Principe (Canfora 1992). Non so se l’accostamento sia del tutto certo. Certo è che sorprende l’assenza in Machiavelli di cenni espliciti a quel notissimo dialogo, incentrato su temi (giusto versus utile; forza versus diritto; etc.) di cui si nutre la riflessione machiavelliana, soprattutto nel Principe. Un silenzio che non può non sorprendere, né può essere esorcizzato dalle innumerevoli pagine che i moderni hanno dedicato al topico binomio Tucidide/Machiavelli partendo proprio dal dialogo che – secondo Tucidide – precedette l’assedio e la repressione di Melo. Ma il tucididismo – mi si passi questa espressione –, di cui quel dialogo è in certo senso la summa, giungeva a Machiavelli, e ne impregnava il pensiero attraverso una vasta tradizione: soprattutto romana (Sallustio in primo luogo, ma anche Livio) in cui quella lezione aveva ampiamente fruttato: “Ciascuno ha letto la congiura di Catilina scritta da Sallustio” (Discorsi III, 6, 19: e Syme 1962, 156, n. 4 ha segnalato una volta come Dione Cassio possa riecheggiare Sallustio e, attraverso di lui, Tucidide).

Dire questo non significa mettere in discussione la presenza di Tucidide tra gli autori la cui lezione Machiavelli dichiara, nella dedica del Principe, di aver continuativamente praticato. Tucidide, a mio avviso, attrae Machiavelli ben più che per le riflessioni sull’antinomia tra legge morale e meccanismi della politica, perché il suo libro è un libro tutto centrato su di una guerra, sui suoi effetti politici e sulla sua fenomenologia.

Il libro di Tucidide è un trattato politico ‘vestito’ da libro di storia: un trattato politico che prende spunto e si nutre del racconto di un grande ed emblematico conflitto. Da questo punto di vista davvero la storia tucididea è l’opera più affine che possa immaginarsi alla esigenza machiavelliana di una conoscenza storica tutta utile alla politica, dove l’idea-base e di piegare per così dire in toto il racconto all’esigenza dell’insegnamento politico.

Tucidide rappresenta al livello più alto ed esplicito il modello di una storiografia che si risolva in fenomenologia della politica. “Narrazione e discorso”, per dirla con le parole di Machiavelli medesimo, nel proemio del libro terzo dei Discorsi, dove preannunzia:

per dimostrare a qualunque, quanto le azioni degli uomini particulari facessono grande Roma, e causassino in quella città molti buoni effetti, verrò alla narrazione e discorso di quegli (Discorsi III, 1, 7; ed. Vivanti 1997, 156; c.vo mio)

Bibliografia
  • Bottazzi 1914
    G.B. Bottazzi, Precursori di Niccolò Machiavelti in India ed in Grecia: Kaulilya e Tucidide, Pisa 1914.
  • Canfora 1992
    L. Canfora (a cura di), Tucidide, Il dialogo dei Melii e degli Ateniesi, Venezia 1992.
  • Dionisotti 1980
    C. Dionisotti, Machiavellerie, Torino 1980.
  • Garin 1993
    E. Garin, Polibio e Machiavelli, in Id., Machiavelli fra politica e storia, Torino 1993.
  • Giovio 1577
    P. Giovio, Elogia vitorum literis illustrium, Basileae 1577.
  • Rizzo 1973
    S. Rizzo, Il lessico filologico degli umanisti, Roma 1973.
  • Triantafillis 1875
    C. Triantafillis, Nicolò Machiavelli e gli scrittori greci, Venezia 1875.
  • Villari 1912
    P. Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, illustrati con nuovi documenti, II ed., Milano 1912.
  • Vivanti 1997
    C. Vivanti (a cura di), N. Machiavelli, Opere, voI. I, Torino 1997.
  • Westgate 1936
    W. Westgate, The Text of Valla’s Translation of Thucydides, “Transactions and Proceedings of the American Philological Association”, LXVll (1936), 242-243.
  • Zanzi 1981
    L. Zanzi, I “segni” della natura e i “paradigmi” della storia: il metodo del Machiavelli, Manduria 1981.
English abstract

The systematic attendance of ancient texts is claimed by Machiavelli in the dedication of the Principe, as a precondition, together with the experience of the ‘modern things’, which forms the core of what he wants to convey: the lesson [lectio] of Antiquity. Machiavelli, like many other ancient and modern authors, has certainly carried out a collection of preparatory materials to be used where necessary as quotations, as ‘flores’ (as Giovio said) for the preparation of his writings. He was not able to read Greek and to directly assimilate Greek authors, and so he read Herodotus and Thucydide through translations and anthological volumes. Undoubtedly, he had read, in whole or in part, a Latin translation of the Histories by Thucydides, but we do not know if he read it in one of the several manuscript copies, or in the Venetian 1485 printed translation by Lorenzo Valla. In Machiavelli’s writings we can find only few explicit quotations from Thucydides: two are listed in the Discorsi; the third, at the end of Book III of the Arte della Guerra, is perhaps a second hand quotation deduced from the reading of Gellius. It is clear that in Machiavellian writings multiple readings interact with his thought: a thought in which classical references, often intertwined, are the nourishment and inspiration, but not the substance of his work. Machiavelli assimilates these sources, filters them through his conceptual construction, and therefore ‘distorts’ them from their literal truth. Machiavelli is attracted by Thucydides because his work is all centred on a war, on its political effects and its phenomenology. Indeed, Thucydides’ Histories is a political treatise “dressed” as a history book: a political thought that inspired history and feeds itself of a great, emblematic, conflict.

keywords | Macchiavelli; Thucydides; Arte della guerra.

Per citare questo articolo / To cite this article: L. Canfora, Tucidide e Machiavelli, La Rivista di Engramma” n. 134, marzo 2016, pp. 167-186. | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2016.134.0002