“Trinacriis tumulis ditior euge, lapis”: il sarcofago di Andrea Guardi in memoriam del viceré Niccolò Speciale (1445)
Salvatore Arturo Alberti
Enghish Abstract
Qualche anno fa sono stato invitato dall’allora direttore[1] della Galleria Regionale di Palazzo Bellomo in Siracusa ad analizzare e studiare alcuni spezzoni di travi dipinte e degli elementi scultorei databili alla seconda metà del Quattrocento recuperati durante i restauri condotti, sotto la supervisione e per iniziativa di Paolo Orsi nei primi decenni del secolo scorso, nella Cattedrale di Siracusa (Alberti 2013, 329-339). Fine della ricerca, oltre che analizzare nello specifico i singoli monumenti, era verificare, per quanto possibile, l’esistenza di relazioni reciproche tra quegli elementi superstiti, e altresì se fosse possibile derivare, da quelle analisi e relazioni, ulteriori tracce circa la definizione volumetrica e di forma della Cattedrale al tempo in cui era Vescovo il catalano Gabriele Dalmazio di Sandionisio tra il 1471 e il 1511.
Nel corso di questo lavoro di ricerca che dura oramai da quattro anni mi sono imbattuto, tra gli altri, in un tema che era stato posto con forza da Hanno-Walter Kruft nel suo monumentale lavoro su Domenico Gagini (Kruft 1972). In questo lavoro Kruft rilevava analogie tra la cosidetta ‘Lastra Çabastida’ – un monumento funebre di Carrara bianco statuario, che deve non poco del suo fascino alla circostanza di essere stata scolpita da ambedue i lati (fig. 1) e che costituisce il principale oggetto del suddetto studio dedicato ai siracusani di Catalunja nel XV secolo – e un sarcofago frammentario, proveniente dalla chiesa di San Francesco in Noto Antica e collocato di recente in un nuovo allestimento nel museo civico netino. Kruft per primo ha proposto di riconoscere in questo monumento funebre, appartenuto a uno dei personaggi più importanti della Sicilia del XV secolo, il viceré Niccolò Speciale, la mano dello scultore toscano Andrea di Francesco Guardi (fig. 2).
Quanto sopravvive del sarcofago – la parte inferiore della lastra di copertura, raffigurante un cavaliere giacente con armatura (fig. 3); una delle due testate dell’urna con lo stemma degli Speciale (fig. 6); la lastra frontale frammentaria divisa in tre scomparti con fastigio a conchiglia lavorata a bassorilievo con al centro la Vergine ed il bambino (figg. 3, 4), al lato destro San Francesco ed al sinistro (sopravvive solo la testa) forse san Giorgio (secondo alcune ipotesi critiche si tratterebbe invece del volto di una santa: cfr. Donati 2015) – è stato ricomposto in una sala della sezione medievale del Museo Civico della Noto tardo barocca, allocato nei locali dell’ex Monastero di S. Chiara, per la cura appassionata di Maria Mercedes Barès, ricercatrice e oramai cittadina di Noto e la tenacia di Lorenzo Guzzardi, Direttore Onorario del Museo (Barés 2010, 67). L’elegante e pur meritevole presentazione e l’accurata ricomposizione (fig. 3) non riescono a dare conto della monumentalità del manufatto e della sua eccezionalità, rilevabile alla luce dell’esame di un documento di cui diremo più avanti, e delle novità che l’opera introduce nel panorama della scultura Siciliana sino a quel momento.
Fedelmente riprodotte risultano le misure descritte nel contratto di allocazione (v. infra) – per quanto possibile verificare dai limitati frammenti superstiti – e la scansione delle scene da rappresentare. Mancano i sostegni angolari, probabilmente mezze paraste, e i capitelli di coronamento. In quasi tutti i lavori di Andrea Guardi, con specifico riferimento ai monumenti funebri, i sostegni o le colonne lisce o scanalate sono sempre configurate come paraste più o meno alte, e di conseguenza i capitelli, pur nel rispetto degli stilemi dell’ordine, in genere il corinzio, risultano piatti. Codesti sarcofagi caratterizzati da mostre e scorniciature piatte hanno precedenti illustri, e sono incardinati nella tradizione toscana, anche se l’iconografia ci è nota soprattutto da riproduzioni pittoriche (ad esempio il sarcofago dipinto da Masaccio quale paliotto d’altare nella composizione della Trinità in Santa Maria Novella a Firenze) essendo sopravvissute ben poche sculture. Mette conto di sottolineare ancora come il defunto (un frammento di dimensioni ragguardevoli, ma pur sempre frammento) non giaccia su di un lit de parade ma sia rappresentato au vif , in piedi entro una nicchia scompartita da piatte cornici, caratterizzata da una doppia curvatura: piana all’inizio e più arcuata all’apice. Un artificio che rende possibile a chi guarda da lontano la lastra inclinata con il gisant di poter osservare i dettagli e in particolare il cagnolino che altrimenti rimarrebbe una presenza invisibile (figg. 5, 6, 15).
I resti frammentari del monumento a Nicolò Speciale vennero rinvenuti casualmente dal mezzadro Gaetano Rametta nella “carnaia” (cripta) sottostante alla cappella acquisita dagli Speciale nella chiesa di San Francesco, riemersa dal terreno durante i lavori per un fondo agricolo all’inizio del Novecento.
Sino alla pubblicazione di Kruft, gli studiosi che avevano indagato il misterioso monumento si erano resi portatori di varie ipotesi, ma nessuna conclusiva: Antonio Salinas, per primo, propose di ascrivere la paternità della lastra netina a Domenico Gagini (Salinas 1903), mentre Filippo Meli (Meli 1965, 4-6) finiva per trovare, nel monumento a Nicolò Speciale, moduli formali di ascendenza toscana (riferimenti a Mino da Fiesole, Andrea Bregno, Giovanni dalmata[2]) e sottolineava come “l’espressione formale della Madonna e del bambino ha assetto fiorentino, diremmo quasi derivato dalle terracotte smaltate robbiane”. Altri riscontri il Meli ritrovava tra la lastra Çabastida e la lastra tombale di Sicilia Aprile della Galleria Regionale di palazzo Abbatellis di Palermo (fig. 8), pervenendo alla conclusione di assegnare la paternità di ambedue a Francesco Laurana[3]. Il rumoroso affastellamento di nomi e situazioni congegnato dal Meli sembra avere l’unico scopo di costringere verso un solo obiettivo: supportare un’attribuzione al Laurana.
In effetti anche l’ipotesi del Kruft relativa al rapporto tra la siracusana ‘Lastra Çabastida’ e il sarcofago Speciale non può essere accolta, oltre che per motivi di stile, anche per ragioni di distanza geografica e cronologica nella realizzazione delle due opere[4]. Tuttavia le indicazioni del Kruft hanno il merito di aver suggerito la paternità ad Andrea di Francesco Guardi, che non solo non può essere negata, ma risulta confermata in maniera incontrovertibile anche dalla nuova sistemazione nella sede del museo civico di Noto, che consente di poter godere e studiare il monumento con comodità.
Sull’opera di Andrea di Francesco Guardi, citato nelle fonti anche come Andrea da Firenze, non esiste una vasta bibliografia e la sua attività spesso è stata sovrapposta a quella di Antonio Ghini (Cardarelli 2013) mentre un recente lavoro di Gabriele Donati (Donati 2015) offre un nuovo e assai approfondito profilo dello scultore oltre che un nutrito elenco di opere che sicuramente possono essergli attribuite; a queste si deve aggiungere da ultimo il contributo di Lorenzo Principi (Principi 2016) che amplia il catalogo di Andrea Guardi con la pala d’altare commissionata dal vescovo Carlo Fellapane, oggi murata nella facciata del Duomo di Policastro, e la tomba di Giulio Gallotto, all’interno dello stesso Duomo, che appare legata, per stile e tipologia, a quella Speciale. Scopriamo così che Andrea di Francesco Guardi si trovava a Napoli certamente nel quarto decennio del XV secolo e nel periodo compreso tra 1430 e il 1433, e poi tra il 1442 e il 1447, vale a dire in tutta la vicenda del trapasso nella guida del regno dagli ultimi istanti del governo angioino all’ingresso definitivo degli aragonesi guidati da Alfonso il Magnanimo. La grandiosa tomba di Ruggero Sanseverino, morto nel 1433, situata nella chiesa di santa Monica annessa al complesso di san Giovanni a Carbonara non è l’unica opera napoletana del Guardi, al quale andrebbe assegnato anche il portale esterno dell’oratorio con gli stemmi del citato Sanseverino e della moglie Covella Ruffo (fig. 10).
“Con quest’opera penetra a Napoli un altro aspetto della nuova scultura toscana del tempo [...]. A Napoli Andrea si dovette trovare assai bene, diventando lo scultore prediletto della grande aristocrazia del regno. In san Giovanni a Carbonara, […] Andrea completava, dopo il 1441 il sepolcro funebre del favorito di Giovanna II, Sergianni Caracciolo, assassinato nel 1432 […]. Ad Andrea spettano allora le sculture dei pilastri che serrano, al di sopra dei guerrieri-cariatidi, la struttura del sepolcro, rimasto probabilmente incompleto” (Abbate 2002, 167-168) (fig. 9).
Per il monumento netino, come detto certamente autografo, possono riscontrarsi non pochi elementi di congiunzione con i coevi lavori di Andrea Guardi, in particolare in quelli napoletani come il Mausoleo di Ladislao di Durazzo (figg. 11, 12) o il Sepolcro di Ruggero Sanseverino; e per certi modi di tracciare e naso ed occhi come nella Vergine Annunziata del Sepolcro di Giovanni Caracciolo; e ancora di più nel panneggio e nell’aureola, per tacere dell’espressione del volto, della Madonna con Bambino del Museo diocesano di Piombino (fig. 13). Né vanno sottaciuti i riferimenti a Michelozzo ed a Donatello e le raffinate e sottili ricerche prospettiche evidenti nella curvatura impressa alla cornice di mezzo delle esedre entro cui sono rappresentati la Vergine e i santi Francesco e Giorgio.
L’eccezionalità dell’artista chiamato a realizzare l’opera si spiega con l’alto profilo culturale e politico della committenza. Niccolò Speciale fu un homo novus dell’età umanistica: uno di quegli uomini che, partiti dai gradini più bassi della scala sociale, raggiungono grazie alle proprie capacità il vertice più alto del potere. Il Nostro ha rivestito per ben tre lustri la carica di Vicerè e ha partecipato, con ruolo di primo piano, alla definizione della figura storica del suo Re Alfonso d’Aragona. La famiglia, come per altro confessa il cognome Speciale che vale ‘speziale’ o aromatario, non vantava origini di chissà quale lignaggio, ma si era costruita una certa solidità anche economica entrando a far parte della struttura burocratico-amministrativa del regno. L’omonimo, e molto probabilmente avo, Niccolò Speciale autore del De gestis Siculorum sub Frederico rege et suis, noto anche come Historia Sicula, era entrato nei ranghi dell’amministrazione di Federico II d’Aragona; faceva parte di quel:
“ceto dei funzionari, che possedeva le competenze culturali e professionali per operare negli uffici amministrativi e nelle cancellerie, si assumeva dunque anche il compito, non secondario, di ‘scrivere la storia’, e lo faceva, nel Trecento come nel Quattrocento, avendo come destinatario (spesso anche committente) il potere monarchico. Questi funzionari del resto operavano con fedeltà al servizio della Corona, ma erano anche espressione di un’élite urbana che alla monarchia, nel corso dei due secoli, richiedeva l’approvazione di capitoli e privilegi locali. Non di rado, peraltro, essi svolgevano compiti amministrativi sia nelle universitates sia negli uffici centrali del regno, costituendo così un canale privilegiato di comunicazione fra città e corte” (Colletta 2013, 5).
Sul discendente, il Niccolò Speciale del nostro monumento, il Canonico Antonino Mongitore pubblicherà nel 1707 una nota nel secondo volume della sua Bibliotheca, sottolineandone soprattutto l’opera di legislatore: Mongitore registra infatti “Ordinationes super juribus solvendis Officialibus Civitatis Messane facta per d. Nicolaum de Speciali Proregem” e “Capituli, e statuti ordinati, e promulgati per lu Magnifico, e potenti Signori misser Nicola Speciali Vicerè de lo regno di Sicilia, miso per Re Alfonso sopra la reformationi di li Cabelli de la Regia Secretia de la Citate di Palermo”. Ambedue i testi sono entrati a fare parte dei Capitula Regni. Ma è con la redazione nel 1436 dell’Epistola de genologia regum che Niccolò entra a pieno nel novero degli storici e dei letterati della corte di Alfonso.
Quale segno dell’alto profilo raggiunto in seno all’aristocrazia del regno, Niccolò Speciale fa dunque costruire in Noto, per sé e la famiglia, un grande palazzo e una cappella gentilizia in San Francesco (fig. 14). Nel testamento assegna alla chiesa 50 onze: sebbene si tratti di una cifra inferiore rispetto ad altri lasciti, negli anni precedenti Niccolò non aveva fatto mai mancare il suo costante sostegno, oltre a beni immobili e redditi di varia natura per incrementare la dote della cappella. Il palazzo, con il vincolo del completamento, la cappella e il feudo di Castelluccio furono infine concessi in eredità al figlio maggiore Pietro, quale nucleo centrale dei possedimenti della famiglia e segno identitario della stessa (Mineo 1983, 285-371). Pietro, erede e continuatore di Niccolò anche nei ranghi dell’Amministrazione Pubblica, rivestì infatti la carica di Pretore di Palermo, e in tale veste diede inizio alla costruzione del Palazzo poi detto delle Aquile e sede dell’amministrazione cittadina; divenne poi di ‘Portulano del Regno’. Volendo espandere ancor più di quanto non avesse fatto il padre la potenza economica e politica della famiglia, acquisì le baronie di Alcamo e di Calatafimi. Se dobbiamo assegnare il giusto credito e conto all’orgogliosa rivendicazione a se stesso delle due cappelle in San Francesco a Noto e in San Francesco a Palermo, dal suo testamento dell’ottobre 1474 emerge il profilo di un uomo colto che leggeva i sonetti del Petrarca (Bresc 1971, 194-195) e l’opera di Curzio Rufo, che compulsava il Tesoro dei Poveri di Pietro Ispano (Papa Giovanni XXI) e sapeva di latino ma anche di catalano e di francese, ma soprattutto coltivava l’italiano quale lingua materna (Bresc 1971, 252).
A Pietro Speciale è dunque da ascrivere la committenza ad Andrea Guardi del monumento in memoriam per il padre. Opera eccezionale, si è detto, per l’artista chiamato a eseguirla, ma anche per l’impiego di un materiale mai utilizzato in precedenza nel corso del Quattrocento per la scultura monumentale in Sicilia: il marmo bianco di Carrara. In verità l’isola, pur ricca di pietre calcaree lucidabili e di giacimenti di alabastro e diaspro variamente pigmentato – comunque di limitata consistenza – è priva di marmi propriamente detti, adatti alla scultura al pari di quello delle Apuane . Quando in qualche sporadico caso si è utilizzato il marmo bianco per la realizzazione di rilievi o di partiti ornamentali si è fatto ricorso a materiale di spolio, cioè a marmi archeologici. Non tenendo conto, qui, delle opere di età classica e di quelle realizzate sotto i normanni, unica e isolata eccezione di un impiego precoce appare la madonna di Trapani attribuita a Nino Pisano e scolpita attorno agli anni Sessanta del Trecento. Di due altri manufatti in marmo – l’Acquasantiera della chiesa della Madonna della Dajna di Marineo e la Santa Caterina della Galleria regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis di Palermo, proveniente da Salaparuta – occorrono ulteriori approfondimenti, potendosi trattare del lavoro di scultori itineranti, più che di prodotti di importazione: nel qual caso andrebbero chiarite le modalità di acquisizione del materiale. Questione, quella della importazione del marmo, che si ripropone per il monumento più grande, per dimensioni, del primo Quattrocento siciliano: il portale della Cattedrale di Messina che, attribuito ad Antonio Baboccio da Piperno almeno per la ideazione, richiese l’approntamento di un vero e proprio cantiere durato parecchi decenni, al punto che nel 1468 venne incaricato del completamento Pietro de Bonitate, che accettò l’incarico con l’obbligo di seguire fedelmente i disegni forniti dai marammieri del Duomo. In detti sparuti casi ci troviamo entro orizzonti culturali che vanno dal gotico catalano al più aggiornato tardogotico internazionale, che nei primi anni del Quattrocento sembra avere Milano come centro e da cui sarebbe partito lo stesso Antonio Baboccio, per Napoli prima e per Messina dopo. In tutti gli altri casi, per la materia della scultura, nel senso di uso precipuo di materiale lapideo, si è fatto ricorso alle calcareniti compatte, di cui è ricco il territorio degli Iblei o la pietra locale, sia di natura calcarea che flyschioide. Vero è che altri archivi – oltre quelli palermitani – che presentino larga sopravvivenza di materiali del Quattrocento non ne sopravvivono poi molti, anzi quasi nessuno: non ci è dato sapere, di fatto, dell’esistenza di alcun monumento in marmo nella cui epigrafe si riporti una data anteriore al 1445. Fermo restando che nell’ambito degli studi che si rivolgono a un passato lontano le sorprese sono spesso dietro l’angolo, a oggi non esiste dunque in Sicilia opera di scultura in marmo bianco più antica di quella di Noto riferita a Niccolò Speciale.
Oltre a costituire il primo monumento in marmo bianco del Quattrocento siciliano, mediante il sarcofago Speciale vengono veicolati i primi elementi del linguaggio umanistico e rinascimentale, sia in relazione al modellato delle figure che in relazione al nuovo linguaggio architettonico di ascendenza toscana, come declinato dagli emuli di Michelozzo e Donatello. L’affermazione può apparire impegnativa ma costituisce un fatto la quasi totale carenza di riferimenti a “sculptor” o a “marmorarius” negli atti relativi a committenze artistiche sino agli anni Sessanta del XV secolo almeno per Palermo: “Avant l’arrivée massive des sculpteurs lombards après notre limite cronologique, il n’est pas de sculptor, ni de marmorarius” (Bresc-Bautier 1979, 142).
Una pergamena con un contratto di allocazione relativo al monumento, rintracciata nel 1977 da Enzo Virgili presso l’archivio Arcivescovile di Pisa e pubblicato sull’omonimo Bollettino (Virgili 1977, 189-194)[5], conferma i dati relativi alla committenza e alla mano dell’artista. L’atto risulta rogato a Napoli il 13 Luglio 1444 da Andreas de Afelatio “ad contractus iudex” e da Franciscus de Athenasio “puplicus […] notarius” tra il magnifico milite Pietro Speciale e Andrea Francisci Guardi de Florentia, “magistro sculpitore in marmoris”. Andrea si obbligava a:
“facere et laborare […] cantarum seu sepulturam marmoream ad omnes suas expensas cum colupnis quinque longitudinis palmorum quatuor pro quolibet capitellis ibidem ponendis non computatis in longitudine predicta, cum vase seu pedamento et leonibus marmoreis, cum cassa longitudinis palmorum octo, altitudinis palmorum trium et medii, nec non copertorio desuper dicta cassa cum omnibus illis ymaginibus sublevatis et sculpitis iuxta modum et formam cuiusdam designi per partes ipsas coram nobis exhibiti.”
Il cantaro o sepolcro si sarebbe dovuto consegnare al committente Pietro Speciale o a un suo rappresentante il marzo successivo, ossia nel 1445, senza alcuna possibilità di aver riconosciuta una qualsivoglia dilazione. Per il costo del marmo e per il compenso del lavoro Pietro Speciale s’impegnava a corrispondere 80 ducati equivalenti a 35 carlini d’argento gigliati: degli 80 ducati, 20 venivano anticipati all’atto quale rimborso per l’acquisto del marmo, 20 alla metà del lavoro, e i restanti 40 alla consegna del lavoro. Il compenso comprendeva altresì l’onere per Andrea di aiutare a stipare i pezzi del monumento nella nave che avrebbe dovuto trasportarlo a Palermo. Il Virgili, che nel breve scritto di commento mostra di non conoscere il volume del Kruft su Domenico Gagini, si rivolse alla allora Soprintendenza ai Beni Artistici di Palermo per avere notizia circa l’esistenza di un monumento a Niccolò Speciale. Da quegli uffici gli venne risposto che non c’era notizia di un monumento Speciale esistente a Palermo e attribuibile all’iniziativa di Pietro se non quello di cui si conserva il coperchio nella chiesa di San Francesco a Palermo, ma fatto erigere in onore del figlio Antonello morto in giovane età. Del monumento di Antonello, di cui si conosce il contratto di allocazione datato 1463 – quasi 20 anni dopo quello di Niccolò – si conosce anche il nome dello scultore incaricato del lavoro, ossia il bissonese Domenico Gagini. Il povero Virgili a quelle risposte non poté che concludere che il monumento che Andrea di Francesco Guardi avrebbe dovuto scolpire a Pisa e inviare a Palermo o non era più, o non era mai stato. Tutti lo cercarono a Palermo sulla base del luogo di consegna indicato nel documento di allocazione, e a nessuno venne in mente che sarebbe anche potuto essere trasportato a Noto o in altro luogo collegato agli Speciale. L’equivoco ha preso piede al punto da generare le più fantasiose ricostruzioni:
“Il lavoro del Guardi, i cui frammenti si conservano nella Biblioteca comunale di Noto, fu realizzato a Pisa nel corso di quello stesso anno (1444); non incontrò tuttavia i favori del viceré che, nel 1463, affidò la composizione del monumento a Domenico Gaggini.” (Sorce 2003, 4)
Le connessioni con il documento scoperto e pubblicato dal Virgili trovano conferma nel tratto di epigrafe incisa sul listello superiore che nella parte superstite è possibile leggere: MCCCCXXXXIIII MAG […] SPECIALI […]; da due altri frammenti conservati al Museo Salinas di Palermo e per la testimonianza di Antonino Mongitore la si può ricostruire come segue: MCCCCXXXXIIII MAGNIFICUS DOMINUS NICOLAUS DE SPECIALI OBIIT XIII FEBRUARI. Vi era un’altra epigrafe incisa su di una lastra stretta e lunga (fig. 16) la cui localizzazione all’interno dell’impaginato del monumento è da chiarire, che così recitava:
“Magnificus Specialis heros iacet hic Nicolaus/Trinacriis tumulis ditior euge, lapis/ Divinos cineres serva speciale sepulcrum/Sicelidum specimen, tam speciale decus/ Nestor consilio, quamvis virtute Catonem/ hunc Quintum Fabium pro gravitate puta/Proregemque tribus lustris videre Sicani/ Nam totidem Regis substulit ille vices”.
Il canonico Mongitore precisa che l’iscrizione era visibile prima del terremoto del 1693. La stesura del testo dell’epigrafe potrebbe essere del Panormita, amico di Niccolò e poi di Pietro, e noto biografo di Alfonso il Magnanimo. Perché comunque il monumento possa essere apprezzato, pur tenendo conto delle molte lacune, la lastra sepolcrale con il gisant andrebbe riproposta con una inclinazione di almeno 30°, come è possibile rilevare e misurare analizzando il piano inclinato del bordo di prospetto della lastra e la deformazione voluta della cornice. La forte inclinazione della lastra sommitale, insieme ad altri accorgimenti prospettici, porta a immaginare la cassa sollevata da terra in maniera rilevante, come per altro suggerito dalla presenza documentata dal contratto di allocazione dei leoni stilofori in marmo posti alla base a sostegno della cassa, in modo da potere essere vista sufficientemente da lontano, oltre la transenna della cappella. Bisogna fare caso al termine utilizzato per definire il coperchio nel contratto di allocazione: nel contratto con riferimento al coperchio si parla infatti di immagini “sublevatis”. Il termine potrebbe tradursi letteralmente con immagini “sollevate”, ossia potrebbe intendersi come figure ad alto rilievo, ma ritengo che debba rendersi piuttosto con “inclinate” o sollevate da un lato, a conferma di quanto suggerisce il rilevo del bordo del coperchio.
In un’ipotetica ricostruzione del monumento la posizione dell’epigrafe pone qualche problema. Da quanto sopravvive è facile ipotizzarne la lunghezza che potrebbe coincidere con quella del pannello centrale. Quanto alla posizione, due sono le ipotesi possibili: o al disopra del pannello centrale, oppure al di sotto. Poiché nel contratto viene fatto specifico riferimento alla base (“vase seu pedamento”) sorretta dai leoni quale elemento percepito quasi in maniera staccata dal resto, propenderei per collocare l’iscrizione al di sotto del pannello centrale, magari separata da quest’ultimo da una cornicetta. Se posta sopra, per altro, le due epigrafi avrebbero finito di necessità per sovrapporsi e confliggere dal punto di vista visivo e compositivo. Si tratterebbe di un espediente a cui Andrea Guardi ha fatto ricorso nel monumento funebre dell’arcivescovo Pietro Ricci situato nel Duomo di Pisa e ancora nella tomba monumentale di Vanni ed Emanuele Appiani nella chiesa di san Donato a Scalino (fig. 17).
Se l’opera di Andrea Guardi introduce a Napoli elementi e aggiornamenti della scultura toscana, come dovremmo valutare l’impatto del monumento Speciale nel panorama artistico siciliano che, al contrario del mondo delle Belle Lettere, sembra a quella data refrattario a ogni novità proveniente dalla Toscana? Quando, vent’anni dopo, sarà dato incarico a Domenico Gagini di realizzare l’altro monumento Speciale, quello di Palermo in San Francesco, sarà come aprire la porta del tesoro di Aladino, da cui usciranno innumerevoli manufatti di marmo bianco o del più raro alabastro locale, al punto che non vi sarà più chiesa, cappella, palazzo e casa, di una certa considerazione, per non dire delle piazze, privi di un qualche manufatto di marmo. In ogni caso, forse proprio per i legami stretti con la classe aristocratica legata alla dominazione perdente, Andrea dal 1447 non è più rintracciabile a Napoli, e non parteciperà al cantiere dell’arco di trionfo di Alfonso d’Aragona organizzato e diretto da Pietro da Milano e per il quale era stato interpellato Donatello. Ma attorno a quegli anni roventi non è difficile immaginare Niccolò Speciale, anche a motivo della carica rivestita, in giro per la Campania e nella città partenopea, sempre accanto al Re o incaricato di una qualche delicata missione. Non è da dimenticare una delle più antiche missioni, svoltasi all’inizio del 1433: il Viceré guidò la delegazione inviata da Alfonso a Giovanna II di Napoli, composta anche da Gilabert Çarçicera, Gispert Desfar e Battista Platamone, che aveva il compito di richiedere la revoca dell’adozione di Luigi D’Angiò a discapito del Magnanimo. Negli anni successivi, superata la crisi determinata dalla sconfitta nella battaglia navale al largo dell’isola di Ponza, nella quale furono fatti prigionieri il Re, i suo fratelli e il Nostro, ritroviamo Niccolò Speciale con frequenza e per lunghi periodi, insieme al figlio Pietro, al fianco del Re a Gaeta e poi nella Napoli appena conquistata, in qualità sempre di fidato consigliere.
Orgogliosissimo quanto competente e soddisfatto mecenate, consapevole di avere introdotto potentemente in Sicilia il nuovo linguaggio artistico e di averlo protetto e valorizzato, a Pietro Speciale si attestano dunque l’iniziativa per la realizzazione del primo monumento in marmo bianco di Carrara del XV secolo in Sicilia e la successiva chiamata a Palermo di Domenico Gagini con l’incarico di scolpire il monumento per il figlio Antonio, prematuramente scomparso, ma anche la protezione accordata a Francesco Laurana: fu Pietro Speciale infatti a impedire che la Madonna detta poi “Libera inferni” venisse portata via da Palermo. Pietro divenne a tal punto geloso di quelle ottime opere che davano lustro alla famiglia e al suo personale gusto da desiderare e ordinare di essere sì seppellito in una delle due cripte di proprietà della famiglia, ma né con il padre né con il figlio, così da evitare che i preziosi, nuovissimi, monumenti funerari potessero in alcun modo essere toccati, e per conseguenza scongiurare il rischio che potessero essere, anche per accidente, profanati (Rotolo 1978, 44-45). Le forme, i protagonisti, le vicende che ruotano intorno al sarcofago Speciale confermano dunque, una volta di più, l’icastica formula con cui Andrè Jolles ha definito le origini dell’età della Rinascita: anche in Sicilia “il Rinascimento ebbe la sua culla in una tomba”.
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Note
[1] L’iniziativa di intraprendere ulteriori ricerche su alcune figure dei Catalani di Siracusa nel Quattrocento è stata della Dottoressa Carmela Vella che allora dirigeva la Galleria di Palazzo Bellomo e che qui ringrazio per l’amicizia e la stima che non mi ha mai fatto mancare. Il lavoro è proseguito con l’aiuto dell’Arch. Giovanna Susan che è succeduta alla Dott.ssa Vella nell’incarico. Gli incoraggiamenti e le sollecitazioni del Dott. Lorenzo Guzzardi, attuale direttore del Polo regionale di Siracusa per i siti culturali – Galleria regionale di Palazzo Bellomo, mi inducono a portare a compimento il lavoro in tempi brevi.
[2] Mino da Fiesole nato a Poppi nell’agosto 1429 venne immatricolato all’arte della pietra e del legname di Firenze nel 1464; di Andrea Bregno, nato probabilmente nel 1418 a Righeggia, la prima opera nota è il rilievo con il Cardinale Nicolò da Cusa, san Pietro e un angelo del 1464; Giovanni Dalmata è nato a Traù in Dalmazia nel 1440 ed è giunto a Roma ove collaborò sia con Mino da Fiesole che con Andrea Bregno non molto prima del 1464. Anche a voler tenere in conto di una capacità ed una intelligenza non comune nell’individuare, apprezzare e fare proprie le novità generate da scultori di una generazione successiva e più giovane da parte di Andrea Guardi, permane la durezza del dato cronologico: tutti e tre gli scultori, indicati come riferimento possibile, iniziano l’attività di rilievo a partire dalla metà degli anni sessanta del XV a distanza, quindi, di almeno quattro lustri dalla realizzazione del monumento Speciale.
[3] Il sarcofago Speciale è datato 1445, F. Laurana (Lo Vrana, Dalmazia 1430 circa) arriva in Sicilia nel 1468, la faccia su cui è intagliata la figura del cavaliere della ‘Lastra Çabastida’ è del 1472, quella di Sicilia Aprile è del 1495. Anche lavorando di fantasia è impossibile attribuire a Laurana il monumento Speciale perché avrebbe dovuto comporlo alla età di forse neanche 15 anni. Se poi ci si volesse limitare a un più comodo riscontro di stile risulterebbe veramente clamoroso che l’opera realizzato per Sicilia Aprile, a distanza di 50 anni dal monumento Speciale, possa avere influenzato in alcun modo la fattura di quest’ultimo.
[4] Il lavoro d’intaglio della lastra è stato svolto a Palermo (Alberti c.s.; Colesanti 2006, 239-40) da uno scultore – di cui si ignora ancora il nome – nella tarda primavera del 1472. Gli ultimi lavori di cui si ha notizia tra quelli riferibili ad Andrea Guardi, risalgono invece alla fine degli anni Sessanta del XV secolo: nel 1476 lo scultore risulta infatti già defunto (Fanucci-Lovitch 1991, 12-s.).
[5] Colgo l’occasione per ringraziare la dott. Jenny Del Chiocca, Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa, che nel giro di qualche ora, dalla mia richiesta, ha spedito l’articolo del Virgili e la relativa appendice documentaria.
English abstract
Found by chance at the beginning of the last century among the ruins of the church of San Francesco in Noto Antica (Sicily), the remains of what was once the sarcophagus of powerful Viceroy Niccolò Speciale (d. 1444) have been only recently reassembled in a hall of the Civic Museum of modern Noto. Among the many who studied the monument, only H.W. Kruft seems to point the way for the identification of the author, Andrea Guardi, and place it within an appropriate chronological and cultural context, but his scholarly work remained unheeded for decades. This paper aims at reconstructing the framework of the creation of the monument, of its outline and of those figures who had the visionary power to understand the new language of Renaissance art that sprung in Florence, and transferred it to Sicily, still dominated by the delicate shapes of international Gothic.
keywords | Warburg; Iconography; Gesture; Sarcophagi.
Per citare questo articolo / To cite this article: S.A. Alberti, “Trinacriis tumulis ditior euge, lapis”. Il sarcofago di Andrea Guardi in memoriam del viceré Niccolò Speciale (1445), “La Rivista di Engramma” n. 139, novembre 2016, pp. 81-97 | PDF of the article