"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

145 | maggio 2017

9788894840209

“Desdemona, noun, See Othello”

Giulia Niccolai: Gender&Neoavanguardia

Alessandro Giammei

English abstract

È difficile trovare parole di Giulia Niccolai nei cinque libri che, pubblicati tra 1969 e 1980, raccolgono la poesia sperimentale di Giulia Niccolai, una figura tra le più importanti e originali della Neoavanguardia italiana. In quel decennio di comico e quasi scientifico corpo a corpo con la lingua, la lingua medesima è sempre altrui, presa in affitto, copincollata da libri di altri e altri idiomi o ricalcata, trasferita da matrici scelte con cura, come accade ai caratteri letraset grattati sulla pagina. Lo stile dell’autrice (l’autrice stessa, del resto) si ricava dunque per sottrazione, la concretezza del concretismo è assoluta. Senza divincolarsi dalla linea portante dell’avanguardismo coevo (dismissione del soggetto, dominio del significante, evasione dai format editoriali industrializzati, diserzione della “realtà matrigna” dei novissimi e via dicendo) Niccolai ha condotto un esperimento suo proprio, volontariamente emarginato, ai limiti dell’assenza. Lo ha fatto, come tenterò di mostrare in queste righe, perché donna, in un contesto culturale di impenitente patriarcato e paternalismo (Re 2013, 319) – si cerchino, per dire, i nomi di Stein, Cather o persino Woolf nell’indice di Il romanzo sperimentale. Cosa direbbe Adriana Cavarero di una simile scrittura senza voce? Come classificherebbe Luisa Muraro una tale cosciente, costante e argutamente lighthearted rivendicazione interna della propria differenza?1

Per capire una vicenda creativa del genere, mi pare, è necessario prestare attenzione appunto ai margini, ai dintorni, ai limiti del testo. La citazione che dà il titolo a questo saggio proviene ad esempio dall’epigrafe del primo libro di poesia di Niccolai, che a sua volta proviene dal Webster’s New Collegiate Dictionary. Le due pagine d’apertura di quell’esordio stampato dalle mitiche edizioni Geiger, Humpty Dumpty, dialogano direttamente coll’estratto dal dizionario, che integralmente si presenta come segue:

“A term whose meaning is recorded under the entry of some other term is (if it seems to require separate entry at its own alphabetical place) entered thus: | Desdemona, n. See Othello”.
(Niccolai [1969] 2012, 45)

Fig. 1 | Giulia Niccolai, The Red Queen, p. 207. “Alice’s Adventures in Wonderland and Through the Looking Glass” Edited by Martin Gardner. Penguin Editions. All following quotes, ibid., e Dictionary. Composizione linotype fotoriprodotta e letraset su carta fotoriprodotto. Da Humpty Dumpty, Geiger, Torino-Mulino di Bazzano 1969, pp. 8-9. © 2017 Giulia Niccolai.

L’abbrivo dell’esistenza poetica dell’autrice in questione, nel segno di Lewis Carroll, è dunque una presa in giro della massima autorità del logocentrismo, di cui si mostra il nonsenso attraverso una divertente spia significativa: Desdemona meriterebbe appena una entry al suo posto nell’ordine alfabetico, ma non una voce (pun intended). Su di lei, si veda Othello.

Il corrente destino enciclopedico di Niccolai stessa non è molto distante, e conferma forse l’utilità di questo articolo: aprendo la sua voce su Wikipedia (la consulto nel febbraio 2017) si trova una pagina scandita cronologicamente dal rapporto con Adriano Spatola, definito in termini del tutto sentimentali più che di consonanza intellettuale e creativa. L’analogia tuttavia si ferma qui, giacché se il websteriano “Niccolai, See Spatola” funzionasse alla lettera si resterebbe piuttosto delusi: la pagina di lui relega infatti semmai una notizia “sulla sua separazione dalla Niccolai” alla sezione ‘Curiosità’, insistendo sulla presunta canzone a riguardo di Francesco Guccini che invece, nella pagina di lei, chiude la sezione biografica, fungendo insomma da esito totalizzante della sua vita.

Una conferma preliminare di quanto fruttuoso possa essere lo scandaglio dei margini per capire l’implicita critica gender di certe soluzioni apparentemente solo legate all’ironico sperimentalismo formale di Niccolai è facilmente riscontrabile seguendo la fortuna interna dell’epigrafe di Humpty Dumpty attraverso i libri successivi. Otello e Desdemona, col loro nonsensico rapporto di filiazione adamitica imposto dal Webster, ricompaiono infatti con disarmante puntualità proprio alla fine dell’itinerario sperimentale avviato nel '69. L’ultima sezione del volume Feltrinelli che, dodici anni dopo, coronerà questa prima fase della produzione di Niccolai (la fase del Mulino di Bazzano, la più decisamente sperimentale e verbovisiva, chiusa appunto dal’uscita di Harry’s Bar e altre poesie) include infatti un componimento translingue, GN IS HAPPY, in cui la convergenza enciclopedica messa alla berlina è improvvisamente compresa e accolta, come in una rivelazione:

“Mi sai muovere mi sai commuovere (non avevo mai capito prima d’ora che Otello e Desdemona sono la stessa persona). In Inglese 

YOU KNOW HOW TO MOVE ME”
(Niccolai [1980] 2012, 203).

Fig. 2 | Giovanni Anceschi, Copertina di Giulia Niccolai, Singsong for New Year’s Adam and Eve, Geiger, Torino-Mulino di Bazzano 1982. China su carta fotoriprodotta. © 2017 Giovanni Anceschi & Giulia Niccolai.

Otello e Desdemona infine coincidono davvero: l’una entra nell’altro come ‘muovere’ in ‘commuovere’ non solo nell’inclusione morfologica italiana, ma anche nella coincidenza semantica dell’equivalente bicefalo inglese to move. Mostrerò a breve quanto letteralmente si possa leggere una simile inclusione. L’intuizione lessicale, così presentata nella silloge di transizione Prima e dopo la Stein, va però innanzitutto collegata alla sua più chiaramente compiuta versione nell’ultimissimo libro geiger dell’autrice: l’estremo opposto, cronologicamente, di Humpty Dumpty nel catalogo delle edizioni indipendenti che Niccolai stessa aveva fondato e co-diretto per tutti gli anni Settanta. Tale libro, Singsong for New Year’s Adam & Eve – spesso trascurato perché mai incluso in successive raccolte e antologie – rappresenta infatti un passaggio fondamentale: è il primo scritto a Milano e solo stampato al Mulino, il primo a introdurre esplicitamente l’esperienza autobiografica di chi scrive nel piano del dicibile, il primo a mettere in scena quel rovello d’autoscopia e collezione di coincidenze che evolverà, in parallelo a un percorso filosofico buddista, fino all’invenzione del Frisbee, moralità poetica barzellettistica che ancora domina le scritture della poetessa tre decenni più tardi (v. ad esempio Niccolai 2016).

In un saggio di qualche anno fa ho inquadrato questo passaggio d’inizio anni Ottanta nella formula “from AS to IS” (Giammei 2013, 61-64), adoperando un gioco linguistico che compare sia in Singsong che in Prima e dopo la Stein – due sillogi, d’altronde, già chiaramente caratterizzate dalla liminarità nell’evocazione del calendario esausto da una parte e, dall’altra, dell’incontro con Stein come, per usare un termine di Niccolai stessa, “pietra miliare” (Niccolai 1997, 171). Il gioco, che contrappone la particella comparativa as alla terza persona di essere is (e che dunque segnala una transizione dall’imitazione all’essenza, dalla parodia all’affermazione, dall’interposizione alla presa di posizione), ha evidentemente una segreta controparte biografica: nella poesia più celebre di Harry’s Bar, l’eponima appunto, Niccolai dichiara “voglio del gin perché sono GN” (Niccolai [1980] 2012, 159) e altrove, nelle ballate dedicate ad amici e compagni di strada, i nomi sono ridotti a sigle capaci di generare pseudo-etimologie e acrobazie microsemantiche come quella di un Emilio Villa “EV” intellettualmente alto come l’“Everest” e oscuramente crepuscolare come un’“Evening” (Niccolai [1977] 2012, 145, enfasi nell’originale). Con simili regole è facile intuire l’esito della partita: AS, oltre a rappresentare una stagione conclusa di ‘sperimentalismo del come’, è anche Adriano Spatola, ingombrante controparte mentale e materiale della svolta post-politica e post-punk di Tam Tam (sul rapporto tra i due, v. Niccolai, Arcari 2015), mentre IS è anche Ian Simpson, l’artista che ha collaborato e convissuto con Niccolai negli anni Ottanta, l’Adam di Singsong. Come dicevo, le radici di un simile passaggio di stile e consapevolezza da AS a IS sono chiaramente esibite nel libro dell’'82, in cui una sorta di esplorazione di personali intertestualità interne attorno ai protagonisti della tragedia shakespeariana culmina con l’originale rivelazione in forma, ancora una volta, di un concretismo morfologico al limite del gioco enigmistico.

Fig. 3 | Giulia Niccolai, «I want to tel Giorgio…, composizione linotype fotoriprodotta. Da Giulia Niccolai, Singsong for New Year’s Adam and Eve, Geiger, Torino-Mulino di Bazzano 1982, p. 33. © 2017 Giulia Niccolai.

Tralascio qui i possibili riferimenti al Cassio di Manganelli, all’“albo versorio” e al “negro semen” del più antico testo conosciuto scritto in volgare italiano (e, in generale, in una lingua romanza), e alla novella boccaccesca di Alibech, trasposta sullo schermo da Pasolini nel ’71, in cui l’atto erotico è autorizzato comicamente dal piacevole malinteso per cui coinciderebbe col “rimettere il diavolo in Inferno” (Boccaccio, Decameron III, 10). Per concludere questa rapida perlustrazione introduttiva dei margini della produzione più sperimentale di Niccolai mi interessa invece soprattutto sottolineare la rappresentazione del proprio ruolo di autrice come, al contempo, carta bianca ricevente di un inchiostro nero maschile e agente (demone) in un contesto passivo (inferno): la compenetrazione è doppia, e l’Eva che nasce dalla costola di Adamo si fa infatti – come nella giocosa narrativa di Singsong fino alla pagina più su riprodotta – vero motore dell’azione, vera protagonista. D’altronde sulla stessa pagina, menzionando la prefazione a Harry’s Bar di Manganelli in cui è definita una “Sherezade impazzita” (Manganelli 1981, 3), Niccolai ammette senz’altro di essere stata novellatrice per interposta lingua, organizzatrice di trame altrui nei mille e uno esperimenti degli anni Settanta:

“Am I not always telling things that others have allready [sic] told and go on telling each other in my tales?”
(Niccolai 1982, 33)

La mia ipotesi è che la marginalizzazione critica subita da Niccolai, esemplificata dalla collateralità inflittale ancora oggi dalla pagina Wikipedia, non sia stata, paradossalmente, una condanna frustrante, quanto piuttosto una condizione di vantaggio accolta con consapevole creatività: un fatto extraletterario, politico nel senso più assoluto del termine, che è diventato parte della sua poetica come un divertito segreto, senza poggiarsi a espliciti posizionamenti2. Più che rivendicare una posizione diversa, Niccolai ha fatto della sua stessa subalternità una funzione primaria del suo metodo sperimentale e un tema di ricerca, sforbiciando con leggerezza i garbugli teorici della poesia militante sua contemporanea e puntando a soluzioni ironiche che fanno pensare a tendenze ben più recenti del femminismo artistico-letterario, come la third way degli anni Novanta (v. Gillis, Howie, Munford 2007). Lo scopo di questo articolo non è dunque quello di assorbire la poesia visiva di Niccolai nel campo della letteratura femminista, applicandovi un filtro teorico di gender-studies, ma piuttosto quello di partire dall’analisi di testi e di tecniche compositive per mostrare l’originalità delle soluzioni dell’autrice sia nel panorama della scrittura di genere che in quello più ampio della sperimentazione verbovisiva italiana.

Come dimostrato dalla fortunata serie televisiva britannica Sherlock, non è impossibile per un assassino scomparire dalla scena del delitto senza mai abbandonarla. Nel penultimo episodio dello show BBC – particolarmente originale rispetto ai romanzi di Conan Doyle, a differenza di tutti gli altri – il detective di Baker Street deve sventare un delitto imminente nel corso delle nozze del dottor Watson, fermando appunto un criminale invisibile capace di colpire in pubblico senza essere riconosciuto da nessuno dei testimoni. Persino nel mezzo di un popoloso panopticon come il matrimonio, documentato da centinaia di fotografie, il colpevole riesce infatti a passare completamente inosservato nascondendosi in piena luce. Naturalmente, tuttavia, il genio di Sherlock intuisce presto l’astuto quanto elementare trucco: il volto da incriminare non è tra quelli fotografati perché l’assassino è proprio il fotografo, invisibile spettatore mascherato dal suo ruolo stesso.

Fig. 4 | Giulia Niccolai, immagini dal terzo convegno del Gruppo 63 (Palermo). 1965. Fotografie fotoriprodotte nel volume N. Balestrini, A. Cortellessa (eds.), Il Romanzo Sperimentale. Col senno di poi, L’Orma, Roma 2013, p. 8. © 2017 Giulia Niccolai.

Ebbene, ci vuole un paradigma indiziario alla Sherlock Holmes per individuare Giulia Niccolai nell’iconografia del Gruppo 63, giacché nelle iconiche foto dei primi convegni (in parte riprodotte nella riedizione di Il romanzo sperimentale: Balestrini, Cortellessa 2013, 5-8) l’autrice si trova, appunto, dietro alla macchina fotografica. Ai margini sin dai primordi, Niccolai ha infatti notoriamente avuto il primo accesso al mondo dell’arte come fotografa, e per nulla amatoriale (v. Russo 2011). Lavorando per testate importanti, tra gli anni Cinquanta e Sessanta ha girato il globo come fotoreporter, e da smaliziata fotoreporter si è avvicinata poi alla lezione teorica dell’école du regard che l’ha portata, nel ’66, a esordire in letteratura con un romanzo sperimentale. Il Grande angolo, recentemente ristampato (Niccolai [1966] 2014), è appunto incentrato sulla fotografia, e mette in pratica – pur con diversi splendidi e controllati deragliamenti psicologici e sentimentali – le fredde tecniche descrittiviste e anti-soggettive di Robbe-Grillet, (v. Graffi 2014) che invitavano d’altronde gli scrittori a ridursi a punti di vista, a obiettivi fotografici orientati sulla realtà.

Prima di questo esordio narrativo però, come ho accennato, Niccolai ha partecipato alla nascita del Gruppo 63 essenzialmente come occhio osservante, come assassino invisibile. Non a caso càpita di leggere, in ricostruzioni o biografie, che Giulia Niccolai era l’unica donna del Gruppo 63 (v., ad esempio, Filograsso, Viola 2012, 103). Quello di ‘unica donna del Gruppo 63’ del resto è un gagliardetto che è stato appeso a diversi colli nel corso della storicizzazione della neoavanguardia – come d’altronde, per il primo Novecento, quello di ‘unica donna del futurismo’3 – e le implicazioni patriarcali di una simile formula (insensata a priori) sono forse autoevidenti. Il mito più tenace e diffuso è stato a lungo quello di Carla Vasio unica donna del Gruppo 63 – probabilmente perché Vasio è stata la donna più conforme all’asettico anticanone espresso dai più ufficiali protagonisti del sovversivo movimento letterario. Probabilmente, anche, perché la sua parabola creativa non ha poi rivendicato particolari autonomie dopo l’esperienza dello sperimentalismo e dell’informale tra 66 e 73. Più interessante è la relativamente recente riappropriazione di Amelia Rosselli da parte della critica post-militante ancora entusiasta della neoavanguardia (v., ad esempio, Loreto 2014).

C’è da dire che, come Vasio, Rosselli al convegno di Palermo c’era senz’altro e c’era in quanto scrittrice. In ogni caso, gli interpreti più devoti di Rosselli tendono piuttosto a minimizzare il suo dialogo coi Novissimi e la sua partecipazione ai convegni, facendo della famigerata silloge Palermo 63 al contempo una presa in giro e una presa di distanze (cfr. Carpita 2012, 1413-14). Giulia Niccolai si attesta, direi, al terzo posto tra le ‘uniche donne’ più citate in antologie, ricostruzioni e memorie. La quarta in graduatoria, spesso però in coppia o in terzetto con altre (come nel caso, ad esempio, di Madesani 2005, 96), è Patrizia Vicinelli, in effetti aggregatasi non proprio all’inizio, ma vale la pena forse qui ricordare che di autrici, ai convegni del Gruppo 63, ne sono girate parecchie, da Marina Mizzau a Rossana Ombres, ad Alice Ceresa, a Luciana Marcucci e, più tardi, Biancamaria Frabotta (v. Re 2004; Re 2016).

Nel corso del sofferto passaggio dalla fotografia alla scrittura, dovuto sostanzialmente a un’epifania di rifiuto etico nei confronti dell’editoria più che del mezzo fotografico in sé (v. Niccolai 2016), Niccolai si è ritagliata, da autentica milanese mezza-americana quale è sempre stata, un ruolo dimesso ma fieramente amministrativo nell’orbita romana della neoavanguardia, diventando segretaria di redazione di Quindici. Questo dettaglio, come cercherò di mostrare, è piuttosto importante. Si sa poi che le ragioni della fine di Quindici coincideranno, nel 1969, con le ragioni dell’autoesilio a Mulino di Bazzano con Spatola, e con la nascita del ramo neosurrealista, antimondano e purista dello sperimentalismo italiano di quegli anni: il cenacolo appunto di Tam Tam e delle edizioni Geiger, di cui Spatola è senz’altro il protagonista carismatico e il più audace teorico4. Nello stesso anno esce il libro di poesie concrete e visuali da cui siamo partiti, Humpty Dumpty, che è tendenzialmente letto come un classico prodotto derivativo della temperie spatoliana e visiva in genere (v., ad esempio, Bulgheroni 1974) ma che invece, a mio avviso, nasconde un’originalità idiosincratica e un articolato paradigma del posizionamento di genere che ho delineato all’inizio.

Come annunciato non c’è, in questo libro, una singola parola che sia scritta da Giulia Niccolai. Tutto il testo è tratto da Alice in Wonderland di Lewis Carroll, e da una specifica edizione di Alice in Wonderland (Carroll [1865] 1960) che l’autrice ha poi segnalato nella più recente ristampa delle poesie. Niccolai, in un asciuttissimo lavoro d’ingegneria verbovisiva, si limita a estrarre brani e brandelli dalla fonte e a farli reagire con minimi scarti capaci di rivelarne il comico potenziale semantico. Alcuni esperimenti sono ben inquadrabili nella pratica di un arguto concretismo, come la tenaglia tautologica formata da “might” e “bite”, la pericolante torre di lettere in equilibrio l’una sull’altra che formano la parola “juggler”, o il “bounce” in cui la o rimbalza effettivamente fuori dal rigo. In altri casi il concretismo sconfina invece in un’analisi microscopica delle unità irriducibili del testo, in un rivelatore esercizio di rappresentazione tramite manipolazioni minime. Nel componimento eponimo, per esempio, la dislocazione delle ‘u’ svela il gioco linguistico implicito nel nome di Humpty Dumpty, giacché Hump vuol dire dosso e Dump discarica. Analogamente, nel ritratto verbovisivo del Jabberwocky, il fumetto denso di jabber rivela l’elemento più certo del portmanteau che designa il mostro: la chiacchiera, che infatti ha suggerito a Milli Graffi la traduzione più convincente in lingua italiana, “ciciarampa” (Graffi 1979, 43; Carroll [1865] 1989).

Fig. 5 | Giulia Niccolai, He might bite, p. 121; Yet you balanced an eel on the end of your nose, p. 71; To bounce, p. 241. Composizione linotype fotoriprodotta e letraset su carta fotoriprodotto. Da Humpty Dumpty, Geiger, Torino-Mulino di Bazzano 1969, pp. 13, 19, 32. © 2017 Giulia Niccolai.

Fig. 6 | Giulia Niccolai, Humpty Dumpty, p. 261. Letraset su carta fotoriprodotto. Da Humpty Dumpty, Geiger, Torino-Mulino di Bazzano 1969, p. 33. © 2017 Giulia Niccolai.

Fig. 7 | Giulia Niccolai, Jabberwocky, p. 191. Composizione typewriter su carta fotoriprodotto con ritagli e nuovamente fotoriprodotto. Da Humpty Dumpty, Geiger, Torino-Mulino di Bazzano 1969, p. 31. © 2017 Giulia Niccolai.

Ci sono poi casi di intervento più decisamente invasivo, forse anche più interessanti, come quello legato all’epigrafe, in cui un brevissimo discorso della regina rossa è incolonnato sulla pagina come una poesia vera e propria, con rima alternata tra head e said, rima identica di nonsense con sé stesso e consonanze puntuali tra which e dictionary e tra nonsense e sensible. Nella pagina seguente, come mostrato nella figura 1, l’interpretazione visuale parte dall’unità lessicale minima dictionary per vaporizzarla in una rarefatta pioggia di lettere singole che si coagulano infine nella parola nary, seguita da a word per formare una locuzione traducibile in ‘nemmeno una parola’. La denuncia del dizionario fa cortocircuitare il discorso della regina rossa con l’epigrafe anti-logica del libro, evidenziando l’assurda riduzione di Desdemona a Otello che solo dodici anni più tardi, come abbiamo visto, troverà una risposta soddisfacente.

Fig. 8 | Giulia Niccolai, Cats are very like bats, p. 28 e The White Rabbit, p. 25. Composizione linotype su carta fotoriprodotta. Da Humpty Dumpty, Geiger, Torino-Mulino di Bazzano 1969, pp. 14-15. © 2017 Giulia Niccolai.

Anche quando il gioco sperimentale si fa attivo e argomentativo, l’autrice si auto-relega evidentemente ai margini del testo (e di un testo altrui peraltro). In sostanza questo primo libro di poesie si può leggere come una serie di note a margine all’Alice di Carroll: un lavoro di curatela più che di invenzione. Paradossalmente gli interventi di Niccolai tendono a restituire senso al nonsense, a giustificarne l’apparente deragliamento, come nel caso di “cats are very like bats” che visualizza, ai limiti della pendanteria, la natura puramente grafica della somiglianza tra gatti e pipistrelli (copincollata da un ragionamento di Alice di fronte alla porta di Wonderland). Nella pagina successiva, con un doppio anagramma, Niccolai ci mostra invece come la famosa frase del coniglio bianco “Oh dear! I shall be too late” possa leggersi in un bizzarro senso metaletterario cambiando dear con read, leggere, e late con tale, racconto.

E si potrebbe continuare con il tentativo estremo di prendere sul serio la lettera del testo costituito dal componimento “The table was a large one” – in cui “a large one” va inteso controintuitivamente come ‘un grosso uno’ e si mostra, con rastremata spiritosaggine, che in effetti ‘un grosso uno’ può fungere bene da tavola da pranzo. La lezione di Emilio Villa è rintracciabile, per esempio, quando il long tale diventa un’omofona tail (una coda) nella concretizzazione di un brano già di per sé proto-concretista dell’Alice, o quando si gioca visualmente su a jar (un barattolo) e ajar (socchiuso).

Fig. 9 | Giulia Niccolai, The table was a large one, p. 93. Composizione linotype su carta e letraset su carta fotoriprodotto. Da Humpty Dumpty, Geiger, Torino-Mulino di Bazzano 1969, p. 24. © 2017 Giulia Niccolai.

Tuttavia (e qui stanno l’autonomia e l’originalità di Niccolai), le conseguenze tratte dal pun non sono mai estreme, ma si limitano anzi alla più piccola azione morfologica necessaria per produrre uno scarto – mentre sappiamo che un Villa o un Costa continuerebbero all’infinito ad anagrammare e a ricombinare fino al rumore bianco di un assoluto naufragio semantico. Niccolai ha davvero intenzione, in fondo, di spiegare ciò che è troppo semplice (o troppo complicato) per essere spiegato, e l’elementare eleganza delle sue visualizzazioni iper-oggettive a chiave finisce per dare un’aria di rassicurante permeabilità sia all’ipotesto che allo sperimentalismo stesso della riscrittura. Questa razionalizzazione visualizzante di un capolavoro del nonsenso proprio nel momento in cui, dopo quasi un secolo di mancata ricezione, l’Italia ne accoglie il magistero5 è, mi pare, esattamente agli antipodi di quello che negli stessi anni facevano Adriano Spatola e Corrado Costa, interessati semmai alle derive contrarie del senso perso, e diventa il punto di partenza di una ricerca piuttosto coerente.

Se nel ’71, l’ipotesto da rimaneggiare in laboratorio diventa addirittura l’atlante per i “nonsense geografici” di Greenwich (libro di poesie in cui ogni parola è un toponimo: Niccolai [1971] 2012), verso il ’72 l’operazione di collage da lingue imprestate si lancia sulla prefazione di Giuliani a I Novissimi, in un centone di omaggio e oltraggio che fa pensare agli ambigui testi di Rosselli sul convegno palermitano del 63. In Dai novissimi, pubblicato autonomamente solo nella plaquette americana Substitution del ’75, si verifica perfettamente la paradossale de-autorializzazione descritta nel passaggio su Sherezade. Il testo è di Giuliani, proviene da un’antologia tutta al maschile che ha fornito il modello principe alla poesia d’avanguardia del secondo Novecento italiano, e Niccolai lo riceve senza cambiare una parola. Il suo intervento resta però dirompente, nel discreto approccio sartoriale che lo caratterizza: i brani sono tagliati e cuciti insieme in un ordine inedito che produce un nuovo senso, spesso comicamente inverso rispetto al solenne dettato dell’originale (v. Giammei 2013, 43-45). Nelle ballate degli anni successivi poi, le più poliglotte e oscure, l’autrice si fa vera e propria imitatrice di stili e maniere, descrivendo amici artisti e poeti attraverso le loro stesse formule – un caso emblematico è quello della Toti Scialoja Ballad, giocata sull’allitterazione che caratterizza le sofisticate poesie del pittore romano e proprio per questo scelta anche come componimento da rendere sonoramente sul nastro della rivista di poesia sonora Baobab6.

Ma veniamo al libro-simbolo di questa linea ingegnosamente autoannullante, al capolavoro della prima fase dell’opera di Niccolai. Il titolo è Poema e Oggetto, l’anno il 1974, e la tecnica editoriale alquanto estrema. Gli oggetti del titolo si presentano infatti in una concretezza tautologica che surclassa il concretismo stesso: un vero spillo è infilzato nella pagina su cui si stagliano gli spilli fotocopiati, il poema Lettera aperta a Giuliano Della Casa consiste effettivamente in una busta da lettere aperta, foto di cose vengono fotografate e incollate sulla pagina, e così via. Il principio è di per sé assai godibile e divertente, e potrebbe bastare a giustificare l’operazione confermando all’ennesima potenza le tendenze di cui ho parlato fin qui. Addirittura si potrebbe collocare Niccolai in una estrema ramificazione di quel paradossale realismo dell’avanguardia che fa del collage à la Balestrini – e del riuso diretto di lingua extraletteraria in generale – un confronto senza filtro coi dati più nudi e indeclinabili della realtà (Siti 1975). Se tuttavia si legge per davvero, dall’inizio alla fine, il libretto in questione, si può notare che l’apparente datità assoluta dei poemi e degli oggetti in sequenza si presenta in realtà scandita in alcuni temi visivi dominanti molto chiari.

Fig. 10 | Giulia Niccolai, La viola del pensiero, Poema, Vowel Rimbaud, Poema, Write right. Lapis, fotocopie e letraset su carta. Da Poema & Oggetto, Geiger, Torino-Mulino di Bazzano 1974. © 2017 Giulia Niccolai.

Una serie caratterizzata da autografi segni di lapis, sequenze alfabetiche, carte a quadretti, pentagrammi ed elementi di calligrafia allude evidentemente all’alfabetizzazione infantile, all’istruzione elementare, alla correzione dei compiti. Un’altra, forse la più famosa, è invece legata alla macchina da scrivere (riprodotta come oggetto o adoperata per comporre concretismi), e un’altra ancora a cucito e ricamo, effettivamente attuati sulla pagina o fotografati nelle loro componenti oggettuali. A quest’ultima fa capo anche un apparentemente incongruo ‘poema’ intitolato Manoscritto trovato a Saragozza, in cui ogni singola lettera di una pagina del romanzo di Potocki sembra cancellata da una X. In realtà, come raccontato di recente dall’autrice (Niccolai 2015), ogni carattere è coperto da un punto a croce, in una declinazione muliebre delle cancellature di Isgrò. La ‘lettera aperta’ invece fa parte di un gruppo dedicato appunto alla gestione della posta, insieme a una cartolina e a vari timbri che fanno pensare all’arte postale, in quegli anni piuttosto fortunata. Ebbene, questi quattro temi sviluppati nel libro hanno, mi sembra, un’esibita connotazione comune. Rimandano tutti ai più ovvi ruoli adeguati alle donne nella società del secondo dopoguerra: la maestra, la cucitrice e ricamatrice, la dattilografa, la segretaria. Viene subito da pensare alla più straordinaria protagonista femminile della poesia dei Novissimi: la ragazza Carla di Pagliarani (che, all’ombra del duomo, si fa giovanotta in carriera battendo a macchina e assistendo uomini), ma anche alla laboriosa sartina del Seme del piangere di Caproni, discendente della Silvia di Leopardi, o addirittura alla maestra Ida Ramundo della Storia di Elsa Morante che usciva lo stesso anno di Poema e Oggetto direttamente in paperback.

Fig. 11 | Giulia Niccolai, Poema typewriter, Poema typewriter, Poema typewriter, Typetapestry, Knitknot, Wholehole. Fotocopie, collage, fotografie, composizione typewriter su carta fotoriprodotta. Da Poema & Oggetto, Geiger, Torino-Mulino di Bazzano 1974. © 2017 Giulia Niccolai.

Fig. 12 | Giulia Niccolai, Poema tautologico, Poema tautologico, Poema, Poema. Serigrafia fotoriprodotta, spillo su fotocopia, filo su fotocopia, fotografia. Da Poema & Oggetto, Geiger, Torino-Mulino di Bazzano 1974. © 2017 Giulia Niccolai.

Fig. 13 | Giulia Niccolai, Manoscritto trovato a Saragozza. Puntocroce su pagina tipografica fotoriprodotto. Da Poema & Oggetto, Geiger, Torino-Mulino di Bazzano 1974. © 2017 Giulia Niccolai.

La segretaria di Quindici insomma, che magari gestiva anche la posta di Adriano Spatola, trasforma in poemi gli emblemi della subalternità femminile, indagando con serafica ironia una condizione di cui prende il polso senza mordersi il pugno, e anzi forse concedendosi una punta di compiacimento. Se pochi anni dopo, proprio in una plaquette Geiger, Biancamaria Frabotta esordirà scrivendo “io non sono come te poeta, | io sono poetessa e intera non appartengo a nessuno”, Niccolai abbraccia invece un nobilitato ruolo di segretaria di testi altrui, di maestra elementare che sillaba le parole di Carroll, di cucitrice di libri e riviste autoprodotte, di amministratrice razionale e concreta dell’ebbrezza altrimenti fin troppo trascendente che animava il Mulino di Bazzano. Senza frustrazione (o forse esorcizzando così eventuali frustrazioni) sono proprio le strettoie di una femminilità francamente penalizzante a suggerirle metodi e contenuti per una linea poetica muliniana assolutamente riconoscibile e non derivativa. Per spiegare Humpty Dumpty (e tutta la poesia più disperatamente lucida e priva di autorialità tra quelle poi raccolte in Harry’s Bar) mi sembra che si debba passare da questo nodo.

Per una poetessa come Niccolai, la strada più originale verso una autentica voce non poteva non prevedere il paradossale azzeramento della propria voce7. Trasformando l’inventio in elaborazione, e trasferendo lo stile dal linguaggio alle regole di composizione, Niccolai ci mette nei panni di Sherlock, e si lascia scovare fuori dai margini della fotografia come protagonista per sottrazione della sua opera verbovisionaria.

Fig. 14 | Giulia Niccolai, Poema, Annulli postali, Lettera aperta a Giuliano Della Casa. Fotocopia incollata, collage di fotocopie fotoriprodotto, busta da lettere su carta. Da Poema & Oggetto, Geiger, Torino-Mulino di Bazzano 1974. © 2017 Giulia Niccolai.

Note

1 | Devo qui dichiarare il mio debito teorico nei confronti non solo di Cavarero 2003, Muraro 2004, ma anche di Chakravorty Spivak 1985.
2 | Sul rapporto col femminismo coevo, v. Frabotta 1976, 152.
3 | Su futurismo e gender v. Re 1989.
4 | Sulle radici ideologiche del gruppo, v. Spatola, Niccolai 1972a; Spatola, Niccolai 1972b.
5 | Sul revival di Carroll e sul ruolo di Niccolai, v. Giammei 2014, 37-52.
6 | La ballata è riversata nell’archivio Maurizio Spatola presso l’indirizzo http://www.archiviomauriziospatola.com/prod/pdf_videopoesia/V00148.mp3 .
7 | Su questa evoluzione v. West 2010.

Bibliografia

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Carpita 2012
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Giammei 2013
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Giammei 2014
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Graffi 2014
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G. Niccolai, Singsong for New Year’s Adam & Eve, supplemento a "Tam Tam" 29, 1982.

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G. Niccolai, Stein come pietra miliare, in S. Perosa (a cura di), Le traduzioni italiane di Herman Melville e Gertrude Stein, Venezia 1997, 171-186.

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G. Niccolai, Poemi & Oggetti. Poesie complete, a c. di M. Graffi, Firenze 2012.

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Niccolai 2016
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A. Spatola, G. Niccolai, La poesia sta diventando, “Tam Tam” 1 (1972), 2.

Spatola, Niccolai 1972b
A. Spatola, G. Niccolai, Il breve quanto schematico editoriale del 1o numero, “Tam Tam” 2 (1972), 3-6.

West 2010
R. West, Giulia Niccolai: A Wide-Angle Portrait, in Neoavanguardia: Italian Experimental Literature and Arts in the 1960s, Toronto 2010, 212-230.

English abstract

By analyzing the most visual poems by Giulia Niccolai (namely the concrete ones in Humpty Dumpty and the meta-typographical ones in Poema & Oggetto), this article shows that the author’s experimental method throughout the 1970s coincided with an exploration of her own subaltern condition as a woman within the patriarchal context of Italy’s Neo-Avant-Garde. Rather than a process towards the reclaiming of her own authorial voice—as it has been described by previous scholarships—the self-marginalization of the ‘Mulino di Bazzano’ creative phase is interpreted as an original and ironic way to smash the patriarchy from a proudly lateral position. Manganelli’s interpretation of Niccolai as a “Sherezade” (as well as her own identification with Desdemona) is put into question through the poet’s own meta-literary comments in the early 1980s; and her intention to undermine phallogocentrism is retraced to its roots in the very opening of her first book of poems. Her writing by proxy, her borrowed languages, and her voiceless cut-up experiments (conducted both on texts by others and on actual objects) are read as feminist gestures.

keywords | Poesia verbovisionaria; Othello; Desdemona; Gender; Avant-Garde; Visual poem; Patriarchy; Typography.

Per citare questo articolo: Alessandra Giammei, “Desdemona, noun, See Othello”. Giulia Niccolai: Gender&Neoavanguardia, “La Rivista di Engramma” n. 145, maggio 2017, pp. 187-202. | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2017.145.0004