1. Brusii del corpo
Nel corso del Novecento, al confine tra poesia sonora, musica vocale e teatro musicale e di parola è emersa una sorta di ‘terra di mezzo’ nella quale convergono le sperimentazioni sul linguaggio e in particolare sulla voce ‘senza parole’ – brusii del corpo, per usare un’espressione di Michel de Certeau (de Certeau 1984, 230-232), che esulano dalla funzione semantica propria del linguaggio e resistono alla scrittura. Questo tipo di sperimentazioni costituisce una sorta di auto-riflessione della e sulla voce che corre in parte in parallelo alla grande stagione della linguistica e della filosofia della voce, talvolta anticipandola, pur da rotte distanti. Esse ci mostrano come nella dimensione dell’estetico la voce ‘lavora’ tanto nella dimensione linguistica del significato quanto in quella materiale del suono. Esplorare la terra di mezzo che si estende tra la musica e la poesia è un’impresa ai suoi inizi e i suoi risultati parziali hanno ancora l’aspetto delle antiche carte che lasciano indeterminati ampi territori.
L’elemento che unifica queste terre di mezzo è il fenomeno di convergenza tra le arti che caratterizza la cultura del Novecento. È stato Adorno a individuarlo nelle relazioni tra musica e pittura nel primo Novecento e a specificarlo in questo modo: “nella loro contrapposizione le arti si compenetrano a vicenda”; fiero avversario delle mistificazioni sinestetiche egli premette che questo fenomeno di compenetrazione avviene, tuttavia, non “per assimilazione, per pseudomorfosi”, ma soltanto laddove ognuna “persegue solamente il proprio principio immanente” (Adorno [1965] 2004, 302). La poesia sonora, nella sua prima stagione, partendo dalla disarticolazione del primo livello del linguaggio, e operando soltanto con sillabe e fonemi, si trovò priva di un elemento ordinatore che andasse oltre alla semplice successione lineare nel tempo. L’immediata disponibilità dei principi di ordinamento formale propri della musica fornì una prima spinta verso un processo di convergenza; si pensi alla vicenda performativa delle prime poesie di Hugo Ball al Cabaret Voltaire descritta nella sua memoria Die Flucht aus der Zeit e in forma più consapevole alla organizzazione musicale del materiale fonetico nell’Ursonate di Kurt Schwitters (Ball [1927] 2006; Perloff 2010; Garda 2017, pp. 75-82). Tuttavia il punto di convergenza più profondo e cruciale credo vada individuato in quello che si può denominare come “gesto vocale” e che cercherò di argomentare nel prosieguo di questo breve scritto. Per far ciò invito a spiccare un salto cronologico agli anni Sessanta del Novecento e a passare dalla parte delle “terre musicali”. Si tratta di una fase cruciale della sperimentazione musicale, dedicata ad una sorta di acquisizione del materiale fonetico della parola da parte dei compositori, che iniziano a utilizzarlo come semplice materiale sonoro, dopo averlo estratto e smembrato dal suo contesto linguistico (Klüppelholz 1976; Anhalt 1984; Kogler 2003). Tra le composizioni che hanno segnato la svolta verso questo tipo di sperimentazione vanno ricordati Gesang der Jünglinge (1955-56) di Stockhausen, un’opera incentrata sulla ricerca del punto di indifferenza tra suoni di origine linguistica e sintetica, che rivela quindi programmaticamente la funzione chiave della ricerca elettronica nella nuova consapevolezza del valore fonico della lingua; La fabbrica illuminata di Luigi Nono (1964), una composizione che va annoverata come pietra miliare di un ripensamento del rapporto tra testo e musica; e poi tra gli altri Gyorgy Ligeti, con il suo teatro della parola realizzato in Aventures e Nouvelle Aventures (1962-66). Luciano Berio che è stato un protagonista centrale di questa stagione, per ragioni che dirò tra poco, ha definito retrospettivamente nel suo Ricordo al futuro questa fase della ricerca compositiva in una maniera molto suggestiva, come “la possibilità di esplorare e assorbire musicalmente l’intera faccia del linguaggio” (Berio 2006, 41). Dalla sua personale prospettiva questa esplorazione risulta intanto sostanzialmente ampliata, in quanto oltre al materiale fonetico include anche i resti rumorosi della voce (risa, colpi di tosse, urla, sospiri), che aveva incorporato nelle sue due famose e paradigmatiche composizioni Visage (1961) e Sequenza III per voce (1965). Egli descrive questa ricerca in questi termini:
"Abbandonando l’articolazione puramente sillabica di un testo, la musica vocale può intervenire sulla totalità delle sue configurazioni, compresa quella fonetica e quella – sempre presente – dei gesti vocali. Può essere utile al compositore ricordare che il suono della voce umana è sempre una citazione, è sempre un gesto. La voce, qualsiasi cosa faccia, anche il più semplice rumore, è inevitabilmente significante: accende associazioni e porta sempre con sé un modello, naturale o culturale che sia" (Berio 2006, 41).
La versione di Berio di questo capitolo della storia del rapporto tra musica e linguaggio comprende anche l’appropriazione di quelle dimensioni vocali che sono restate al di fuori della tradizione della musica d’arte vocale: dunque non soltanto il livello fonetico, ma anche il profilo emotivo, ovvero l’intonazione vocale e i suoni pre-linguistici, che risultano incorporabili nella musica a condizione di poterli concettualizzare musicalmente.
Assorbire musicalmente anche il livello fonico, intonativo e gestuale della lingua è stato possibile soltanto grazie a un nuovo tipo di ascolto e soprattutto a un nuovo tipo di voce: una voce autoriflessiva, in grado di andare al di là delle norme codificate della vocalità e capace di integrare nel registro del canto un universo di suoni vocali non necessariamente linguistici. Cathy Berberian e Luciano Berio amavano chiamare questa fondazione di una allora nuova pratica vocale “nuova vocalità” (Berberian 1966, pp. 51-66). L’appropriazione musicale di questa dimensione ha comportato una sorta di operazione chirurgica sul corpo della voce. Si è trattato, infatti, di disgiungere la voce dalla parola frammentando il testo fino a renderlo irriconoscibile; di separare le vocalizzazioni non verbali, i gesti sonori, gli stessi profili intonativi dall’atto di parole. Certo, anche se ridotta a ‘brusio del corpo’, la materia vocale conserva comunque una disposizione a significare, come ammette lo stesso Berio. Questo lavoro sul vocalico da una parte comporta una mortificazione del potenziale significante della voce, dall’altra sortisce l’effetto di una riscoperta di una totalità della significanza corporea, che risultava a sua volta neutralizzata dalla pratica che Barthes definiva "feno-canto" (Barthes [1972] 2001, 260). Per Berio, come è noto, la voce di Cathy Berberian costituì “una specie di secondo laboratorio di fonologia” (Berio 1981, 102). Ciò significa, dalla parte del compositore, entrare nel corpo vivo della voce, come Benjamin pensava facesse l’operatore di una ripresa cinematografica che “penetra profondamente nel tessuto dei dati” (Benjamin [1936] 1966, 38). Dalla parte dell’interprete, invece, presuppone il far lavorare la grana della propria voce per levigare, spossessare e presentare la voce nuda nella sua estensione completa, dal soffio dell’espirazione e inspirazione alla coloratura. Sul versante teorico questa ricerca permise a Berio di mettere a fuoco proprio il concetto di gesto vocale derivato in gran parte dalla sua riflessione sugli scritti e soprattutto dall’incontro con Roman Jakobson, durante il suo periodo di permanenza ad Harvard (Berio 2013).
Per il nostro contesto l’aspetto più importante risulta essere la dimensione socialmente e storicamente concresciuta e condivisa del gesto (Jakobson parlava dei cinquanta modi di dire “questa sera” che un attore del teatro Stanislaskij sapeva pronunciare e che venivano correttamente decodificati dai concittadini moscoviti), ma soprattutto la possibilità di trasformare il gesto da uno strumento comunicativo (vocalico o musicale che sia) ad uno strumento performativo, in cui la funzione comunicativa viene oscurata a favore della funzione poetica (Jakobson [1960] 2002, 187).
2. Riverberare i suoni della parola
Il lavoro sul vocalico da parte dei compositori si è mosso anche in una direzione opposta, quella della riverberazione musicale della voce e della sua peculiare intonazione da parte della musica che costituisce una zona di convergenza e confine tra musica e poesia. Un esempio paradigmatico, di un momento significativo del rapporto compositivo tra la materia della lingua e la musica, è costituito da A floresta è jovem e cheja de vida (1965-66) di Luigi Nono (su questo tema rimando a Garda 2011 e Garda 2016). La pratica compositiva inaugurata da quest’opera si allinea più al teatro di parola che a quello musicale. Il compositore ha impiegato in essa soltanto testi documentari, quindi privi di un’intenzionalità poetica, selezionati da Giovanni Pirelli. Le testimonianze degli attori e gli schizzi compositivi testimoniano che dopo una fase di cernita, riduzione e strutturazione formale e drammaturgica, il lavoro sul materiale sonoro ha avuto inizio con “lettura” affidata agli interpreti stessi (gli attori Elena Vicini, Kadigia Bove, Berto Troni e il soprano Liliana Poli, per gli interventi live; Franca Piacentini, Enrica Minini e gli attori del Living Theatre per la realizzazione dei nastri magnetici). Successivamente, attraverso richieste che partivano dall’immaginazione sonora del compositore e dalle possibilità concrete delle voci, veniva distillato il potenziale espressivo umano che si sprigionava dalla parola ‘detta’, dal suo peculiare profilo melodico, prosodico e timbrico. Per quest’opera Nono non predispose una partitura, affidandosi alla propria memoria e soprattutto a quella di ciascun attore e musicista. Nel corso delle numerose esecuzioni nei decenni successivi alla prima esecuzione, gli interpreti si servirono della memoria, e Nono di un suo libro di regia, anche in questo seguendo piuttosto le pratiche teatrali che quelle dell’oralità. Va ricordato qui che le voci di attori e soprano interagivano con il nastro magnetico ed erano al centro di un evento musicale complesso, in cui la dimensione live era mediata dall’uso di microfoni e dalla spazializzazione del suono. Dai materiali di lavoro, nei quali Nono fissava al contempo il livello compositivo e quello performativo, emerge una ricerca sulla parola che sottolinea le potenzialità sonoro-espressive, i gesti vocali, e i modi della sua inserzione nel tessuto elettronico. Nono si avvaleva della tecnica di analisi delle potenzialità vocali di un testo verbale servendosi del lavoro sulla viva voce degli interpreti, mantenendo intatto il significato linguistico ma riverberandolo musicalmente, in maniera non dissimile ad alcuni procedimenti della poesia sonora. L’evidenza delle annotazioni grafiche di Nono impiegata per i materiali di lavoro, vera e propria traccia del concreto confronto con le voci, rappresenta se vogliamo tanto una “registrazione” del fonotesto risultante dal lavoro con gli interpreti, quanto una sorta di ‘sinopia’, uno schizzo progettuale per l’esecuzione dal vivo e per l’audiotesto costituito dalla registrazione effettuata da Nono stesso su disco (Garda 2016, 88).
3. Tra il segno e il suono
Nei due esempi fatti finora ho cercato di mostrare la funzione del gesto vocale integrato a differenti tecniche musicali. Se si passa dalla parte delle terre poetiche è interessante esaminare un esempio in cui i valori fonici si rendono autonomi e si realizzano nella dimensione orale/aurale senza tuttavia rinunciare del tutto alle valenze semantiche della parola. Espressa in questi termini, questa descrizione sarebbe applicabile a qualsiasi poesia declamata, dunque a un fonotesto qualunque di una lettura live, o un audiotesto di una registrazione. Nel caso del poeta cremonese Luigi Pasotelli (1926-1993), l’autonomizzazione del fonotesto è una diretta conseguenza tanto della ricerca sui valori fonici quanto della moltiplicazione di testi e paratesti e di forme di inscrizioni, ciascuno dei quali amplifica una dimensione di tipo visivo-calligrafica, visivo-tipografica e sonora (Garda 2013). Esemplare a questo riguardo è la raccolta Serraglio, che è stata pubblicata nel 1994 in un volume a tiratura numerata e limitata, dunque secondo una modalità che si allinea alla pratica della stampa artistica; ad essa è acclusa una videocassetta, che riproduce una lettura live da parte dell’autore. Questa raccolta di poesie sonore si presenta dunque come un prezioso oggetto politestuale. Nel volume, ogni componimento è introdotto da un testo esplicativo, stampato sulla pagina sinistra, che lo collega a un preciso contesto discorsivo e narrativo. Sulla pagina destra campeggia un’incisione, in forma di calligramma (si veda l’articolo di Fabrizio Bondi in questo numero) che allude ai bassorilievi degli scudi e delle medaglie antiche e impiega i segni del linguaggio come segni grafici. Nelle pagine seguenti parole e segni che indicano suoni vocali sono presentati in forma lineare (ma con diversi sensi di lettura), con una grafica che richiama esplicitamente la poesia sonora futurista. Sarebbe dunque errato attribuire a questa inscrizione la primarietà testuale, perché si tratta di una sorta di copione, di aide-mémoire o – se si vuole – di spartito che tende ad autonomizzarsi in valori grafici. Esso funge perciò contemporaneamente da partitura visiva e da prescrizione esecutiva, naturalmente in forma analogica e non notazionale (Goodman [1968] 1998, 155-168).
Nella registrazione audiovisiva la dimensione vocalica soverchia quella semantica, peraltro assai criptica, dello scritto. In un certo senso, essa la rende anche propriamente significante. Nell’assenza di un vero e proprio testo di poesia lineare, di un testo autonomo, la performance vocale assume, infatti, un valore testuale, che seppure non unico, come è stato appena sottolineato, risulta dotato di una valenza molto potente, che ci rimanda – in questo e solo in questo – alla dimensione dell’oralità, come se la moltiplicazione delle iscrizioni di un testo assente potesse sospendere temporaneamente il regime della scrittura.
Non è soltanto in questo aspetto, però, che risiede la forza e l’energia del documento audiovisivo. Certo, come nel caso dell’attore citato da Jakobson, l’ascoltatore è in grado di identificare il significato delle intonazioni vocali. Nella declamazione di Pasotelli, tuttavia, si coglie un’eccedenza che erompe dalla pronuncia delle parole, dalla dimensione appunto del vocalico. Benché il suo corpo sulla scena appaia generalmente compassato, è proprio nel volto e nella voce che si concentra tutta l’intensità espressiva. Seguendo un filo teorico offerto da Steven Connor, questi due elementi rivelano un valore creativo e formativo:
“The face and the voice are the two most important forms that stand out from William Jame‘s ‘great blooming, bussing confusion’ of sense impressions. We may say that, for this reason, face and voice come to represent the emergence or figuring out (figura=face) of form itself” (Connor 2014, 7) ["Il volto e la voce sono le due forme più importanti che si stagliano da ciò che William James chiama ‘la grande, confusa e ronzante fioritura delle impressioni dei sensi’. Per questa ragione possiamo dire che la faccia e la voce giungono a rappresentare l’emergere o il raffigurare (figura= faccia) della forma stessa]".
La primarietà sensoriale dei segni espressivi del volto e della voce si addiziona e si integra ai riferimenti semantici fonosimbolici presenti nelle parole del copione e collegati all’ambito narrativo illustrato dal testo esplicativo (sulla valenza stilistica e performativa del fonosimbolismo cfr. Fónagy 1983; Jakobson, Waugh [1979] 1984, 192-248). Da questa prospettiva Pasotelli enfatizza in ciascun dei componimenti di Serraglio un cluster di valori fonosimbolici: per esempio l’ubiquità delle fricative e della [i] nel Canto della medusa; quella delle [y] e delle [r] di Ratagura collegate ad una particolare modulazione e intensità vocale.
Senza inoltrarsi nelle complesse ipotesi sulle ragioni psichiche e sulla dimensione comunicativa del fonosimbolismo indagato da Fónagy e da Jakobson e Waugh, può essere utile invece seguire ancora una volta i suggerimenti di Connor per cogliere la natura di questa potente forma di significazione che si esplica soprattutto nella dimensione performativa. In questa prospettiva il suono vocale va considerato in una duplice accezione, come segno che appartiene al linguaggio e contribuisce al processo della significazione, e come puro vocalico, rumore. Senza chiamarli gesti, ma in termini molto simile alla formalizzazione di Berio – Connor ricorda che i “rumori” della voce possono esercitare tanto una funzione semantica accidentale, quanto intenzionale; per esempio quando il cameriere si schiarisce la voce per manifestare la sua presenza e richiamare l’attenzione dei commensali assorti in una conversazione. Ci sono due tipi di funzione semantica: una è quella delle onomatopee, che Connor chiama ‘fonomemi’. La seconda e meno nota funzione è quella esercitata dai ‘fenomemi’ (Connor 2014, 11-12 con riferimento a Fatani 2005). Questi segni sono iconici nel senso di Pierce; come i diagrammi e le piante degli appartamenti, essi esibiscono le stesse relazioni fra le loro parti e quello dell’oggetto. I fenomemi però non possono rappresentare direttamente le relazioni che contraddistinguono le forme del mondo o le azioni. Essi hanno bisogno di una mediazione: infatti essi rappresentano la relazione tra la disposizione fisica degli organi vocali o la fisica della produzione del suono e le azioni o le forme del mondo che esse rappresentano. Se si considera l’apparato fonatorio come una sineddoche del corpo, la voce in quanto tale – al di qua o al di là del parlato, ma anche nel parlato stesso – diventa espressione del corpo: voce-corpo. In tal maniera il processo di espressione si radica nella relazione tra la parte interna del corpo, ovvero i suoi organi, e il ‘corpo’ vocale. Si potrebbe dire che i fonomemi sono segni ‘incorporati’ allo stesso modo in cui lo sono le metafore al livello semantico. Come insegnano Lakoff e Johnson ([1980] 2012), la potenzialità espressiva della maggior parte delle metafore si radica nella relazione con il corpo; esse sono appunto ‘metafore incorporate’ (embodied metaphers). Nel ripensamento di Connor della funzione fonosimbolica l’iconicità indica un tipo di significazione instabile e precaria, una potenzialità la cui riuscita non è scontata, alla cui base sta “il desiderio che le parole e le cose facciano rima” (“the longing for words and thing to rhyme each other”: Connor 2014, 12). Si può dire che la poesia sonora e molte sperimentazioni di musica vocale siano proprio il tentativo di realizzare questo desiderio. La performatività che si coglie nell’ascolto dei componimenti di Serraglio declamati da Pasotelli, dunque, non scaturisce soltanto della flagranza della sua presenza corporea, che pure conserva un sapore auratico nella videoregistrazione a distribuzione limitata, destinata a un piccolo gruppo di appassionati. Neppure riverbera dalla ricca e versatile grana della sua voce o dalla liveness della registrazione. Essa promana piuttosto dalla riuscita del suo gesto fono-poetico, dall’aver innescato la potenzialità espressiva e significante del livello sonoro.
4. Ventriloquismi linguistici
Le peculiari sonorità dei dialetti e delle lingue naturali, già sfruttate nella poesia sonora del primo Novecento – si pensi, per fare un solo esempio, all’eco deformato delle lingue africane e oceaniche individuato dalla critica nella produzione di Hugo Ball (Elderfield 1974, XXI-XXII; McCaffery 2009, 119 e 312n) – costituiscono una potente suggestione per le sperimentazione musicali e poetiche. Anche in questo caso poesia sonora e sperimentazione musicale si avvicinano senza confondersi. Negli anni Sessanta non pochi compositori, tra i quali i già citati Luciano Berio e Luigi Nono, hanno colto e sfruttato nella sperimentazione vocale il semplice meccanismo straniante che si verifica nell’ascolto delle lingue straniere: l’alterità dei suoni esibisce il vocalico mentre oscura il semantico e costituisce per l’orecchio del compositore un invito a sfruttare il materiale fonetico per fini musicali. In Thema. Omaggio a Joyce (1958), Luciano Berio sottopone la lettura da parte della cantante Cathy Berberian di un passo dall’Ulisse di Joyce nell’originale inglese e in diverse traduzioni a progressive elaborazioni elettroniche, fino ad una completa metamorfosi della parola in musica (Scaldaferri 2000; Berio 1953). In Visage (1961) le vocalizzazioni paralinguistiche di Cathy Berberian si orientano tanto ai modelli di alcune lingue naturali (ebraico, napoletano, inglese, armeno) quanto alla possibilità di una loro completa neutralizzazione (Menezes 1993, 44-45). In A floresta, Luigi Nono mantiene la lingua originale dei testi, persino quella vietnamita, facendo debitamente istruire le cantanti nella corretta pronuncia, per presentare e riverberare il senso del testo dalla dimensione del vocalico, ancor più che da quella del semantico (si tratta della lettera di Nguyen Van Troi, partigiano sudvietnamita fucilato a Saigon).
Anche Pasotelli rivela un orecchio attento alle possibilità creative dischiuse da esperienze multilinguistiche. La sua ricerca poetico-sonora insegue, però, un radicamento e un coinvolgimento il più concreto possibile con la sonorità dei dialetti e delle lingue, pescando a piene mani nel deposito dei loro gesti vocali, intimi e straniati al contempo, a seconda delle appartenenze linguistiche degli ascoltatori, ma sempre ‘incorporati’.
L’effetto è quello di un continuo ventriloquismo, di un teatro della voce che fluttua incessantemente tra il regime del vocalico e quello del semantico. Tra le poesie di Serraglio, O Opotoms. La ballata dei topi è la più drammatica nel contenuto e la più vertiginosa e virtuosistica nel rutilante gioco di corrispondenze e sostituzioni tra suoni e segni (onomatopee), personaggi (uomini e topi), luoghi (la dimensione sotterranea della metropolitana e del rifugio antiaereo), che drammatizza la spersonalizzazione dell’uomo nella guerra e nell’anonimato della vita quotidiana sotterrato nelle viscere della metropoli. Il lettore si chiede "chi sono i topi?" e trova una risposta agghiacciante nella poesia (lineare e poli-linguistica) che costituisce un ennesimo testo/paratesto di O Opotoms. La sintesi dei versi è una serie di uguaglianze: topo/uomo/nichts/nulla; mero bios, vita nuda.
Frammenti, ma soprattutto alcuni “suoni” della lingua tedesca, caratterizzano l’ambiente fonico della composizione. Il suono ‘kr’, ad esempio, sembra assumere in questo caso quasi la funzione di motivo ricorrente. Esso erompe, come un grido, con la prima parola: “Krist”. È una bestemmia (dialettale), ma alla tedesca come dice il paratesto. Suono che viene da gole di carne, invece che vocalizzazione di un fonema (segno), come tale è prodotto anche da gole lombarde. La doppia consonante indurisce la tautologia di “Krieg ist Krieg”, che traduce in un grido di guerra il nostrano impotente e rassegnato “la guerra è la guerra”. Pronunciato con un suono che viene da gole straniere esso appare come un suono subìto, la guerra portata dagli altri, che compaiono soltanto come figure vocali. L’assonanza risuona retrospettivamente nello specchio della memoria, una volta ascoltato tutto il componimento. Essa insinua, però, fin dall’inizio il disorientamento circa l’identità del soggetto della violenza, e innesca tutto il gioco di specchi tra vittime e carnefici nel rifugio di guerra/metropolitana, che ricorda la violenza cieca, arcaica, dell’uomo contro la bestia: “maza el rat” (ammazza il topo). Il commento potrebbe continuare a inseguire la prismatica rifrazione dei personaggi nelle lingue e degli oggetti nelle onomatopee. Si è violata la resistenza del testo alla parafrasi e all’interpretazione, offrendo il tentativo di seguire un filo dei tanti che costituiscono il testo performativo della Ballata dei topi. Lo scopo non è stato quello di aggiungere un altro paratesto ai molti che formano Serraglio, bensì quello di mostrare come i comportamenti incorporati nelle lingue e nei dialetti possano costituire ‘fenomemi’ soltanto quando si attiva la funzione poetica innescata da un atto performativo.
Per concludere si può tornare al punto da cui si era partiti, la concezione del gesto vocale di Berio. In limine al saggio Del gesto o di piazza carità, (Berio 2013, 30-36) il compositore cita una breve frase dal cap. XV dell’amato Ulysses di Joyce (So that gesture, not music, not odours, would be a universal language), per confermarlo e al contempo smentirlo, come faremmo noi lettori appassionati di Pasotelli:
"Per essere creativo il gesto deve poter distruggere qualcosa, anche a costo di sporcarsi – come direbbe Sanguineti – nella palus putredinis dell’esperienza. Deve cioè poter contenere sempre un po’ di quello che si propone di superare … come i gesti del napoletano al quale domandiamo “dov’è Piazza Carità?” e che diventeranno rappresentativi ed espressivi solo a patto di far violenza alle nostre intenzioni e di renderci Piazza Carità apparentemente introvabile". (Berio 2013, 35)
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N. Scaldaferri, ‘Bronze by Gold’ by Berio, by Eco. Viaggio attraverso il canto delle sirene, in V. Rizzardi e A. I. De Benedictis (eds.), Nuova musica alla radio: esperienze di fonologia della RAI di Milano, Torino 2000, 101-157.
English abstract
The article claims that vocal experimentation in the second half of 20th century shows convergence zones both in sound poetry and in avant-garde music. The disintegration of language in its phonetic unities, and the magnification of the intonational profile is a strategy shared both by sound poetry and by experimental vocal music, as are the cases of Karlheinz Stockhausen, Luciano Berio, Luigi Nono, and Gyorgy Ligeti. The contribution of Luciano Berio to this field is of paramount importance, notably in works such as Thema. Omaggio a Joyce, Visage and Sequenza I, as well as in the reflection on the concept of vocal gestures. Performers play an innovative role in vocal experimentation: Cathy Berberian in a case in point. Luigi Nono’s A floresta é jovem e cheja de vida shows an innovative compositional practice − which involves collaboration between composer, actors and musicians − and highlights the strategic function of performance in the creative process. The third part of the article tackles Luigi Pasotelli’s Serraglio poem collection, and its complex array of texts and paratexts focusing on the performativity of audiotexts. Drawing on Steven Connor’s distinction between ‘phonomemes’ (onomatopoeic signs) and ‘phenomemes’ (iconic sounds), the author claims that performativity depends on the successful use of the iconic potential of vocal sounds and on the provocative handling of vocal gestures embedded in languages and dialect.
Per citare questo articolo: Michela Garda, Tra il segno e il suono: gesti vocali nella poesia sonora, “La Rivista di Engramma” n. 145, maggio 2017, pp. 253-263. | PDF dell’articolo