Luigi Pasotelli (Cremona 1925 –Milano 1993) è ancora, purtroppo, un poeta per happy few, oggetto di un culto underground il cui fervore è inversamente proporzionale all’esiguità degli officianti: ne fa fede la scarsezza della bibliografia sul suo lavoro. Le ragioni di questo permanente buio, oltre al parziale inabissamento della temperie in cui Pasotelli si era espresso, risiedono sicuramente nella estrema complessità e nella assoluta peculiarità della sua arte. Egli fiorisce, come usava dire un tempo, alle soglie della sessantina, e il suo periodo di maggiore produttività ricopre circa un decennio, dal 1982 alla morte, avvenuta nel 1993. Prima c’erano stati molti interessi – poesia, teatro, pittura – coltivati in modo più o meno discontinuo e dilettantesco, nonché una mole notevole di letture che lo dotarono di una vasta cultura da autodidatta. A tutto ciò si devono aggiungere un’adolescenza e giovinezza piuttosto travagliate, il lavoro di pubblicitario a Milano, i viaggi (tra cui due anni in India), la tranquillità familiare alla fine raggiunta1.
Il punto di svolta è forse l’incontro (dapprima epistolare) con Adriano Spatola: grande facitore in proprio ma anche suscitatore di poesia in altri, il guru del Mulino di Bazzano gli offre da un lato un duplice modello operativo (la sperimentazione sonora e visiva), dall’altro lo autorizza, gli dà letteralmente la Parola, rappresentando per lui una sorta di padre culturale. Dopo aver criticato apertamente alcune sue prove poetiche, gli conferisce a un certo punto (en passant, ma nemmeno tanto in pectore) una vera e propria patente di poeta: “Ti ricordo” gli scrive Spatola “che sei uno dei più grossi poeti della situazione. Non scappare. Del resto non sei ancora abbastanza famoso per il suicidio. In ogni caso fammelo sapere con almeno sei o sette meschini mesi di anticipo... A presto, allora, | sull’orlo del nulla molto ben riscaldato, ti abbraccio | Adriano Spatola”2.
Ma a quella altezza il mondo espressivo di Pasotelli è già maturo. Agli anni 1982-1983 risale il nucleo forte di quello che sarà il progetto di Serraglio, che contava alla sua morte 25 poemi "fonovisivi"3. Uno di questi, Canto di lavoro delle formiche, verrà messo in scena proprio nell’82 da Corrado Costa — altro instancabile animatore della sperimentazione performativa soprattutto (ma non solo) in area lombardo-emiliana — nello spettacolo State bradi, incentrato sugli animali, basato su testi di Arp Porta Balestrini Costa Beltrametti Scialoja Spatola Bozzini e appunto Pasotelli4. In altre parole: quasi da subito, appena esordito, egli venne arruolato a pieno titolo nei ranghi alti della poesia sperimentale. Nel 1983 esistevano già Le canzoni di Ratagura, Taurus & Sciampuina e O Opotoms, i pezzi forti del work in progress pasotelliano, le cui esecuzioni rappresenteranno di conseguenza la magna pars dell’omonimo documento filmato girato nel 1990 da Girolamo Cardile e Adriano Melis. Esso venne pubblicato postumo, nel 1994, a cura della moglie Giovanna Pasotelli e di Alberto Mari, in un cofanetto comprendente il VHS e un pregiato libretto, con il quale costituisce un’inscindibile corpus. Si tratta di una straordinaria eredità, il principale supporto che permette — soprattutto nella sua ipostasi filmica — di medicare in parte l’insanabile perdita di una presenza scenica e umana, di farci un’idea seppur vaga di quel corpo a corpo col linguaggio e col pubblico che dovevano essere le performances di Luigi Pasotelli5.
Ma che cos’è il Serraglio? Potremmo definirlo una sorta di teatrino multimediale incentrato su alcuni animali-totem dalle forti valenze allegoriche (Bondi 2009, 232-237). Il punto di partenza è una materia poetica magmatica e franta, sorta di summa dei procedimenti di sfiguramento linguistico rinvenuti dalle avanguardie novecentesche, che spezzetta e mischia dialetti padani e lingue da lui conosciute, spagnolo tedesco francese inglese e anche alcune solo orecchiate, come il russo. Una bella descrizione ne offre Arrigo Lora Totino nella sua Storia della poesia sonora in Italia: “Dietro ci sono, è chiaro, lo zaum di Velimir Chlebnikov, le compenetrazioni verbali futuriste: da Marinetti a Balla, da Corra a Cangiullo e, ovvio, La veglia di Finnegan di Joyce, ma prima ancora e risalendo, l’antica e sotterranea vocazione italica alla glossolalia: dalle farse fescennine alla commedia dell’arte” (Pasotelli 1994, s.n.p.), alla quale aggiungerei le litanie glossolaliche dell’immaginaria lingua magica di Artaud, figura che Pasotelli ben conosceva sia sul piano ‘letterario’ che su quello ‘vocale’.
Per ricordare ed eseguire la sua poesia Pasotelli la distendeva in eleganti e personalissime partiture o “mnemofonie”, tutt’altro che prive di valori grafici autonomi e debitrici soprattutto delle innovazioni tipografiche futuriste6. Il materiale verbale era infine ricomposto in suggestivi carmi figurati o, secondo la terminologia invalsa dopo Apollinaire, calligrammi, posti in copertina ai fascicoli che il nostro spesso distribuiva in occasione delle sue esibizioni pubbliche. Il momento performativo era infatti il fulcro dell’ars pasotelliana, la precipua manifestazione del suo genio. In tale momento lo scompaginato mosaico dei segni veniva sonorizzato in una straordinaria orchestrazione ‘per voce sola’, una gargantuesca eterofonia punteggiata da grida e scoppi vocali, attraversata da ossessivi moduli ritmici, in cui i simboli e gli sfigurati linguaggi, le storie dell’uomo e degli animali si rincorrevano, si sovrapponevano e combattevano tra loro per poi dissolversi e sparire al richiudersi della glottide. Chi si voglia fare un'idea dell'impasto vocale pasotelliano, e non abbia accesso diretto a materiali ormai praticamente introvabili, ha di fatto pochi sussidi. Nel sito www.ulu-late.com, nella sezione "Poesia totale", espressamente dedicata a Luigi Pasotelli, si possono trovare vari materiali tra i quali alcune tracce audio; altre si possono ascolare all'indirizzo di Poemus; su youtube si trova una versione (solo audio) di Ratagura's Song.
Sebbene, dunque, il livello sonoro della poiesis pasotelliana (sul quale v. ora Fontana 2003 e, in questo numero, il contributo di Michela Garda) sia indubbiamente il più rimarchevole, è bene non scindere tale aspetto dalle manifestazioni grafico-pittoriche del medesimo lavoro, sia per l’impegno che in esse riversava l’autore, sia per la loro intrinseca qualità artistica. Anche a questo livello, il fare pasotelliano riassume e rimette in circolo con attitudine enciclopedica tutti o quasi i procedimenti delle avanguardie, con una particolare predilezione per il collage di stampo dada-surrealista. Tuttavia Pasotelli attinge anche, al contempo, a meccanismi verbovisivi dichiaratamente arcaici o almeno antichi.
Lo notava il suo mentore Spatola a proposito di una serie di poesie visive del 1983 intitolata Rebus (Pasotelli 1985) i cui modelli più prossimi rimangono senz’altro i ‘romanzi’ a collage di Max Ernst, oltre ovviamente agli omonimi giochi enigmistici7:
"La geografia si trasforma in astronomia, la decifrazione tende a diventare un problema di araldica. Si potrebbe dire che il supporto di questi collages, la carta, risulta a ben guardare incongruo: meglio senza dubbio il legno con le sue venature, o l’argento antico con i suoi riflessi spenti. Possiamo comunque provare ad immaginare le figure di Pasotelli incise sull’avorio, o trasformate in medaglioni consunti. Occasioni statiche per talismani, per formelle, per vetrate, per mosaici".
(Spatola 1985, 4-5)
Avrà avuto in mente Spatola, scrivendo queste righe, la destinazione decorativa di molta dell’emblematica rinascimentale e barocca? Ma se il funzionamento emblematico di molte opere visive di Pasotelli potrebbe essere frutto di un riemergere inconscio di meccanismi inescamotabili qualora si mettano a contatto parole e immagini cercando di sprigionare un effetto dal loro potenziale combinatorio, in altri casi i referenti all’antico appaiono più specifici e diretti. In questa sede vorrei in particolare soffermarmi sull’uso pasotelliano del carme figurato. La mia ipotesi è che esso sia stato ispirato dal fondamentale testo di Giovanni Pozzi, La parola dipinta, che uscì appunto per Adelphi nel 1981, cioè l’anno cruciale di Pasotelli.
Se nel calligramma la disposizione dei versi, o comunque delle parole nel loro corpo grafico o tipografico, è artificiata in modo da tratteggiare (forzosamente per sommi capi, e nei loro tratti principali) un’immagine di ciò di cui il testo parla — subito riscontreremo un’anomalia in quelli pasotelliani. Ci aspetteremmo infatti, dato il tema ‘zoologico’ dei poemetti, carmi in forma di animale. Tuttavia, molto raramente essi si limitano a riprodurre il mero “spettro” — riprendo qui la terminologia di Pozzi, il quale dà a questo termine il significato di “immagine, figura” senza escludere “quello primitivo di 'larva', perché queste non sono altro che larve del disegno propriamente detto, dato l’uso di tessere così inadatte all’espressione grafica come le lettere dell’alfabeto” (Pozzi 1981, 115) — insomma la forma dell’animale poetato: direi forse che l’unico è quello del Canto della medusa o della vecchia signora che si strucca [fig. 1], al quale la terminologia fantasmatica si attaglia singolarmente, proprio per il carattere larvale dell’animale descritto e la sua sovrapposizione — quasi da fotografia spiritica ottocentesca — all’immagine rilasciata della vecchia signora e delle sue lamentazioni sul dissolversi delle proprie ossa. Anche in Felix Leo Dazebao (Il discorso del leone) [fig. 2], dove con estrema semplificazione grafica vediamo il naso (che ha forma della lettera greca lambda), le narici e bocca spalancata dell’animale, tale bocca tende appunto alla forma circolare che è quella più frequentemente impiegata nei calligrammi pasotelliani.
A propria volta, però, queste strutture circolari non mancano quasi mai di riferimenti a elementi fisici stilizzati dell’animale, come le zampe e gli occhi della tartaruga in Le canzoni di Ratagura [fig. 3], la pelliccia della tigre in Zishna. La tigre antropofaga [fig. 4], o a loro situazioni a vario titolo ‘ambientali’: il giro in tondo del cavallo al trotto nel poemetto omonimo [fig. 5]), il labirinto del minotauro in Taurus & Sciampuina [fig. 6], ecc. Anche nei circoli optical delle formiche [fig. 7] o nel pianeta pullulante di segni de I topi [fig. 8] sospettiamo una qualche intenzione vagamente mimetica. Raramente, insomma, la forma circolare o sferica sta ‘di per sé’. L’unica eccezione è Loulù da Gubbio [fig. 9] dove c’è Gubbio ma non il lupo, cioè lo specifico totem che domina il poemetto, ed è fatto forse significativo: si tratta qui di un simbolo profondamente ambiguo, significando in primis la belva nazifascista, ma anche la figura di un amico dell’autore e il pacifico interlocutore del santo... zoofilo.
Talvolta non sono da escludere intenzioni calligrammatiche anche nelle cosiddette partiture – dove i valori visivi, come talvolta nelle tavole parolibere futuriste, sembrerebbero al servizio della voce (Pozzi 1981, 40) – sebbene meno evidenti che nei carmi figurati. Non dubbio è il caso de L’Aquila [fig. 10], dove la disposizione in doppia curva affiancata delle righe è un evidente richiamo all’apertura alare dell’uccello.
Pozzi, spiegando il funzionamento del carme figurato, illustra come in esso i due aspetti del ‘leggere’ e del ‘guardare’ si disturbino a vicenda. Bisogna, a suo dire, partire da uno sguardo d’insieme, dunque tentare in primis di decifrarne il messaggio figurativo. La raggiera dei significati possibili aperta dall’immagine è poi ristretta dal testo. Nel caso ciò non si verifichi, bisogna ricorrere a strumenti extra-testuali, relativi all’immaginario dell’autore e della sua epoca. Come si pone il calligramma pasotelliano rispetto a questo problema? Prendiamo l’esempio più comprensibile, la già vista Medusa [fig. 1]. Qualora qualcuno non comprenda di che animale si tratti (e qui viene molto in aiuto del riguardante il contorno grafico che accompagna la disposizione dei caratteri), il testo – posto che riesca a decifrarlo – gli sarà ben poco d’aiuto: “Or yur or horo glu or | ar ar harta rar | lotul or...”8.
La comprensibilità è negata dal fatto linguistico in sé, spesso sconfinante nell’informale dell’emissione sonora, nella pura phone, o nella glossolalia, e dallo stesso 'tratteggio' che porta ad esempio spesso i caratteri tipografici a una minuzia illeggibile, come accade nel vertiginoso mappamondo di Loulù da Gubbio [fig. 9]. A volte i caratteri mimano un’incomprensibilità esotica, come gli pseudo-ideogrammi di Felix leo [fig. 2]; a volte il calligramma manca del tutto (ma non sappiamo se ciò sia dovuto a un’incompiutezza del poemetto o a una precisa volontà d’autore), a volte è sostituito da un’immagine non calligrammatica (come nella Ballata dell’Oca, ma è forse il solo caso). Comunque sia lo scritto, pur essendo quasi sempre presente e rigorosamente coincidente con il testo effettivo del poemetto, non restringe mai l’area di senso aperta dallo “spettro”, cioè dall’immagine. Del resto, Pozzi l’aveva notato analizzando spassionatamente le fattispecie verbovisive delle avanguardie novecentesche:
“Si assiste quasi a un capovolgimento delle gerarchie tradizionali del carme figurato, che concede il primato alla catena di trasmissione linguistica. È per questo che molti prodotti dell’avanguardia storica, e poi sempre di più delle avanguardie recenti, si devono ascrivere al genere delle comunicazioni miste (in cui la lingua è didascalia dell’ideogramma o viceversa) o a quello dell’espressione pittorica che usa ai suoi fini i materiali alfabetici [...]”.
Ma poi è costretto a notare che:
“Nella poesia più recente talvolta l’elemento iconico si sottomette a quello linguistico e così recupera all’alfabeto un rapporto coi significanti e coi significati linguistici: attraverso la grafica, certa poesia concreta riacquista il valore della parola facendo liberamente virtù d’una delle più impellenti necessità, quella di proporre attraverso un richiamo linguistico l’oggetto che si vuole imporre”.
(Pozzi 1981, 97)
Evidentemente Pasotelli vuole che noi ci soffermiamo sul calligramma, ma al contempo sbarra l’accesso immediato al suo significato linguistico, rendendo necessario andare oltre, penetrando negli altri strati del manufatto, partitura e soprattutto performance. Ma pensando al prevalere di quest’ultima dimensione, potrebbe affacciarsi il sospetto che il calligramma abbia una funzione quasi ornamentale, magari di suggello per un oggetto eteronomo: come, appunto, l’emblema nel suo significato etimologico. O, ancora (giusta la citazione di Spatola) che l’artista voglia con esso suscitare un’impressione di straniamento archeologico, come di oggetto riemerso incomprensibile dal bagno del tempo, ma cosparso di una fascinosa patina, da un’aura arcaica di objet enfoui: quasi a dribblare, mi ha suggerito Alessandro Giammei, i poeti inseguitori del ‘nuovo’, fosse pubblicitario o di design o elettronico o altro, evitando al contempo la museificazione delle avanguardie storiche col pescare in un passato non-ancora-museificato o, se sì, in musei per lunatici happy few.
In realtà, come si tenterà di dimostrare, il carme figurato è funzionale e quasi necessario al Serraglio di Pasotelli non in quanto semplice forma letteraria ma piuttosto in quanto forma simbolica9. Questo è in effetti il destino generale riservato alle ‘forme’ nella poiesis pasotelliana: i suoi rebus non sono tali se non per il rimandare al rapporto di priorità indecidibile tra mots e choses; gli anagrammi spesso utilizzati per ribattezzare i suoi animali sono a volte sbagliati, pseudo-anagrammi, e significano forse solo la ‘ricombinazione dei reali’ che in quella operazione artistica si vuol porre in atto (Ratagura è e al contempo non è la tartaruga naturalis); le sue 'ballate' non corrispondono ad alcuna forma metrica chiusa, ma alludono forse soltanto a Villon, altro autore idolatrato da Pasotelli, che ne tentò una traduzione eterodossa ed espressionistica.
La mia tesi è che per la riattivazione pasotelliana del carme figurato come forma tanto iconica quanto simbolica, sia stata essenziale la mediazione de La parola dipinta. Il prevedibile disfunzionamento del calligramma pasotelliano, viceversa, che rende quasi totale quello “sconcerto” iniziale del fruitore così ben analizzato proprio da Pozzi quale effetto spesso ricercato dal calligrammista (Pozzi 1981, 293-299), potrebbe rendere dubbia l’ipotesi di un’influenza ‘profonda’ su Pasotelli da parte del cappuccino di Locarno. In effetti, se scorriamo le pagine della Parola tenendo nella memoria i calligrammi di Pasotelli, noteremo una serie di coincidenze che appaiono a tutta prima più formali che iconografiche.
La mia tesi è che per la riattivazione pasotelliana del carme figurato come forma tanto iconica quanto simbolica, sia stata essenziale la mediazione de La parola dipinta. Il prevedibile disfunzionamento del calligramma pasotelliano, viceversa, che rende quasi totale quello “sconcerto” iniziale del fruitore così ben analizzato proprio da Pozzi quale effetto spesso ricercato dal calligrammista (Pozzi 1981, 293-299), potrebbe rendere dubbia l’ipotesi di un’influenza ‘profonda’ su Pasotelli da parte del cappuccino di Locarno. In effetti, se scorriamo le pagine della Parola tenendo nella memoria i calligrammi di Pasotelli, noteremo una serie di coincidenze che appaiono a tutta prima prettamente formali piuttosto che basate su una precisa derivazione iconografica.
Ad esempio, pur rimanendo colpiti dalle analogie tra lo schema radiale a cerchi concentrici, arricchito da inserti grafici, figurativi e ornamentali vari che Pasotelli privilegia, e i carmi permutazionali di Caramuel e Kircher [figg. 11 e 12], si può tranquillamente immaginarne un’eterogenesi10.
Non vi è poi nessun nesso apparente se non formale tra i due carmi ‘in forma di rosa’ [figg. 13 e 14] riprodotti nel libro pozziano e la medusa di Pasotelli [fig. 1]; né tra la carta celeste di OES Il delfino [fig. 15] e l’alfabeto ebraico iscritto nell’emisfero boreale riprodotto nelle Curiosité inouye del Gaffarel [fig. 16]. Frutto di un mio personale travedere potrebbe poi essere la somiglianza tra il calligramma rappresentante il progresso della via mistica negativa di S. Giovanni della Croce [fig. 17] – uno degli specimina che più commuovevano Pozzi – e lo strano pianeta implicato di O Opotoms, la ballata dei topi [fig. 8].
I conti tornano meglio col labirinto [fig. 18], ma del resto il labirinto è un uno schema grafico-simbolico non di certo scoperto da Pozzi né dagli autori di carmi figurati antichi da lui schedati (tra i quali peraltro gli esempi di carmi ‘dedalici’ non sono molti, e tutti legati a un qualche significato morale: il labirinto del mondo secolare, delle passioni ecc.). Pasotelli lo tematizza più decisamente, sia riprendendo il mito del Minotauro [fig. 6], forse memore anche del Mignottauro di Corrado Costa ed Emilio Villa (Costa, Villa 1970), sia ad esempio accostando il labirinto alla moderna città alienata nel calligramma per macchina da scrivere Labirinto in "à" del 1983 [fig. 19]. Dal labirinto si può passare facilmente alle sbarre del carcere. L’idea di Prigione del 198911 [fig. 20] si può essere certo creata autonomamente dai versi intessuti di Spelta [fig. 21], così come potevano benissimo non conoscerli i grafici del Mulino che hanno recentemente riusato questo semplicissimo ma efficace calligramma per la copertina della Vita degli uomini infami di Foucault (Foucault [1977] 2009).
I "calligrammi per macchina da scrivere" realizzati nel 198312, dei quali si potrebbero peraltro rinvenire i modelli nei ‘fantasmi’ di antichi carmi figurati riportati nella Parola, farebbero pensare a una intensificazione di interesse per il genere nel 1983, quando su "Tam Tam" esce un’ampia e partecipe recensione di Raffaele Manica al saggio di Pozzi (Manica 1983). Pasotelli collaborava proprio a "Tam Tam" e Spatola vi fece pubblicare i Rebus 1/25 nel 1985; ma questi erano già pronti appunto nel 1983, quando vengono esposti a Palazzo Sormani. In alcuni di essi appare sviluppata la traccia del cosmo concentrico [cfr. fig. 22].
Ma Pasotelli di sicuro conosceva il libro molto prima; e non solo perché vi sono dei lavori dell'82 che già recano il calligramma (esso potrebbe infatti essere stato aggiunto in una fase successiva). A mio parere l’ipotesi di una conoscenza precoce, di prima mano e approfondita da parte di Pasotelli del testo pozziano diventa sempre più probabile man mano che ci si addentra nei meandri dell’arduo saggio. Prendiamo un’affermazione estratta dalle non facili pagine teoriche iniziali: “Perciò la lingua, dice Mallarmé, anche se non ancora progettata, ma già in quanto entità progettabile come scrittura, contiene una virtualità iconica” (Pozzi 1981, 49). Riflettendo ad alta voce sul proprio poemetto La porta, e sul “fascino sempre molto ambiguo delle ripetizioni”, Pasotelli osservava che “in questo caso pare che queste ripetizioni abbiano la capacità di creare anche un certo effetto visivo” (trascrizione mia, tratta dalla cassetta audio). E La porta, non a caso, ha (od è) anche un proprio calligramma [fig. 23]; ma ciò che è importante notare è che qui Pasotelli aveva trovato nel saggio di padre Pozzi uno snodo teorico a sostegno di una relazione in qualche modo necessaria tra il suo lavoro visivo e quello sonoro.
Precisiamo meglio il concetto. Pasotelli avrà di sicuro riflettutto sull’affermazione pozziana secondo la quale “la poesia figurata opera precisamente sui margini delle inadempienze della scrittura per rapporto alla lingua” (Pozzi 1981, 37). Soprattutto della scrittura nella sua ipostasi tipografica, nel libro a stampa, che Pasotelli fa quasi completamente sparire dal suo orizzonte. Egli lavora proprio contro “il fantasma del rigo nero che traversa il bianco del foglio” e che secondo Pozzi “si è installato così profondamente nella coscienza delle nostre culture alfabetizzate da farci apparire la lingua come una linea di paroles che attraversa la langue” (Pozzi 1981, 34). E forse non a caso il nostro gridava invece “Oh Knock it down la Parole-et | amatez-la in beanze sillabe esitanti | d’esistere.” (Pasotelli 1991, s.n.p.): anche se, paradossalmente, la citazione si trova nell’unico – se si esclude un fascicolo di poesie giovanili – libro di poesia a stampa da lui realizzato13.
Si potrebbe aggiungere che la poesia figurata di Pasotelli si pone a operare anche sulle “inadempienze della lingua” nei confronti della voce e del corpo. Ponendo in campo ad ogni suo poemetto un enigma, insolubile come i suoi rebus, ostruendo di proposito il passo alla decifrazione da parte del fruitore della danza di scrittura e immagine fantasmatica, Pasotelli costringe l’occhio a diventare orecchio, a mettersi in ascolto. Ma la voce non è per lui semplice amplificatore di ciò che è (già) scritto, bensì via d’accesso e di creazione al corpo comune, beckettiana company che accomuna e mette sullo stesso piano poeta-esecutore e ascoltatore. Entro questo quadro potrebbe trovare senso anche l’aspetto glossolalico della poesia pasotelliana: si ricordi quanto la glossolalia fosse importante nelle comunità cristiane antiche per favorire il fervore della partecipazione (Bondi 2009, 246, con i rimandi relativi).
È soprattutto con uno dei capitoli ultimi, e capitali, della Parola dipinta che Pasotelli dialoga, e dal quale trae ispirazione. Stiamo parlando de Il carme, il cosmo, terzo capitolo della parte quarta, dove Pozzi sviluppa le valenze cosmologiche del calligramma (Pozzi 1981, 307-320). Sono queste che probabilmente interessano di più a Pasotelli. Lo studioso è ivi costretto a registrare un curioso scambio delle parti: all’altezza cronologica, guardacaso, del famigerato Barocco, ai suoi Caramuel, Kircher e compagni sembra sfuggire di mano il sofisticato ma apparentemente innocuo giuoco che si affannano a coltivare. Si sospetta insomma che, a forza di geometrie e gematrie, di protei e anagrammi e cosmologici calligrammi, il cosmo non sia più ormai per loro la poesia di Dio (genitivo soggettivo), ma che sia l’uomo – nella fattispecie il poeta cabalista ed enigmista – a poter ricostruire tramite la parola il cosmo medesimo, e al limite dunque anche lo stesso Dio che ne è il centro. Se si aggiungono i concomitanti terremoti della scienza sperimentale, la strada è per così dire tutta in discesa, e si arriva presto ad Apollinaire, che al centro del cosmo metterà se stesso, il divino artefice.
Pasotelli spodesta entrambi, Dio e Uomo, Dio e Io: essi non occupano alcuna posizione centrale nei suoi schemi cosmici (“Io son l’uom che ha perso l’io” si afferma del resto a chiare lettere in un passaggio di Ex, La ballata dell’oca). Altro che Poeta Demiurgo! Meglio il Guitto, come suona il titolo di un suo sintetico e intenso ‘manifesto’ (v. Pasotelli 1994, s.n.p.) che si conclude non a caso con una citazione delle Lettere da Rhodez di Artaud. Al massimo, al centro del mondo, Pasotelli ci piazza i poveri e spodestatissimi Adamo ed Eva [fig. 3], costretti alla sofferenza e al travaglio dopo la Caduta; Le canzoni di Ratagura, pur riferendosi alla leggenda indiana della tartaruga che regge il mondo, sono infatti un poemetto sul lavoro manuale e sulla fatica: Ratagura è appunto costretta a trascinarsi “toet el mont de sura”, tutto il mondo sulle sue spalle. Ancora, al centro di un gigantesco labirinto cosmico si intravede un minuscolo, spaurito Minotauro [fig. 6].
L’arte di Pasotelli è percorsa da una fortissima tensione anti-antropocentrica, della quale esempio macroscopico è – come tento di argomentare in Bondi 1995 – la cosmico-parodica tauromachia messa in scena in Taurus & Sciampuina. Ma un po’ ovunque, spesso ricorrendo all’uso del dialetto, i suoi animali prendono garbatamente in giro l’uomo (ad esempio, l’aquila dell’omonimo poemetto sibila, sorvolando in volo la terra: “El g’ha mia i occh l’om”, l’uomo non ha occhi...). In questa luce non appare più così inverosimile il fatto che, componendo il calligramma di O Opotoms, il nostro artista abbia tenuto in mente il grafo di S. Giovanni della Croce, in cui Pozzi riconosceva appunto una figura umana trasfigurata e si direbbe sfigurata, sminuita in homunculus dall’immersione nella notte mistica, nella quale si attinge appunto, invece di un uomo ‘superiore’, un’essenza umana posta nella zona d’indistinzione tra il divino e l’animale: O Opotoms è non a caso insieme una divinità benigna e una “razza ratta” che “non perdona”.
L’antropocentrismo cede nel mondo di Pasotelli, piuttosto che a una metamorfosi dell’uomo in animale, a un deleuziano divenire-animale, nella chiara consapevolezza che una totale identificazione con l’animale è impossibile. Di qui il recupero spesso parodico di determinate arcaiche valenze simboliche attribuite all’animale, le affordances con cui l’uomo ha nei secoli cercato di addomesticarlo a livello culturale. Ma solo passando dal microcosmo animale, in ogni caso, si può per Pasotelli risalire a un macrocosmo che includa in se stesso l’umano, anche nelle sue manifestazioni più problematicamente contemporanee, cui spesso alludono le caleidoscopiche allegorie di Serraglio (cfr. Bondi 1995, 235-237). Perché il simbolismo cosmico del calligramma permane a mio parere sintomo di una disperata volontà di ricomposizione del frammentario, di una tensione all’unitarietà del cosmo additata come ideale regolativo piuttosto che possesso di fatto.
A volte sembra quasi che sia stato il solo testo di Pozzi a suggerire a Pasotelli delle immagini letterali. Torniamo ai passaggi fondamentali contenuti nel succitato capitolo Il carme, il cosmo. Vi leggeremo a un certo punto:
“In quella stagione così intensamente consolata e dilaniata dall’idea religiosa, Dio, uccello seduto in perpetua cova nel mezzo del suo cerchio che è il mondo, faceva trasparire il suo splendore nella serie interminabile dei cerchi e dei quadrati sintattici, delle tavole permutazionali e degli schematogrammi cosmologici” (Pozzi 1981, 316, corsivo mio).
Nel 1982 Luigi Pasotelli compose un’Arkeopterix Kantata, della cui partitura riproduciamo la pagina finale [fig. 24], dove si nota chiaramente un abbozzo di calligramma a cerchi concentrici14. La Kantata propriamente detta consiste in una pazza litania consonantica parodiante il greco (forse) bizantino e il latino ecclesiastico, attraversata da inserti esplosivi di vociferazioni pappagallesche o come di un Ur-uccello preistorico, che sembra parlare a volte con accento germanico a volte bergamasco. Il tutto è disseminato da quella che sembra un’esortazione: “Sàlviati kirko!”, cioè "Sàlvati Chiesa". Capiamo bene, allora, che l’Arkeopterix non è altro che la Chiesa Cattolica.
Ma divino Archeopterix archeologico e filologico non era forse anche lo stesso padre Pozzi, che sollevò consapevolmente tutto quel puzzo di sagrestia e di delicata follia enigmistica scrivendo il suo saggio, e rimanendone in qualche modo prigioniero? Pasotelli, dal canto suo, approfittò di quelle forme con la libertà che abbiamo visto, ma non senza consapevolezza.
Possiamo dire che l’atto storico-filologico e quello artistico sono, nella vicenda di riattivazione di una forma antica che abbiamo tentato di tratteggiare qui, alleati in favore della vita delle forme, del loro Nachleben. Il lavoro patiens di scavo, catalogazione e interpretazione scientifica rimarrebbe infatti letteralmente lettera morta se non ci fosse l’atto liberatorio dell’artista che se ne è appropriato, rimettendole in circolo, magari sfigurandole e/o rifunzionalizzandole. Ma l’atto dell’artista non è a propria volta che un’iperbole, o una metonimia, dell’atto di lettura con il quale ciascuno di noi, posto davanti a uno scritto, a un’immagine o a un calligramma, può ‘resuscitare i morti’ (cfr. Agamben 2007, 25-26).
Note
1 | Per maggiori dettagli sulla biografia umana e intellettuale di Pasotelli, mi permetto di rimandare a Bondi 2009, 229-231.
2 | Il frammento di lettera, senza indicazione di data e luogo, ma solo con il titolo "dalla corrispondenza Spatola-Pasotelli", è riportato in Pasotelli 1994, s.n.p.
3 | Così testimonia la bandella di Pasotelli 1995 riportando una sintetica bio-bibliografia dell’autore. I poemetti compiuti che ho identificato come sicuramente appartenenti al progetto sono però solo diciassette.
4 | Lo spettacolo, realizzato con Isabella Tirelli, fu rappresentato a Parigi, Parma, Polverigi, Milano, Roma, cfr. Festanti, Mollo, Panizzi 2011, 9.
5 | Da ricordare anche il fondo Pasotelli conservato alla Biblioteca Statale di Cremona, assemblato per le cure di Giovanna Pasotelli e Renato Rozzi. Per quanto si tratti per la maggior parte di copie, esso è pur sempre il più cospicuo fondo di opere grafiche, prosastiche, nastri magnetici e compact disc di cui possiamo disporre per conoscere l’opera del misconosciuto artista.
6 | Il mezzo materiale con cui tali pagine venivano realizzate erano gli allora comunissimi ‘trasferibili’, con l’aggiunta di interventi grafici a penna, pennarello o matita e inserti a collage. Ne risultava una matrice pronta per essere trasformata in fascicoli fotocopiati.
7 | Per una loro collocazione entro il panorama delle riprese di questa forma ludico-enigmistica nell’arte contemporanea, v. Tornielli di Crestvolant 2010, 83-84.
8 | Già da questo breve specimen salta all’occhio l’assurdità di voler traslitterare in caratteri tipografici ‘normali’ quanto Pasotelli, coll’aiuto dei suoi 'trasferibili' – prodotto povero da cartoleria d’antan cui tanto dovette certa poesia visiva – aveva istoriato nel calligramma e nella partitura).
9 | Come tale esso era già stato talvolta utilizzato dalla poesia visiva: si veda in questo numero l’esempio di Emilio Villa riportato nell’articolo di Chiara Portesine.
10 | Ad esempio tenendo in considerazione la possibilità di un’influenza del mandala buddista, che Pasotelli può aver conosciuto durante la sua permanenza in India.
11 | Il doppio volumetto Prigione / Piano di fuga [1989-1991] è un collage della descrizione e della pianta di un bagno di pena al quale corrisponde una performance sonora con effetti straordinari di angoscia e grottesco ossessivo. Alla stessa ispirazione si possono riportare anche i Disegni dal carcere, sempre del 1989, che sotto un titolo ironicamente gramsciano nascondono una serie di collages con inquietanti titoli-motti, cfr. L’orologio totale e altri.
12 | Cfr. La porta: calligramma e altre poesie visive, 1983. Copia fotostatica (9 cc. n.n.) e registrazione del testo su cassetta audio, busta 17 del fondo Pasotelli alla Biblioteca Statale di Cremona.
13 | Nel quale, comunque, le ‘linee’ dei versi sono avvolte/stravolte in spire serpeggianti, attraversate da singulti e scariche di maiuscole, appese a capilettera iperbolici.
14 | La figlia dell’autore conserva la matrice di un calligramma compiuto, di grande qualità grafica, di cui non vi sono tracce (copie fotostatiche o altro) nel fondo Pasotelli della Biblioteca Statale di Cremona.
N.B. Le figg. 11, 12, 13, 14, 16, 17, 18, 21 si riproducono per gentile concessione della casa editrice Adelphi.
Bibliografia
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G. Agamben, Ninfe, Torino 2007.
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F. Bondi, Tauromachie non latenti. A proposito del più grande poeta “sonoro” italiano, in F. Bondi e N. Catelli (a cura di), Per violate forme. Rappresentazioni e linguaggi della violenza nella letteratura italiana, Lucca 2009, 225-247.
Costa, Villa 1970
C. Costa, E. Villa, Il Mignottauro, Macerata 1970.
Festanti, Mollo, Panizzi 2011
Corrado Costa. Inventario dell’archivio e bibliografia, a c. di M. Festanti, A. Mollo e C. Panizzi, Reggio Emilia 2011.
Fontana 2003
G. Fontana, La voce in movimento, Monza e Frosinone 2003.
Foucault [1977] 2009
M. Foucault, Vita degli uomini infami, [Paris 1977] Bologna 2009.
Manica 1983
R. Manica, Insomma è un libro il mondo, "Tam Tam" 33/34, maggio 1983.
Pasotelli 1985
L. Pasotelli, Rebus 1/25, con una nota di A. Spatola, Supplemento a "Tam Tam" 44/b, giugno 1985.
Pasotelli 1994
L. Pasotelli, Serraglio, Castelvetro Piacentino 1994.
Pozzi 1981
G. Pozzi, La parola dipinta, Milano 1981.
Spatola 1985
A. Spatola, O, nota introduttiva a L. Pasotelli, Rebus 1/25, Supplemento a "Tam Tam" 44/b, giugno 1985, 3-5.
Tornielli di Crestvolant 2011
M. Tornielli di Crestvolant, scheda sui Rebus 1/25, in A. Sbrilli, A. De Pirro (a cura di), Ah, che rebus. Cinque secoli di enigmi fra arte e gioco in Italia, Milano, 2010, 83-84.
English abstract
This paper aims to shed some light on one aspect of the art of Luigi Pasotelli (1925-1993), one of the more eminent (and less known) performers and graphic artists of the Italian scene between the 1980s and the 1990s: Pasotelli’s peculiar use of the ancient form of “calligramma” or “carme figurato”. In particular, I will try to show how Pasotelli was strongly influenced by Giovanni Pozzi’s masterpiece, La parola dipinta, which was first published in 1981, the starting year of Pasotelli’s artistic career. From this book, Pasotelli doesn't only take a certain amount of iconic patterns but also a theoretical frame in which he inscribes his work on visual poetry. Then, I will discuss the meaning of the animal and cosmic symbols in the context of the Pasotelli’s poetics.
keywords | Poesia verbovisionaria; Avant-Garde; Luigi Pasotelli; Visual poem; Giovanni Pozzi.
Per citare questo articolo: Fabrizio Bondi, Il Guitto e l’Arkeopterix. Sul visibile poetare di Luigi Pasotelli, “La Rivista di Engramma” n. 145, maggio 2017, pp. 235-252. | PDF dell’articolo