Contro il naufragio della memoria
Letteratura europea e Medio Evo latino di Ernst Robert Curtius: approssimazioni all’edizione definitiva
Silvia De Laude
English abstract
1. Preliminari
Nel 1947, quando Letteratura europea e Medio Evo latino non era ancora apparso a stampa, ma la lunga stesura del libro era giunta al termine, Ernst Robert Curtius – ribattezzato ‘Ernst Stockman’ nel romanzo autobiografico del suo amico e protetto Stephen Spender The Temple, scritto nel 1929, ma apparso postumo quasi sessant’anni dopo (Spender 1988) – pubblica una recensione ai due volumi sul XII secolo del gesuita belga Joseph de Ghellinck, che aveva frequentato secondo la testimonianza dell’inedito Römische Tagebuch durante il suo anno sabbatico romano (1928-29), quando il gesuita belga insegnava all’Università Gregoriana (v. Ghellinck 1947). Vi si legge, fra l’altro:
Il lavoro di Gröber era un grande inventario, un catalogue raisonné della letteratura latina medievale. La voluminosa opera di Manitius assomiglia a un sotterraneo in cui siano conservati e ben catalogati migliaia di documenti. Padre de Ghellinck ne ha tratto gli elementi di maggior valore, erigendo con essi un nuovo edificio ben illuminato. È sorto così un “museo del Medio Evo latino”, che dispenserà insegnamenti e piaceri al ricercatore come al dilettante appassionato. Un mondo sommerso è stato risvegliato a nuova vita (Curtius 1947, 618).
Nel variare su una metafora che avrebbe potuto comparire tra quelle di cui è ripercorsa la storia nel suo libro-monumento alla sopravvivenza dell’antico, è difficile che Curtius non pensi anche a se stesso, tanto che l’immagine ricompare nell’Avvertenza bibliografica di Letteratura europea e Medio Evo latino (Curtius [1948, 19542] 1992, 659). È lui, Curtius, a pensarsi in qualche modo come erede e continuatore di tutti e tre (Gröber, Manitius, il Père de Ghellinck), con l’eco di un’idea hegeliana di sintesi, ripresa in dissolvenza analogica: è lui a pensare se stesso come il compilatore di un inventario, il salvatore di reperti e il costruttore di “un nuovo edificio ben illuminato” che li metta in valore. È lui, soprattutto, a evocare i fantasmi di “un mondo sommerso”, e a risvegliarlo “a nuova vita”
2. La doppia dedica a Gustav Gröber e Aby Warburg
Quando esce, a Berna da Francke, il libro è aperto da una doppia dedica, a Gustav Gröber, maestro di Curtius a Strasburgo, e ad Aby Warburg: prevedibile la prima (con lui Curtius aveva discusso la sua tesi di laurea, un’edizione dell’antico francese del Quatre live des reis, “a piece a medieval research in Gröber mould [sic!]”, secondo Dronke 1980, 1104); molto meno (allora) la seconda, almeno a chi non sapesse, nella cerchia degli amici e allievi di Curtius (ricordo almeno Hoche 1966), e nel consesso dei collaboratori che di Warburg avevano portato avanti la ricerca, come Curtius fosse rimasto folgorato a Roma, nel 1929, dalla prima presentazione ufficiale dell’Atlante Mnemosyne. È lì – sono ormai cose risapute – che un Curtius fino a quel momento interessato soprattutto alla letteratura contemporanea, in corrispondenza con Gide, Joyce, Eliot, Proust, e non particolarmente in sintonia per sua esplicita ammissione con questioni attinenti alle arti figurative, viene per la prima volta a contatto con l’inconsueto approccio di Warburg al processo di trasmissione dell’eredità antica, restandone così colpito, dopo lo smarrimento iniziale di fronte ai fitti pannelli esposti nella Sala Grande dell’Hertziana (De Laude 2012), da procurarsi poi i pochi scritti pubblicati da Warburg in vita, e a informarsi in séguito, soprattutto attraverso Gertrud Bing (Warburg muore già nel 1929), sulle ricerche ancora sommerse dello studioso di Amburgo, comprese le più lontane dalla sua forma mentis, come quelle sui rituali degli Hopi (la corrispondenza fra Curtius e gli studiosi dell’Istituto Warburg è stata pubblicata da Wuttke 1989, su cui cfr. De Laude 2005).
Così, per esempio, scriveva il 25 giugno del 1935 a Getrud Bing, in merito a un ritratto da lui tracciato di Warburg ad uso del filosofo Jacques Maritain:
Gli ho spiegato che la sopravvivenza dell’antico è la preoccupazione principale di Warburg, ma naturalmente gli ho detto qualcosa anche delle Pathosformeln e degli Indiani (Wuttke 1989, 79).
Meno noto è che l’ampio studio del 1936 su Calderón und die Malerei, confluito nella canonica raccolta di saggi di filologia romanza apparsa da Francke a Berna (Curtius 1950), e ancora mai tradotto in italiano, fosse stato scritto dopo aver consultato Fritz Saxl sul topos del Deus Pictor e altre curiosità iconografiche (per esempio in margine al Giove pittore di Dosso Dossi; cfr. la lettera del febbraio 1936, in Wuttke 1989, 85); il saggio era stato accolto con entusiasmo nella cerchia londinese, al punto che Saxl lo definirà “la nuova Bibbia dell’Istituto Warburg” (ancora il 17 dicembre 1950, in Wuttke 1989, 204). Nel 1938, da parte dello stesso Saxl era giunta a Curtis la proposta di ripubblicare il saggio in forma di piccolo libro, con l’aggiunta di illustrazioni, nella collana dell’Istituto. Non se ne era fatto più nulla, per colpa della guerra, ma certo se il libro su Calderón e la pittura fosse uscito sarebbe apparsa con maggiore evidenza la linea di una filiazione elettiva che alla maggior parte dei primi lettori doveva essere rimasta oscura.
3. Non che gli indizi mancassero, soprattutto col senno di poi
Non che gli indizi mancassero, soprattutto col senno di poi. E infatti l’influenza esercitata da Warburg su Curtius è ormai un dato acquisito, soprattutto in Italia, dove il ritardo con cui è arrivata la traduzione di Letteratura europea e Medio Evo latino ha consentito di leggerlo da sùbito senza equivoci come un “classico della Crisi” (cfr. Antonelli 1992), un’inquieta rivisitazione dell’antico, e non un pur ricchissimo repertorio di topoi di ascendenza greco-latina (cfr. De Laude 1989; Segre 1992; Antonelli 1992; Bologna 2004; ma già in ambito tedesco almeno Wuttke 1982a; 1982b; 1989).
Il più clamoroso: topoi letterari di particolare intensità emotiva qualificati come Pathosformeln, che è termine tecnico negli scritti di Warburg fin dal 1905 (vedi almeno Ginzburg 1966; Barash 1991; Settis [1995] 2004; Port [1999] 2004), senza che Curtius d'altra parte lo segnali. Una semplificazione, in qualche caso, ma in qualche modo autorizzata dalla stessa Gertrud Bing, desiderosa di diffondere le idee del maestro al punto a volte di semplificarle, come quando scrive, nell’Introduzione a La rinascita del paganesimo antico:
In retorica, una forma divenuta convenzionale, usata correntemente per comunicare un significato o uno stato d’animo, è detta topos. Il Warburg stabilì l’esistenza di qualcosa di analogo nelle arti figurative. (Bing 1966, XX)
La Premessa (anzi le Premesse) alla prima e alla seconda edizione di Letteratura europea e Medio Evo latino, però, non esplicitano in alcun modo il senso dell’omaggio, e nel libro stesso sulla sopravvivenza dell'antico nella letteratura europea Warburg è citato apertamente solo per questioni marginali nel disegno generale della ricerca — i consulenti iconografici di Botticelli, i “guardiani di Sion” che si ergono come difensori delle frontiere disciplinari o la sequenza delle Arti liberali (De Laude 1989; Ead. 2012).
Appena una nota, e rapidissima, persino sull’episodio della Giustizia di Traiano, centrale per lo studioso di Amburgo come esempio di possibile “inversione energetica” ma anche (stando al Diario romano, il suggerimento veniva da Getrud Bing) di “inversione etica” – qualcosa che assomiglia molto, nelle parole della Bing, all’“interpretazione del pensiero tipologico” (con immediata aggiunta di Warburg, nel diario a due mani: “è altrettanto facile confondere l’imperatore che restituisce la provincia (elevamento della donna che giace a terra) col tipo di Cristo nel limbo che libera i Patriarchi” (cfr. Warburg, Bing [1929] 2005, 46). Un punto importante, questo, solo parzialmente sfruttato nell’organizzazione dell’Atlante Mnemosyne (sì però nella tavola dedicata all’arco di Costantino), ma tale da gettare un ponte verso quell’altra summa della tradizione europea che è Mimesis di Erich Auerbach, di cui appunto l’interpretazione figurale è uno dei ‘fuochi’ (per la nozione di “figura” e “prospettivismo cristiano” in Mimesis, osservazioni stimolanti, in rapporto all’ebraismo, sono in Ginzburg 1998, 189 n. 33; Id. 2007).
Niente, o pochissimo, contro i rischi dell’“attuale dottrina dell’autonomia del genio”, nefasta a chi voglia studiare la questione dell’influenza, della continuità e della gestione del “patrimonio ereditario” senza rimanere impastoiato nel pregiudizio che solo i prodotti artistici sommi meritino attenzione — quello che Warburg nell’Introduzione a Mnemosyne diceva con una metafora botanica:
Chi vuole può pure accontentarsi di una flora fatta delle piante profumate e più belle. Certo è che da qui non si ricava una fisiologia vegetale della circolazione della linfa, poiché essa si rivela solo a chi è capace di esaminare la vita nel suo intreccio sotterraneo di radici (Warburg [1929] 2007, 822).
Alludendo forse, quasi trent’anni dopo, agli anni del carteggio con André Jolles sulla Ninfa (Contarini, Ghelardi 2004), in cui scriveva all’amico:
Ti senti pronto a seguirla come una idea alata attraverso tutte le sfere in una amorosa ebbrezza platonica; mentre io mi accontento di volgere il mio sguardo filologico sul terreno dal quale è emersa, e a chiedermi con stupore: questa strana e delicata pianta ha davvero le sue radici nell’austera terra fiorentina? Forse un astuto giardiniere — con una segreta propensione per l’elevata cultura rinascimentale — ha insinuato nei riluttanti Tornabuoni l’idea che adesso tutti devono avere un simile fiore alla moda, un tale gioioso e fantastico punto di attrazione al centro del proprio sobrio giardino privato? (Warburg, Jolles [1900] 2004, 50)
Della necessità di superare l’idea dell’autonomia del genio, Warburg aveva parlato anche alla conferenza all’Hertziana. Curtius non lo dice, ma è possibile che la conferenza sia una matrice della svolta che da collezionista di eccellenze lo trasforma in ricercatore di tessuti connettivi e in studioso di fenomeni che attengono a una specie di biologia letteraria (Antonelli 2011, 13-15).
4. Le Premesse alla prima (1948) e alla seconda (1954) edizione di Letteratura europea e Medio Evo latino
Cosa dice, allora, la prima introduzione a stampa (Vorwort, sempre preferito da Curtius a Einleitung)? E cosa la successiva, di sei anni dopo (1953)? Quello che si impone, in entrambi i casi, è il riconoscimento dell’intenzione di dimostrare la continuità di una tradizione in pericolo, ponendo un argine al naufragio della memoria:
Quando incominciai i miei studi preliminari, avevo pubblicato il saggio polemico Deutscher Geist in Gefahr [‘Lo spirito tedesco in pericolo’, 1932]. Denunciavo la capitolazione dell’intellettualità [Bildung] tedesca, l’odio per la cultura [Kultur] e le sue motivazioni sociopolitiche. Il libro Letteratura europea e Medio Evo latino è nato dal desiderio di servire alla comprensione della tradizione occidentale nelle sue manifestazioni letterarie. (Curtius [1948, 19542] 1992, 11)
L’Occidente, l’Europa, stanno capitolando, facendo a pezzi la loro tradizione. Il desiderio allora è di “mettere in luce con nuovi metodi l’unità di questa tradizione nello spazio e nel tempo”. Ripensando alla sua fatica, Curtius riecheggia, citandosi, la recensione a Jacques de Ghellinck, e in linea con Gustav Gröber sceglie per sé il ruolo di paziente e turbato raccoglitore di frammenti, da ordinare come in un mosaico per far risultare un disegno sconvolto dalle barbarie:
Il mio libro non è il prodotto di finalità puramente scientifiche ma della preoccupazione per la salvaguardia della cultura occidentale. Tenta infatti di mettere in luce con nuovi metodi l’unità di questa tradizione nello spazio e nel tempo. Nel caos spirituale contemporaneo è divenuto necessario, ma anche possibile, dimostrare questa unità. (Curtius [1948, 19542] 1992, 9)
4. La premessa del 1945, che in “Letteratura europea e Medio Evo latino” non è comparsa mai
Qualcosa di più, però, si leggeva in una prefazione scritta nel 1945, e sostituita, all’uscita del libro, da quella della princeps. Apparsa sulla rivista “Die Wandlung”, quando il libro era in dirittura d’arrivo ma ancora in fieri, Curtius aveva deciso di riproporla nel 1950 come appendice dei Kritische Essays, con una laconica premessa:
Le pagine seguenti apparvero nel 1945 sulla rivista di Heidelberg “Die Wandlung”. Il manoscritto del libro incompiuto venne ancora rielaborato fra il ’46 e il ’47, e apparve nel 1948 con un altro titolo (Curtius [1945] 1950, 431).
Il titolo originario, sostituito a quello che conosciamo (Europäische Literatur und Lateinische Mittelalter), punta il riflettore sul Medioevo latino prima che sulla letteratura europea (la premessa è presentata come Vorwort zu einem Buche über das Lateinische Mittelalter und die Europäische Literatur), e compare anche in una lettera del 21 novembre 1946 a Getrud Bing — la stessa lettera, significativamente, in cui Curtius chiede alla collaboratrice di Warburg a che punto siano i lavori per l’edizione dell’Atlante:
A che punto siete con l’edizione dell’opera postuma di Warburg? […] Fino all’estate del ’44 ho potuto lavorare molto intensamente e fra il ’38 e il ’44 ho pubblicato 22 saggi sul problema della letteratura medievale, soprattutto quella latina. Da qualche mese cerco di dare a questo materiale forma di un libro, che si dovrà intitolare Lateinisches Mittelalter und europäische Literatur (Wuttke 1989, 137-8).
Anche nel ’45 Curtius ricorda la crisi storica evocata nel ’47 e nel ’53 come sfondo della gestazione del libro, ma la mette in rapporto, qui e solo qui, con una crisi personale che con quella storica si intreccia in modo indissolubile.
Ad averlo spinto verso il passato, scrive, è una “cogente necessità interiore”, e questo passato ha da subito il volto enigmatico di una Roma aeterna non dissimile da quella descritta da Warburg nella conferenza dell’Hertziana, oltre che nell’introduzione a Mnemosyne — Roma come la città dell’alloro e della palma, dove è più perturbante l’incontro-scontro con mondi apparentemente incompatibili, e più esplosiva la possibile frizione fra due visioni che offrono agli artisti sollecitazioni estreme:
Chi si incamminava verso Roma sulla via Appia, avvertiva il contrasto sconvolgente tra la cultura dei gentili e quella cristiana, nel minaccioso simbolo di opere architettoniche pagane. La città dell’alloro e della palma si stagliava sull'arco di Costantino e sul Colosseo. Superbia e Pietà esigevano che si prendessero decisioni nel corso della vita. Il Medioevo cristiano seppe opporre a questo dilemma una terza, sapiente soluzione, e cioè la re-interpretazione del significato interiore di questi monumenti della Superbia trionfale: lo dimostra, per esempio, la leggenda della giustizia dell’imperatore Traiano. Dopo che papa Gregorio aveva intercesso per questo imperatore non battezzato aprendogli la strada per il Purgatorio, avvenne la trasformazione dello spietato carattere di Traiano, nella leggenda della sua giustizia, che portò lo stesso Dante a ricordarlo in modo commovente. Dante descrive quell'episodio come il soggetto di un bassorilievo [cfr. Purgatorio, X, vv. 70-96] (Warburg, 1929a).
In realtà il Colosseo, situato a pochi passi dall’Arco di Costantino, ricorda impietosamente ai Romani del Medioevo e del Rinascimento che nella Roma pagana l'impulso primordiale al sacrificio umano aveva ottenuto a forza il suo luogo di culto, e fino ad oggi Roma continua a mostrarsi in una perturbante duplicità: la corona trionfante dell’Imperatore e, insieme, il martire (Warburg, 1929b).
Non siamo, in fondo, nemmeno troppo lontani dalla Roma cui Sigmund Freud dedica una pagina famosa del Disagio della civiltà, apparso per la prima volta giusto un anno dopo la conferenza che aveva tanto segnato Curtius all’Hertziana:
Facciamo ora l’ipotesi fantastica che Roma non sia un abitato umano ma un’entità psichica dal passato similmente ricco e lungo, un’entità, dunque, in cui nulla di ciò che un tempo ha acquistato esistenza è scomparso, in cui accanto alla più recente fase di sviluppo continuano a sussistere tutte le fasi precedenti. Nel caso di Roma ciò significherebbe quindi che sul Palatino i palazzi dei Cesari e il Septizonium di Settimio Severo si ergerebbero ancora nella loro antica imponenza, che Castel Sant’Angelo porterebbe ancora sulla sommità le belle statue di cui fu adorno fino all’assedio dei Goti, e così via. Ma non basta: nel posto occupato da palazzo Caffarelli sorgerebbe di nuovo, senza che tale edificio dovesse esser demolito, il tempio di Giove Capitolino, e non soltanto nel solo suo aspetto più recente, quale lo videro i romani dell’epoca imperiale, ma anche in quello originario, quando ancora presentava forme etrusche ed era ornato di antefisse fittili. Dove ora sorge il Colosseo potremmo del pari ammirare la scomparsa Domus aurea di Nerone; sulla piazza del Pantheon troveremmo non solo il Pantheon odierno, quale ci venne lasciato da Adriano, ma, sul medesimo terreno, anche l’edificio originario di Marco Agrippa; sì, lo stesso terreno risulterebbe occupato dalla Chiesa di Santa Maria sopra Minerva e dall’antico tempio su cui fu costruita. E a evocare l’una o l’altra veduta, basterebbe forse soltanto un cambiamento della direzione dello sguardo, o del punto di vista da parte dell’osservatore (Freud [1930] 1978, 562-563).
Strati, emozioni, choc visivi prima ancora che culturali per chi si “incammini verso Roma sulla via Appia”, o si ritrovi davanti agli occhi il Colosseo, “situato a pochi passi dall’Arco di Costantino”; o ‘ammiri’ sempre dove sorge il Colosseo la scomparsa della Domus aurea di Nerone: luogo oltretutto, quest’ultimo, che risulta meta di pellegrinaggi di pittori e scultori del Quattro e Cinquecento, alla ricerca di fantasmi dell’antico (Agosti 1990).
5. La rivitalizzazione di una vecchia metafora
La prefazione del 1945 si chiude quasi rivitalizzando la più elementare nozione su cui si fonda la filologia romanza (romanze sono le lingue nate sul territorio che era dell’Impero romano). Roma si configura agli occhi di Curtius nel 1945 come matrice quasi fantasmatica di una totalità dispersa. Città santa della memoria, e archetipo di una continuità che ha le sue radici nel profondo della coscienza:
Roma era diventata per me la Città Santa, e non solo in tutti i suoi stadi storici, ma anche nella sua essenza spirituale, in un senso che trascendeva la storia [...]. Capii, col passare degli anni e dei decenni, che questo legame nascondeva il segreto di un simbolo. Quando conclusi il mio lavoro sulla Francia [i saggi su Barrès, Balzac, Larbaud, Proust, ecc.] scoprii che si era aperto qualcosa (Curtius [1945] 1954, 429-430).
Il primo frutto di questa scoperta di Roma è indicato nel saggio del ’32 sull’idea imperiale in Jorge Manrique (Curtius 1932), e proprio nel saggio su Jorge Manrique, oltre che nel pamphlet sullo “spirito tedesco in pericolo”, è riconosciuto nella prefazione del ’45 l’avvio delle ricerche che trovano il loro compimento in Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter:
Anche su questo terreno [l’ispanistica] il mutamento dei miei interessi a partire dagli anni Trenta mi riportò al Medioevo. E qui incontrai nuovamente la Roma del Palatino. In una famosa poesia del Quattrocento mi imbattei nell’idea imperiale di Roma come unità di misura valida per l’umanità in tutte le epoche. Mi diedi a investigare le implicazioni di questa idea, che aveva per me un significato profondo. Dal corso tranquillo delle mie ricerche, però, fui distolto dalla bruciante necessità [brennende Nöte] dei tempi (Curtius [1945] 1954, 431).
E qualche indizio in più del rapporto maturato con Warburg c’è, se proprio il saggio di Jorge Manrique è presentato alla Bing il 10 dicembre del 1934 come primo tassello di uno studio più ampio sulla “sopravvivenza dell’antico” in Spagna, paese di cui aveva sempre particolarmente amato la letteratura — il 2 aprile 1936 lo scrive anche Stephen Spender a Hilda Weber Schuster: “Sono d’accordo con Curtius che pensa che la Spagna sia uno dei paesi più interessanti, con forse i migliori poeti d’Europa” (Auden, Isherwood, Spender [1935-1936] 2012, 190). (E che impressione, fra l’altro, pensare Curtius, troppo spesso identificato con la figura di austero, ingessato e persino antipatico cultore della Tradizione, trovarselo come maestro e “figura quasi paterna”, secondo Matthew Spender, per la più brillante e trasgressiva gioventù gravitante a Berlino nei primi anni Trenta…)
Il termine usato da Curtius nella Premessa del ’45 è proprio “Nachleben der Antike”, che non era, d’accordo, un’esclusiva warburghiana, occorrendo se non altro come titolo del primo capitolo di un libro fortunato di Anton Springer (Springer 1886), ma da tempo era diventato l’etichetta con cui quasi per antonomasia era qualificato il suo campo di ricerca, di contro, per esempio, al Fortleben riferito alla vita postuma degli antichi dèi nell’“Umanesimo medievale” da Friedrich von Bezold, ben noto a Curtius (Bezold 1822). Per la sua Biblioteca, non per niente, Warburg aveva anche preso in considerazione il nome di “Institut für das Nachleben del Antike” (Settis [1997] 2004).
E vorrà dire qualcosa che Curtius, sempre nella lettera alla Bing, si preoccupasse che il saggio venisse incluso nella Kulturwissenschaftliche Bibliographie zum Nachleben der Antike promossa a partire dal 1934 dall’Istituto ormai londinese — quella che con la progressiva anglicizzazione dell’Istituto sarà ribattezzata dal ’38 A Bibliography of Survival of the Classics: agli occhi di Curtius, uno “strumento utilissimo” e “un’efficace promozione del pensiero warburghiano, tale da stimolare “impagabilmente la ricerca” (Wuttke 1989, 57).
6. Lo stesso itinerario, in una lettera a Jean de Menasce
Lo stesso itinerario è ricostruito nel 1945 in una lettera al domenicano Jean de Menasce (1902-1973), iranista dal ’49 all’École des Hautes-Études, dopo aver ricoperto altri incarichi all’Università di Friburgo (è splendido comprimario del profilo di Benveniste in Contini 1991, 141-147). Ebreo egiziano dottissimo, Menasce era cresciuto nell’Alessandria d’Egitto dei personaggi di Lawrence Durrell: i suoi anni e il suo ambiente non sono troppo diversi da quelli di Justine, Nissim o Mountolive. Aveva studiato in Inghilterra, tradotto dall’inglese (Bertrand Russell ma anche John Donne e T.S. Eliot), frequentato la cerchia di Bloomsbury. Una bella fotografia del 1922 lo ritrae (è il primo a sinistra) con Lady Ottoline Morrell.
Si era convertito al cattolicesimo nel 1926 ed era entrato prima nell’ordine francescano (1928) e poi, dopo soli due anni, in quello domenicano. L’amicizia con Curtius era nata quando il futuro religioso non aveva ancora concentrato la sua attenzione sugli studi orientali, e partecipava con insaziabile curiosità intellettuale alle “décades” di Pontigny, animate da Gide. Si sarebbe protratta, con momenti di maggiore o minore frequenza epistolare, per tutta la vita (cfr. almeno Gignoux 1974; Danzi 2002; e, per l’importanza del padre domenicano nella gestazione di Letteratura europea e Medio Evo latino, Godman 1990, 635). Anche al padre de Menasce, Curtius parla di una crisi personale e della scoperta quasi salvifica di Roma come ‘figura della Tradizione’, per un libro annunciato la prima volta il 12 dicembre, così:
Ho potuto lavorare in pace fino all’estate del ’44, continuando ricerche e pubblicando studi sul Medio Evo latino e francese. Poi, sono stato obbligato a nascondermi in una casa di campagna, non lontano da Bonn, per sottrarmi agli effetti nefasti del regime. Ero all’orlo di una crisi di nervi, e ho trascorso l’inverno e la primavera leggendo romanzi francesi e calmandomi con sonniferi. L’estate successiva, ho scritto il primo capitolo di un libro destinato a raccogliere i miei studi e implementarli di alcune idee generali sulla tradizione letteraria e quell’Europa che credo esposta agli orrori di una nuova guerra, provocata dalla Russia (Lange 1991, 111-2).
La lettera che più si avvicina alla prima prefazione, però, è scritta qualche giorno dopo, alla vigilia di Natale (24 dicembre), e raramente se ne trovano di simili, per intimità e tono di confessione, oltre che urgenza di scambio intellettuale, negli altri epistolari di Curtius (per la corrispondenza coi francesi, cfr. almeno H. e J. Dieckmann 1980; Danzi 2002; per il carteggio con Thomas S. Eliot, poeta a lui così affine, Godman 1989; per quello con l'allievo sfortunato ma dai mille talenti Karl Eugen Gass, borsista alla Scuola Normale di Pisa nel 1937, morto in guerra nel 1944 e autore di un bellissimo Diario pisano (Gass 1989), Curtius, Gass 2009; fra le più ampie raccolte apparse in séguito, sono da vedere almeno Curtius, Rycner 2015 e Curtius 2015).
Il titolo del mio libro sarà Medio Evo latino e romanzo. Studi sulla tradizione letteraria europea. All’inizio spiego il cammino che mi ha portato dagli studi romanzi a quelli latini. Roma è diventata per me fin dalla prima volta che vi ho soggiornato nel 1912 la città di tutto me stesso. Nel 1932 ho scoperto in una poesia spagnola del XIV sec. la continuità della tradizione romana in Spagna — soprattutto nella forma particolare di un canone di virtù ripartite fra dodici imperatori – da Augusto a Teodosio. In quel 1932 ho conosciuto profondi sconvolgimenti psichici, in cui si alternavano tensione produttiva e depressione grave. Ho scritto allora Lo spirito tedesco in pericolo, sono crollato, e ho dovuto consultare Jung a Zurigo. Era una crisi grave, in cui ho riconosciuto più tardi l’anticipazione incosciente dell’orrore che stava per cominciare nel 1933. Ma la guarigione è venuta dalla crisi. Obbedendo a una costrizione psichica, mi sono buttato nello studio del latino medievale [...]. Psichicamente questo significava una polarizzazione sulla Roma aeterna, che agiva su di me come un archetipo nel senso junghiano del termine, cioè come un simbolo caricato simultaneamente di un significato e di energie multiple. Ero libero di scegliere Roma cara e santa come stella che guidasse le mie ricerche e le mie ambizioni. O piuttosto, era Roma che sceglieva me, il Romano germanico. Il cammino di Roma doveva passare attraverso il Medio Evo latino, che costituiva da quel momento per me uno strato arcaico della mia coscienza. Ho redatto così fino al settembre del 1944 ventidue studi sul Medioevo, che mi sono serviti ad approfondire sempre di più le mie conoscenze [...]. Nell’estate del ’44 ho potuto abbozzare il primo capitolo del mio libro (Lange 1991, 114-5).
Nell’idea di una guarigione “venuta dalla crisi”, subito dopo la menzione del pamphlet sullo spirito tedesco in pericolo, si sarà riconosciuta un’eco dei versi di Hölderlin scelti come epigrafe del libretto: “Wo aber Gefahr ist, / wächst das Rettende auch”. Dov’è il pericolo, è anche la salvezza.
7. Il consulto di Curtius con Jung, a Zurigo (1945)
Uno sconvolgimento psichico, dunque, che aveva addirittura indotto Curtius a cercare un incontro con Jung — una notizia trascurata anche dai lettori più partecipi di Letteratura europea e Medio Evo latino, e più pronti a riconoscere che “nel caso di Curtius Jung valesse più di Freud” (Raimondi 1990, 41; cfr. però Godman 1990, 645-646). Ma da tener presente, credo, di fronte a tanti tentativi di liquidare l’interesse nei confronti di Jung solo come scappatoia per un Curtius imbarazzato di fronte ai problemi teorici posti dalla sopravvivenza dell’antico, e sollevatissimo di trarsi d’impaccio invocando a buon mercato l’atemporalità degli archetipi. Lui stesso, d’altra parte, lo ha ammesso nell’Author’s? Foreward to the English Translation (1953) di Letteratura europea e Medio Evo latino:
Nel mio libro ci sono cose che non avrei mai visto senza C. G. Jung (Curtius [1953] 1990, IX).
Nella stessa prefazione è citato Friedrich Nietsche, di cui Warburg teneva un ritratto nello studio, come esempio di quegli “individui isolati, che sono portati dalle convulsioni della storia a porre nuove domande” (ivi). Warburg, si sa, aveva parlato per quel tipo di individui come di “sismografi”.
Sarebbe una semplificazione stabilire un parallelo tra l’anamnesi che Curtius formula per il suo stesso libro sulla sopravvivenza dei topoi antichi nella modernità e il riconoscimento più volte espresso da Warburg sulla matrice profonda del proprio lavoro. In un appunto del 1929, per esempio, così:
Talora ho l’impressione di cercare di dedurre come uno psicostorico la schizofrenia del mondo occidentale dal figurativo e con un riflesso autobiografico: da un lato la Ninfa estatica (maniacale), dall’altro il luttuoso dio fluviale (depressivo) come i poli tra i quali l’uomo sensibile alle impressioni cerca di trovare il suo stile attivo (Warburg [1929c], 813-814).
Eppure, la vicinanza è profonda, e si avverte anche in scritti come il pamphlet sullo spirito tedesco in pericolo (Curtius 1932, su cui Weinrich 1978, 264-265; Bologna 2004, 52-53), qui messo esplicitamente in rapporto con la nascita di Letteratura europea e Medio Evo latino. Un pamphlet minuscolo, spesso frainteso, che condanna, con la capitolazione dell’intellettualità tedesca, il naufragio che minaccia l’Occidente cristiano, e indica come forma di resistenza alla barbarie incombente “un nuovo umanesimo” che si trova definito in questi (sorprendenti) termini:
È la scoperta inebriante di un’amata immagine primordiale [Urbild], incontro dello spirito moderno con una vita assopita nell’oscura profondità del sangue, e che si assicura della propria origine. Così Hölderlin ha scoperto gli dèi dell’Olimpo. Così si è compiuta la ricezione dell’antichità nell’arte del Medioevo e del Rinascimento. Così la grecità poteva rinascere nella scultura gotica delle cattedrali e le formule del patetico – gli engrammi psichici, come Warburg era solito chiamarli, nella pittura italiana (Curtius 1932b).
È forse l’unica menzione, da parte di Curtius, della nozione di “engramma”, e lo sfondo che consente di leggere tante pagine di Curtius, e forse lo stesso disegno di Letteratura europea e Medio Evo latino: Warburg, le “formule del pathos”, l’eredità greco-latina e i suoi fantasmi, le tracce che la “grecità” lascia nelle cattedrali gotiche o nella pittura italiana del Rinascimento, gli dèi pagani di Hölderlin, e insieme le ‘amate indagini primordiali’ che ciascuno porta in sé, e può far rivivere nell’“incontro dello spirito moderno con una vita assopita nell’oscura profondità del sangue, e che assicura della propria origine”.
Siamo, lo ricordo, nel 1932. Da parte di Curtius, quella di Deutscher Geist in Gefahr è la prima aperta menzione delle Pathosformeln, e la prefazione del ’45, che ci ha portati fin qui, appare come il punto in cui Curtius è più disposto a scoprire le carte sulla genesi della sua opera maggiore. Esponendosi sul piano personale più che nel ’47 e nel ’53, l’autore di un sorprendente libro-museo ne ricostruisce la genesi in una chiave che non nasconde (pur cifrandoli) i debiti contratti con Aby Warburg, e allinea, per rendere ragione del suo opus magnum, il disagio personale e il disastro della storia, la scoperta di un’antichità radicata nella coscienza e un culto della tradizione che è anche auto-terapia. Il tutto mentre un mondo si sgretola, e Roma, con la sua stratificazione di epoche, può configurarsi come stella “cara e santa”, o zattera a cui aggrapparsi in un rovinoso naufragio.
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English Abstract
The first Introduction to Curtius’ European Literature and the Latin Middle Ages, print out in Heidelberg review “Die Wandlung” (1945), is more revealing compared to the ones opening the book in his first (1948) and second (1954) edition. It says more about the personal crisis at source of the attempt to stem the wreck of Memory. It alludes to a therapeutic consultation with Jung in Zürich (1933), and shows amazing contact points with a letter to Jean de Menasce (1902-1972), perhaps the most honest and touching Curtius’ confession about the case history of European Literature and the Latin Middle Ages.
Per citare questo articolo: Contro il naufragio della memoria. Letteratura europea e Medio Evo latino di Ernst Robert Curtius: approssimazioni all’edizione definitiva, a cura di S. De Laude, “La Rivista di Engramma” n. 147, luglio 2017, pp. 11-29 | PDF dell’articolo