Naufragio con spettatore (a bordo). Petrarca “nocchiere della sua nave”
Roberta Morosini
English Abstract
La persistenza con cui un’immagine riappare nell’opera di un artista è spesso l’indice di una sua volontà di darle una carica simbolica, di farne un emblema o anche un’icona del messaggio o di uno dei messaggi importanti che egli intende comunicare. Le immagini con una tale funzione condensano spesso drammi, tesi, programmi che però proprio per la natura sintetica della loro formulazione esigono il ricorso al contesto generale dell’opera per riuscire a decrittarne il significato nel modo più aderente possibile ai segni che le creano. Ci riferiamo specificamente all’opera di Petrarca in cui il tema generale della vita concepita come viaggio è ben noto ai suoi lettori, perché il viaggio presuppone un traguardo, un’attesa, una strategia per raggiungerlo, quindi richiede costantemente il sostegno della virtù della speranza che, come sa ogni lettore, alita nelle opere petrarchesche, benché non sempre con l’ottimismo e con la fiducia che le si dovrebbero associare.
Ciò che ai lettori risulta meno ovvio è che questo viaggio esistenziale prenda spesso la via del mare e che venga raffigurato come ‘navigazione’. Non è difficile capirne il motivo: il viaggio per mare è spesso fatto in solitudine e soprattutto è esposto alle tempeste, ai naufragi, quindi a un tipo di ostacolo che rimanda a un momento indeterminato l’approdo. E su questa linea notiamo che la navigazione implica sempre un arrivo, un traguardo preciso che sono ‘porti’ — immagine la cui presenza non sfugge al lettore — ovvero l’equivalente figurativo delle mete esistenziali alle quali Petrarca è sempre ansioso di approdare. Il tema del mare e della navigazione, benché poco cospicuo, è abbastanza ricco e svolge una funzione fondamentale nell’immaginario petrarchesco, come pensiamo di aver dimostrato nel capitolo conclusivo di un libro dedicato al Mediterraneo, e la sua importanza che non è circoscritta al solo Canzoniere (Morosini, 2017; Picone, 1989-1990 e 1989).
Un tema ha le sue ‘sotto-specie’, per così dire, ma forse è meglio chiamarli 'motivi' perché dovremmo parlare di un’immagine bimembre, o di una diade in cui compaiono uniti insieme la nave e il nocchiero, quindi un mininucleo a potenziale narrativo — un motivo, appunto. Quest’immagine ricorre tanto frequentemente negli scritti di Petrarca che ancora una volta dobbiamo pensare ad essa in termini simbolici. Sembra una banalità? Forse, ma Petrarca non è mai banale, anzi dove sembra essere più piano e dimesso, può coprire sensi e fonti arcane grazie a quella suprema virtù dei geni che fanno apparire semplici le cose più complesse. Pensiamo: come si uniscono i due termini dell’immagine? Sono separabili? Come collaborano? La loro unione nasce dal caso? Come si vede non sono pochi i problemi che l’unione di nave e nocchiero può creare, e, come vedremo, dietro quest’immagine composita c’era una lunga tradizione filosofica che fa capo ad Aristotele.
Ma prima di toccare questo tema, facciamo una sorta di regesto dei luoghi dove Petrarca utilizza quest’immagine dall’apparenza trasparente. Non sarà una rassegna esaustiva, tuttavia produrrà una serie di loci che lasciano intuire quanto sia vitale e presente questa immagine nel vasto corpus dell’opera petrarchesca.
Le immagini di mari procellosi, di naufragi, di porti e di navigazioni sono frequentissime in Petrarca, sia nelle opere latine che nel Canzoniere. Non è una rivelazione né una sorpresa. La tematica è stata oggetto di vari studi e quindi non è necessario tornarvi per altro, essa era anche prevedibile considerando la concezione generale che Petrarca ha della vita come viaggio e questo è tanto più pericoloso quanto più viene realizzato per via marittima. Semmai su quest’ultimo punto può dirsi che se l’idea della vita come viaggio è addirittura ancestrale, il ‘viaggiare’ di Petrarca è piuttosto una forma di irrequietezza che un vero percorrere spazi. Chi si avvicina alle opere di Petrarca ne riporta immediatamente un senso di immobilità e insieme di un viaggiare accidentato, costantemente esposto al naufragio e quindi alla ricerca di porti sicuri dove mettersi al riparo dalla tempesta. Non a caso nel De remediis utriusque fortunae il "De gravi naufragio" (II, 54) sorprende non poco. Non abbiamo mai trovato un intero capitolo dedicato al naufragio in un’opera di morale (Morosini 2017).
Ci concentreremo dunque su un’immagine meno comune rispetto a quella della semplice navigazione e della nave in balia delle onde. Sembrerebbe anch’essa un’immagine scontata e perfino trita, e invece, dovutamente ricondotta alla sua fonte, può acquistare un senso psicologico e culturale e filosofico. È l’immagine del “nocchiero della sua nave”.
Intanto anche all’interno del corpus delle opere petrarchesche si distingue da altre metafore riguardanti la navigazione. Questa si allinea sostanzialmente lungo due tradizioni. Una risale a Orazio (Carm., I, 14) che fa della nave una metafora dello stato repubblicano.
Anche la Chiesa viene fin da tempi remoti raffigurata come una nave. Si veda, ad esempio, il sermone di Ambrogio, De Salomone, 10, e Agostino, Sermo 75 (De verbis Evangeli MT 14, 24-33). E si diffonde l’idea che senza il timoniere divino la nave della Chiesa non può attraversare il mare fino al porto celeste. Molti sono i luoghi dei Vangeli (ad es. Marco, 4, 35-45; Luca, 8, 22-25; Giovanni, 6, 16-21) in cui la barca o la nave raffigura il mezzo della salvezza pur attraverso i pericoli.
Nessuna sorpresa, dunque, se anche Petrarca ricorre all’immagine della nave, naturalmente nel senso voluto dalle Sacre Scritture. Ma proprio da queste immagini tradizionali si stacca quella bimembre della nave e del suo nocchiero o gubernator. E appena scorriamo il dossier dei loci vediamo presto che quell’immagine è qualcosa di più di una metafora: è una descrizione del suo ‘viaggiare’ nella vita, quindi più che una similitudine diventa una entificazione del suo modo di essere, di leggersi, di capirsi meglio facendo di un rapporto metaforico un vero rapporto di identità che consente una rappresentazione di se stesso icastica e apparentemente letteraria. E vedremo che in Petrarca esistono entrambe le dimensioni dell’immagine: quella consueta della nave simbolo della vita che passa, ma poi quella insolita e personalissima della nave che diventa la “sua nave” e in cui il gubernator non è altri che egli stesso.
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Vediamo prima le opere latine. Dobbiamo cominciare dal Secretum (I, 61-62) dove già si profila chiarissima la identificazione del proprio io con i termini metaforici o del linguaggio figurato:
Avertat Deus hanc insaniam: me ne huic confidere monstro, quod apud Virgilium famosissimus ille magister maris ait. Et ego, in mari magno sevoque ac turbido iactatus, tremulam cimbam fatiscentemque et rimosam ventis obluctantibus per tumidos fluctus ago. Hanc diu durare non posse certe scio nullamque spem salutis superesse michi video, nisi miseratus Omnipotens prebeat ut gubernaculum summa vi flectens antequam peream litus apprehendam, qui in pelago vixerim moriturus in portu.
[Mi salvi Iddio dalla follia di "fidarmi di un tale mostro", come in Virgilio dice quel famosissimo nocchiero. Anch’io, sbattuto in un gran mare furiosamente agitato con i venti che mi vengono contro, governo tra onde ribollenti la mia navicella tremula e fragile e piena di falle. So bene che non si può resistere a lungo e che non mi resta alcuna speranza di salvezza, se l’Onnipotente impietosito non mi concede di drizzare il timone con uno sforzo supremo e di toccare terra prima di perire, sì che io possa morire in porto dopo aver vissuto in alto mare].
L’immagine ricorre varie volte nel De vita solitaria ( I, 4, 14 e Prose 342). Rivolgendosi al suo amico Filippo de Cabassoles leggiamo:
Tertius gradus altior illarum est, quas purgati animi virtutes vocant, quarum munus est proprium, passiones, quas politice mollierunt, purgatorie convulserint, oblivisci. Hec perfectorum sunt, qui ubi sint nescio sed et qui fuerunt, solitudinem amarunt, et siquis usquam superest, quamvis hoc virtutum gubernaculo tutus in alto naviget, puto tamen solitudinis portum amet.
[Il terzo grado ancora più alto è di quelle virtù che essi chiamano dell’animo purificato: il loro compito è far dimenticare le passioni che le virtù politiche hanno mitigato, e che le purgative sradicato. Queste sono proprio degli uomini perfetti, che non so dove siano, ma quelli che esistettero nel passato amarono la solitudine, e se qualcuno ne rimane in qualche parte, per quanto sia sicuro sotto la guida del nocchiero delle virtù nel navigare in alto mare, credo tuttavia che ami il porto della solitudine].
Il passo per noi è particolarmente interessante per la menzione delle virtù “purgative” perché indicano chiaramente l’ascendenza plotiniana, e Plotino è nominato alla fine del paragrafo. In ogni modo è chiaro il motivo della vita solitaria e del porto come alternativa alla navigazione anche se retta da un nocchiero abilissimo: tutti motivi fondativi della queste petrarchesca della vita solitaria e serena.
Sempre nel De vita solitaria (II, 14, 4) leggiamo:
Tibi, pater, si te ipsum, tua si bona noveris, nichil deest quod gratam solitudinem et dulce otium possit efficere. Adest animus bonus, et a Deo bene institutus et a te non negligenter excultus multarumque artium ac rerum notitia instructus, animus humanorum actuum dux ac rector totiusque vite nostre gubernaculum tenens, ut iam tali gubernatore navigatio nisi felix esse non debeat.
[A te padre, se conosci te stesso e conosci i tuoi beni, sai che non ti manca niente di quello che possa rendere piacevole la solitudine e dolce l’ozio. Tu hai un’anima dritta di cui Dio ti ha ben dotato, e che tu hai coltivato senza negligenza nella conoscenza delle arti e delle scienze, e siccome è l’animo che guida le azioni umane e dirige tutta la nostra vita, con un tale nocchiero la navigazione deve essere necessariamente felice].
Se passiamo al De rerum memorandarum libri (I, 20, 5) troviamo l’immagine di un nocchiero che sa reggere bene il timone della vita:
Vitam quidem innumeris simultatum procellis inquietam duxit hinc sibi, velut gubernatori egregio ex tempestate maritima, non minus glorie partum quam laboris: "quater" eum et "quadragesies causam dixisse" testis est Plinius, et cum nemo "sepius" accusatus, "semper" tamen "absolutus" fuit. Quod, nisi fallor, et summe innocentie et importuni rigoris indicium videri potest.
[Condusse una vita travagliata scossa da innumerevoli tempeste di inimicizie ma da ciò trasse per sé non meno gloria che travagli, proprio come un egregio nocchiero da una tempesta marittima. Secondo quanto testimonia Plinio fu portato in causa quaranta quattro volte, e se nessun’altro fu chiamato in giudizio tanto spesso, fu comunque sempre assolto. Il che può sembrare indizio di rigore eccessivo, ma anche di somma integrità morale].
E ancora, nel De rerum memorandarum libri III, 96, 11:
Quis habenas post se rerum flecteret? quis regnum status acciperet? Circumspiciebat scopulos, meminerat procellarum, et ab aquilone lesus et ab austro venturasque presagiens tempestates, gubernator egregius clavum commissurus inexpertis.
[Chi dopo di lui avrebbe tenuto le redini del potere? Chi accetterebbe il governo dello stato? Guardava d’attorno gli scogli, ricordava le tempeste, nocchiero esperto sul punto di affidare il timone a chi non sapeva reggerlo, proprio lui che era stato danneggiato dall’Aquilone e dall’Austro e prevedeva le calamità venture].
Ma più pertinente per il nostro discorso è il seguente passo dal De otio religioso (I, 8, 5):
Infinita Dei bonitas, infinita potentia. itaque salva spe salubri, salva sunt omnia, ubi illam abieceris actum est gubernaculo carens, anime navigium in huius vite pelago rerum fluctibus et tentationum flatibus agitur, nusquam portus quo spes dirigebat, nusquam celum quod spes ostendebat, sed « undique pontus » ut ait Maro, unde naufragium et procelle
[Infinita è la bontà di Dio, infinita la sua potenza. Così, affinché la speranza della salvezza sia preservata, tutte le cose sono preservate se invece la si rigetta tutto è finito. Se l’anima naviga senza nocchiero nell’oceano di questa vita, essa diventa un giocattolo agitato dalle onde del mare e dai venti delle tentazioni senza che mai si diriga verso il porto della speranza, mai un cielo che additi la speranza, ma “ovunque è mare” come dice Virgilio, il mare ove ci sono il naufragio e la tempesta].
Non poche sono le immagini che ci provengono dal De remediis utriusque fortunae (Praefatio, I, 4) per cui ne preleviamo solo alcune.
Quamobrem, si vel plebeis scriptoribus pro affectu nudo gratiam aliquando habitam scimus, […] ceu totidem suaves ac felices aure, totidem industrii ac experti naute et portum nobis quietis ostendunt et eo voluntatum nostrarum lenta carbasa promovent et fluitantis anime gubernaculum regunt, quoad tantis procellis agitata consilia tandem sistat ac temperet? Hec est enim vera philosophia, non que fallacibus alis attollitur et sterilium disputationum ventosa iactanctia per inane circumvolvitur, sed que certis et modestis gradibus compendio ad salutem pergit. [… ] fortuna, que, ut aiunt, magne rerum partis imperium tenet, turbido quodam ac profundo negotiorum et curarum pelago iactandum dedit .
[Perciò noi saremo grati agli autori di minor rango del semplice piacere che ci procurano, […] essi sono come altrettante luci brillanti che portano luce al firmamento della verità, come altrettanti nocchieri infaticabili ed esperti che ci mostrano il porto del riposo rivolgendo verso di esso le flosce vele delle nostre volontà, e reggono fermamente il timone che lascia navigare la nostra anima e alla fine le fa uscire dalla burrasca così da tenerle capo e di regolarne i disegni].
Oppure, nel De remediis I, 109:
Atqui solent naute tempestate orta navis anchoram precidere si divelli nequit relictaque illa fugam capere non enim quod tranquillo mari apud poetam: "Dente tenaci / ancora fundabat naves". In magnis quoque pelagi motibus accidit, ubi non naves fundat illa sed alligat et naufragio vinctas tradit. Nec hercle aliter inter procellas humanarum rerum spes affixa et tenax multos in exitium traxit, qui abscissa utique et abiecta spe incolumes evasissent. Sepe igitur subtrahenda spei ancora vel, si hereat, evellenda si ne id quidem liceat, abscindenda rerumque sub fluctibus relinquenda est, ut liberam vite proram gubernaculo providentie dirigas ad salutis portum.
[Così, una volta nata una tempesta, i nocchieri sogliono tagliare, se non possono disincagliare l’ancora, e prendere la fuga abbandonandola. Infatti quello che succede in un mare tranquillo come dice il poeta: "L’ancora stabilizzava le navi col suo dente tenace" non accade in un mare in tempesta: l’ancora non può più stabilizzare la nave, essa anzi la blocca e la manda incatenata al naufragio. Ed è così, perdio, ciò che avviene della speranza, radicata e fissa nel cuore della tormenta dei travagli umani trascinare tanta gente alla distruzione quando invece avrebbero potuto uscirne senza danno tagliando la corda che le lega alla loro speranza. Spesso dunque bisogna rimuovere l’ancora della speranza, o di disincagliarla quando è legata al fondo e se anche questa operazione si rivela impossibile, bisogna tagliare la corda e lasciarla andare al fondo del mare per essere finalmente liberi e dirigere la nave verso il porto della salvezza avendo la provvidenza per nocchiero].
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Ma il numero più consistente di occorrenze si ha nel Canzoniere che è costellato di immagini marine, di un mare sempre procelloso, di naufragi, di navi distrutte dai flutti e dai venti, di piloti che reggono con difficoltà il timone con la conseguenza che la nave va dove il pilota non penserebbe mai di condurla. Seguiamo qui lo stesso criterio, seguendo il Canzoniere nella sua sistemazione ‘cronologica’ definitiva, anche se il criterio del progresso cronologico del viaggio ha in questa ricerca un rilevo piuttosto marginale.
Cominciamo con la menzione della nave nella sestina XXIX, Verdi panni, ai versi 36-42 dove figura solo l’immagine della nave con la funzione di condurre l’amante al glorioso regno, funzione che la nave attuale non è in grado di espletare, quindi un impedimento più che un efficiente mezzo di navigazione:
Da me son fatti i miei pensier’ diversi:
tal già, qual io mi stancho, l’amata spada
in se stessa contorse né quella prego che però mi scioglia,
ché men son dritte al ciel tutt’altre strade
et non s’aspira al glorïoso regno
certo in piú salda nave.
Al son. XLI, 10-11 appare invece solo la figura del nocchiero al quale vengono tolti gli strumenti di comando della nave e quindi le sue funzioni normali:
Orione armato
Spezza a’ tristi nocchier governo e sarte
Nella canzone LXXIII, Poi che per mio destino, i vv. 46-51 ritraggono la figura del nocchiero in alto mare e la sua nave, non menzionata ma presente, è in balia dei venti e procede perché guidata dai due fari degli occhi dell’amata:
Come a forza di vènti
stanco nocchier di notte alza la testa
a’ duo lumi ch’a sempre il nostro polo,
cosí ne la tempesta
ch’i’ sostengo d’Amor, gli occhi lucenti
sono il mio segno e ’l mio conforto solo.
Alla sestina LXXX, le parole rima scogli, legno, porto, vela consiglierebbero di riprodurla integralmente, ma per motivi di spazio ci limitiamo ai soli vv. 5-15:
però sarebbe da ritrarsi in porto
mentre al governo ancor crede la vela.
L’aura soave a cui governo e vela
commisi entrando a l’amorosa vita
e sperando venire a miglior porto,
poi mi condusse in più di mille scogli
e le cagion del mio doglioso fine
non pur d’intorno avea, ma dentro al legno.
Chiuso gran tempo in questo cieco legno
errai, senza levar occhio a la vela
ch’anzi al mio dì mi trasportava al fine.
Qui sono presenti non solo gli elementi della diade ma anche il traguardo che questa si prefigge nonché il punto di partenza, l’entrare “a l’amorosa vita”.
L’equivalenza nave-legno ritorno dopo lunga distanza nel son. CLXXVII, e nel son. CCXCII, 9-11:
E io pur vivo, onde mi doglio e sdegno
Rimaso senza’l lume ch’amai tanto
In gran fortuna e ’n disarmato legno
Quindi nel son. CXXXII, S’amor non è, appare la nave senza timoniere sballottata dai venti:
O viva morte, o dilectoso male,
come puoi tanto in me, s’io no ’l consento?
Et s’io ’l consento, a gran torto mi doglio.
Fra sí contrari vènti in frale barca
mi trovo in alto mar senza governo (vv. 7-11)
Un’altra occorrenza al son. CLI, 1-4:
Non d’atra e tempestosa onda marina
fuggío in porto già mai stanco nocchiero,
com’io dal fosco e torbido pensero
fuggo ove ’l gran desio mi sprona e ’nchina
Al son. CLXXVII, 5-8:
Dolce m’è sol senz’arme esser stato ivi
Dove armato fier Marte, e non accenna,
quasi senza governo e senza antenna
legno in mar, pien di penser gravi e schivi
Celebre è il sonetto CLXXXIX, Passa la nave mia colma d’oblio che a noi interessa per l’immagine della tempesta che sballotta la nave “colma d’oblio”, ossia uno stato di torpore mentale, di inconsapevolezza, di un corpo privo della capacità di intendere e di sentire. E ciò non è senza motivo: il timoniere ora è Amore stesso che è “nemico” del poeta, presumibilmente trasportato dalla nave ora guidata da altri.
Passa la nave mia colma d’oblio
per aspro mare, a mezza notte, il verno,
enfra Scilla e Cariddi ed al governo
siede ’l signore, anzi ’l nimico mio
a ciascun remo un penser pronto e rio
che la tempesta e ’l fin par ch’abbi a scherno
la vela rompe un vento umido, eterno
di sospir’, di speranze e di desio
pioggia di lagrimar, nebbia di sdegni
bagna e rallenta le già stanche sarte,
che son d’error con ignoranza attorto.
Celansi i duo mei dolci usati segni
morta fra l’onde è la ragion e l'arte:
tal ch’incomincio a desperar del porto.
Il tema che domina il sonetto è l’oblio, ossia la perdita di memoria e di propositi, con il risultato di una “cieca navigazione” in cui la nave porta il pilota senza che questi la guidi.
Possiamo vederne ancora un esempio nel sonetto CCLXXVII, non prossimo nell’ordine a quello riportato, ma l’anomalia dimostra che la cronologia non altera di molto il profilo del tema:
S’Amor novo consiglio non n’apporta,
per forza converrà che ’l viver cange:
tanta paura et duol l’alma trista ange,
che ’l desir vive, et la speranza è morta
onde si sbigottisce et si sconforta
mia vita in tutto, et notte et giorno piange,
stanca senza governo in mar che frange,
e ’n dubbia via senza fidata scorta.
Imaginata guida la conduce,
ché la vera è sotterra, anzi è nel cielo,
onde piú che mai chiara al cor traluce:
agli occhi no, ch’un doloroso velo
contende lor la disïata luce,
et me fa sí per tempo cangiar pelo.
Il son. CCXXXV è da trascrivere integralmente:
Lasso, Amor mi trasporta ond’io non voglio,
e ben m’accorgo che ’l dever si varca,
onde a chi nel mio cor siede monarca,
sono importuna assai più ch’i’ non soglio,
né mai saggio nocchier guardò da scoglio,
navi di merci prezïose carca
quant’io sempre la debile mia barca
da le percosse del suo duro scoglio.
Ma lagrimosa pioggia e fieri venti
d’infiniti sospiri or l’hanno spinta,
ch’è nel mio mare orribil notte e verno,
ov’altrui noie, a sé doglie e tormenti
porta, e non altro, già da l’onde vinta,
disarmata di vele e di governo.
Nelle terzine del son. CCLXXII, La vita fugge et non s’arresta un’hora, della parte “in morte” del Canzoniere, ritorna l’immagine della navigazione in un mare tempestoso:
Tornami avanti, s’alcun dolce mai
ebbe ’l cor tristo et poi da l’altra parte
veggio al mio navigar turbati i vènti
veggio fortuna in porto, et stanco omai
il mio nocchier, et rotte arbore et sarte,
e i lumi bei che mirar soglio, spenti.
Dove è interessante la rappresentazione di se stesso in terza persona, “il mio nocchier”: un distacco che attenua il pathos dell’espressione dei sentimenti ma in compenso conferisce un’enàrgeia (o evidentia) alla figura del poeta la cui nave è gravemente disabilitata a procedere nel viaggio.
L’ultima apparizione dell’immagine coincide con la canzone alla Vergine, la CCCLXVI che chiude il Canzoniere:
Vergine chiara et stabile in eterno,
di questo tempestoso mare stella,
d’ogni fedel nocchier fidata guida,
pon’ mente in che terribile procella
i’ mi ritrovo sol, senza governo,
et ò già da vicin l’ultime strida. (vv. 66-71)
Qui ritroviamo il nocchiero e la tempesta, mentre il timone è nominato espressamente ma solo perché manca in quanto la sua funzione sarebbe ormai inutile. La nave è ormai arrivata al porto e il viaggio è finito.
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Il nostro dossier ha documentato la presenza frequente dell’immagine in tutta l’opera petrarchesca e proprio per questo vorremmo capirne il significato, il senso e la strategia artistica. In primo luogo dobbiamo constatare che si tratta di un’immagine, almeno nella sua forma ‘bimembre’, non registrata in alcun altro autore volgare se non in Petrarca. Essa non ha alcun riscontro nell’Opera del Dizionario. C’è l’attestazione dantesca “nave senza nocchiero in gran tempesta” giustamente celebre per il contesto politico in cui Dante la colloca, riprendendo l’analogia nave/stato che, come abbiamo visto, risale a Orazio ma a parte questa, non ne conosciamo altre di rilievo, e comunque in nessuna di loro si associa il nocchiero alla nave, in una sorta di tandem come si vede in Petrarca. Inoltre nessun altro autore che parli della nave in tempesta o del nocchiero che perde il governo della nave si spinge oltre il limite della similitudine come fa invece Petrarca, il quale stringe la somiglianza fino a farla coincidere con una rappresentazione veridica del suo essere “una nave colta dalla tempesta” e un nocchiero che cerca di salvarla o che naufraga con essa. Insomma, Petrarca assume i segni della similitudine come segni 'autobiografici' che ridicono in termini di immagine lo stato di tumulto spirituale nel quale vive. Si direbbe che il tumulto della sua anima si entifichi in una nave nel delirio delle onde. Di solito la nave e il nocchiero condividono un destino identico, ma a volte non mancano i tentativi da parte del nocchiero di rettificare il corso e comunque di mostrare consapevolezza che il viaggio ha preso una direzione che lui originariamente non intendeva seguire. In entrambi i casi il suo destino è legato a quello della nave, come se questa fosse il suo corpo e il nocchiero fosse la sua volontà. E questo ci fa sospettare o che l’immagine della coppia nave/nocchiero sia un’invenzione di Petrarca o che lui la riprenda da una tradizione che, data la sua inclinazione aristocratica e letteraria, debba offrire garanzie di alta dignità intellettuale. E crediamo di poter far risalire questa immagine ad Aristotele. Una discendenza così illustre non solo conferisce all’immagine quel plus-valore, una specie di Aufhebung che la eleva nettamente dal livello ‘mediano’ al quale saremmo tentati di assegnarla, ma ci rivelerebbe una dimensione inedita delle letture di Petrarca.
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Aristotele usa l’immagine nel De anima, precisamente nel libro II, 1, 413a8-9:
ἔτι δὲ ἄδηλον εἰ οὕτως ἐντελέχεια τοῦ σώματος ἡ ψυχὴ <ἢ> ὥσπερ πλωτὴρ πλοίου.
[Inoltre non è per niente chiaro che l’anima non sia l’atto del corpo nel modo in cui il nocchiero lo è della nave.]
La similitudine è problematica perché coinvolge la nozione di ‘entelechia’, ovvero della perfezione dell’atto o l’‘attualità’ in termini, appunto, aristotelici, e che compaia in un contesto in cui Aristotele discute la nozione del movimento cercando di rispondere se l’anima sia il motore del corpo e in che modo ciò si possa spiegare. E non è un caso se l’immagine ha suscitato numerosissime discussioni fra i commentatori di Aristotele, e si è discusso persino se lo Stagirita sia stato il primo a crearla. Sembra che anche nei pre-socratici e in Platone esista l’idea, se non proprio l’immagine del “governare” (κυβερνᾶν, cioè 'reggere la nave') la nave per descrivere il rapporto anima-corpo [1] sembra certo però che sia stato Aristotele il primo a creare l’immagine nella forma che ci è pervenuta. Essa ebbe nel mondo antico e nel Medioevo una notorietà limitata, però, quasi esclusivamente ai commentatori di Aristotele (Hayduck 1882-1909), i vari Filipono, Alessandro di Afrodisia, Semplicio, e altri i quali furono tradotti in latino e fanno parte della complessa storia dell’Aristoteles Latinus. Sono autori che Petrarca avrebbe, in teoria, potuto conoscere, ma tutto ciò che sappiamo dei suoi interessi e delle sue competenze ci porta ad escluderlo. Semmai Petrarca avrebbe potuto ispirarsi alla ripresa dell’immagine aristotelica operata da Plotino. Questi la ricordò adattandola nelle Enneadi (IV, 3, 21), ma non sembra verosimlle che Petrarca avesse notizia di questa seconda attestazione — certamente molto più estesa di quanto non lo sia nel testo aristotelico — perché di Plotino sapeva soltanto quel che poteva leggere nel commento al ciceroniano Somnium Scipionis, e fra i pochi passaggi tradotti da Macrobio non figura quello che riguarda il nostro argomento. Semmai nel Commentum trovava una lunga discussione sull’idea del moto per stabilire se il motore si muova con ciò su cui imprime il moto oppure se rimanga immobile, e la discussione chiama in causa le teorie di Platone e di Aristotele (II, 13-16) ed è anche vero che al II, 15, 24 leggiamo:
Constat enim quod omne quidquid movetur, movet alia, ut dicitur aut gubernaculum navim aut navis circumfusum sibi aerem vel unda movere.
[Risulta infatti chiaro che tutto ciò che si muove muove altre cose, come ad esempio il timone muove la nave, la nave muove l’aria che la circonda e le onde].
E forse in questa immagine del timone che muove la nave si può cogliere un’eco del rapporto nocchiero/nave di Aristotele, ma niente di più. E l’immagine aristotelica non viene neppure sfiorata da Calcidio nel suo Commento al Timeo nei capitoli in cui discute il concetto di entelechia di Aristotele (Calcidio, Commentario al “Timeo” di Platone, CCXXIII-CCXXV).
L’immagine del nocchiero che fa corpo con la sua nave riappare ed entra in circolazione con le traduzioni del De anima e con i sui commentatori. Il primo traduttore, Giacomo di Venezia, la cui traduzione (nota come vetus) risale al 1125-1150, rende il passo di Aristotele nel seguente modo (Giacomo di Venezia, p. 44, col. A):
Amplius autem immanifestum si sit corporis actus anima, sicut nauta navis.
[Invero è molto poco chiaro se l’anima sia l’attualità del corpo, come il nocchiero lo è della nave].
La traduzione di Morbeke (1260-1270), la cosiddetta recens, rende così il passo (p. 44, col. B):
Insuper obscurum est, an perinde corporis anima sit actus ut gubernator navis.
[Inoltre è oscuro se l’anima sia attualità del corpo in modo simile a come lo è il nocchiero alla nave].
Nel commento allo stesso passo Tommaso scrive (p.45, col B, lectio II):
Et quia Plato ponebat quod anima est actus corporiss non sicut forma, sed sicut motor, subiungit quod hoc non dum manifestum est, si anima sic sit actus corporis sicut nauta est actus navis, scilicet ut motor tantum.
[Per quel che riguarda l’opinione di Platone che il corpo sia l’attualità dell’anima, non come forma ma come motore, Aristotele aggiunge che non è ancora chiaro se l’anima sia l’attualità del corpo come il nocchiero lo è della nave, cioè se è soltanto il suo motore].
E la similitudine ritorna nella lectio VI (su De anima I, 3, 406a5) dove si studia il movimento e il rapporto fra il motore e ciò che viene mosso e si dice che il nocchiero nella nave si muove secondo il movimento della nave, quindi non si muove da sé ma "secundum accidens”:
Omne enim quod movetur, movetur dupliciter: quia vel secundum se, vel secundum alterum, seu per accidens. Secundum se quando res ipsa movetur, ut navis: per accidens vel secundum alterum, quando non movetur ipsum, sed illud in quo est: sicut nauta in navi movetur, non quia ipse moveatur, sed quia navis movetur, non quia ipse moveatur. Unde hac est vera, scilicet navis movetur secundum se, nauta vero secundum accidens ( I, lectio VI, p. 17b).
[Tutto ciò che si muove si muove in due modi: o perché si muove da sé o perché viene mosso da un altro, cioè per un “accidente” quando non si muove da sé e che vien mosso da ciò in cui si trova. Come il nocchiero è mosso non da sé ma dalla nave in cui si trova. Di conseguenza la nave si muove da sé, mentre il nocchiero è mosso per accidente. È evidente che la nave si muove da sé, il nocchiero invero si muove per accidente].
Un commentatore anonimo attorno agli anni 1245-1250, usando la traduzione di Giovanni di Venezia del De anima (la versione cosiddetta vetus), inquadra la similitudine nel contesto del problema circa la separabilità del corpo dall’anima intellettiva ossia dal suo actus corporis, “sicut nauta navis” (Anonymi Magistri artium, Lectura in librum de anima a quodam discipulo reportata, p. 154).
Una analogia del genere si legge nella Metaphysica di Alberto Magno (Y, 1, 9):
Secundum analogiam enim sunt unum quaecumque se habent in unam habitudinem aliud et aliud, ut sicut tria ad unum, ita sex ad quattuor: et sicut gubernator navis ad navem, ita rector civitatis ad civitatem.
[Secondo l’analogia sono una sola cosa tutte quelle che si uniscono in un modo di essere l’uno e l’altro, così è il tre all’uno, così il sei al quattro, e così il nocchiero alla nave, così il reggitore di una città alla città].
E ancora nel De Homine, I, 1, Alberto Magno scrive:
Amplius quidem manifestum est, si sit corporis actus anima sicut nauta navis.
[Inoltre è che chiaro che l’anima si l’atto del corpo come il nocchiero lo è della nave].
In Bonaventura, nel De dieta salutis I, 9 ("De luxuria") leggiamo:
Navis enim numquam per se ad portum ducitur, nisi recte a nauta ducatur, vel regatur. Caro nostra est navis, et spiritus est nauta sed numquam caro veniet ad portum salutis, nisi spiritus ducatur gubernaculo virtutis imo sequeretur fluxum acquae, id est impetum luxuriae, et tandem praecipitaret hominem in mare oceanum damnationis aeternae. In figura hujus dicitur in Mattheo [cfr. Matteo,VIII, 24], quod navicula operiebatur fluctibus, quia vere caro nostra mergebatur fluctibus tentationis, nisi adesset auxilium divinae virtutis.
[In effetti la nave non viene portata in porto per suo conto se non ci viene portata o guidata correttamente da un nocchiero. La carne è la nostra nave, e lo spirito è il nocchiero ma la carne non arriva mai al porto della salvezza se non ve lo porta lo spirito con il timone della virtù, anzi seguirebbe la corrente delle acque, cioè l’impeto della lussuria, e alla fine butterebbe l’uomo nel mare oceano della dannazione eterna. Come immagine di questo si dice in Matteo che navicula aperiebatur fluctibus, perché la nostra carne sarebbe sommersa nelle onde della tentazione se non fosse presente l’aiuto della virtù].
Potremmo ricordare Jean de la Rochelle (Summa de anima, Consideratio 2, 17-18):
Ut anima diffinitur dupliciter quia dupliciter comparatur et unitur corpori, ut motor mobili et nauta navi.
[Come l’anima si definisce in un duplice modo perché in duplice modo viene comparata e unita al corpo, come il motore a ciò che è mobile e il nocchiero alla nave].
Potremmo citare varie altre attestazioni che proverebbero la diffusione di questa immagine ma in testi che con tutta probabilità non caddero mai sotto gli occhi di Petrarca (cfr. Kilwardby 1976). È importante, però, accertare due cose: la prima è che l’immagine avesse una certa diffusione perché così aumentano le possibilità che sia arrivata a Petrarca, il quale se ne sarebbe avvalso apprezzandone immediatamente la natura dotta o comunque letteraria, requisito per lui sempre seducente. L’altra cosa è che qualunque fosse la fonte da cui gli veniva, conservasse sempre il significato che fin dalle origini l’aveva sostenuta, ossia che la nave rappresentasse il corpo e il nocchiero l’anima o l’intelletto. Bastava questo significato primario perché Petrarca l’accogliesse fra le sue metafore preferite, anzi addirittura emblematiche: niente come quell’immagine bimembre poteva rappresentare meglio il suo conflitto spirituale e niente poteva raffigurare con maggior efficacia la sua disperata ricerca dell’armonia che avrebbe potuto placarlo. Poteva trascurare i problemi tecnici della dinamica o anche dell’entelechia, ma avvalersi della nozione che la nave può muoversi in una direzione che il timoniere non vuole, e che quando ciò accade il rapporto fra i due è disastroso perché chi regge la nave si muove inevitabilmente con essa, e questa si muove senza più seguire la direzione che egli dovrebbe e vorrebbe imporle. La volontà di chi conduce è impotente e il mezzo che si muove procede in balia di forze incontrollabili.
Il suo viaggiare, insomma è quasi sempre immobile, una forma, come abbiamo detto in Il Mare Francisci, di irrequieta stabilità. Il risultato è spesso il naufragio. Dal mar Tirreno a la sinistra riva, che forse ricorda un evento di naufragio accaduto durante il viaggio dalla Provenza a Roma per incontrare Giovanni Colonna, evento già ricordato nella Familiares IV, 6. È il viaggio da Nizza a Napoli per un’ambasceria del cardinale Giovanni Colonna [2].
E in questi casi, come mostra in modo eloquente la miniatura del codice Ital. 548, Petrarca si stringe al lauro, alla poesia e alla sua Musa Laura.
L’immagine della nave e del nocchiero, intanto, implica l’idea del viaggio che, come abbiamo visto, è il super-tema, o meglio il tropo, con il quale Petrarca rappresenta la vita. In secondo luogo presuppone la possibilità che la diade costituita dall’unione fra “l’agente motorio” e “l’ente mosso” — per stare nei termini aristotelici — si infranga o si incrini producendo una dinamica irregolare e imprevedibile.
Non sembra necessario dimostrare come quest’immagine cifri benissimo il dramma petrarchesco del suo vedere che le forze o le seduzioni della nave — intendendo per questo le belle cose terrene, l’amore e la gloria — siano quelle che intende porre sotto il governo della ragione (il nocchiero) ma come spesso questo lucido nocchiere sia dotato di scarsa volontà. Egli è costantemente in viaggio, diretto al porto della serenità mentale, della pace spirituale, ma le sirene dei beni mondani lo chiamano con la loro irresistibile voce, per cui finisce per abbandonarsi al rullio della nave, alla seduzione dei venti, alla gioia del desiderio, salvo poi a ribellarsi e decidere di cambiare rotta, di dirigersi verso il porto che gli addita la ragione e la fede. Quindi il suo viaggio si trascrive su un giornale di bordo che è “colmo di oblii”, di percorsi accidentati da deviazioni, di ritorni, di slanci in avanti e di inversioni di rotta.
Arriverà al porto della salvezza solo quando il nocchiero abbandonerà le nozioni di coordinate e di mappature che ha imparato alla scuola dei grandi maestri, e affiderà la propria navigazione alla fede, alla volontà vera che in essa ha la sua vera radice. È quanto leggiamo nella canzone finale, nella preghiera alla Vergine dove nave e nocchiero si affidano alla Madre di Dio. Alla fine del suo viaggio, dopo che Francesco sostiene un dibattito con Amore di fronte a Ragione (canz. 360), c’è la crisi risolutiva: Ragione risponde sorridendo, quasi con gusto maligno, che per dissolvere il dissidio, ‘la lite’ tra Amore e Francesco ci vorrà molto tempo. La critica ha visto nella risposta di Ragione la conferma che Petrarca non riesca a chiudere il dissidio che, in fondo, è così umano e così ‘pre-umanistico’. Ma non hanno visto che questa volta la crisi è di Ragione e non di Francesco. Questi finalmente ha capito che “la coscienza” e non la ragione deve imporre la rotta per la nave che Petrarca indica come sua (Cherchi, 2008): “passa la nave mia”. Quando leggerà nella propria coscienza ciò che veramente lo rende felice, che è l’amore di Laura in Paradiso, allora la volontà di raggiungerla non conoscerà tentennamenti, e il viaggio, sorretto della speranza, sarà lineare e avrà un esito felice.
Note
[1] Tracy 1982, 97-112 e sugli antecedenti pre-aristotelici 99-102. E cfr. anche Giardina 2009, 71-112.
[2] Su questo e altri episodi di viaggio, si veda Cachey 1997.
Fonti
Per Francesco Petrarca, le edizioni di riferimento sono: per i Rerum memorandarum libri, edizione a cura di M. Petoletti, Firenze, 2014, per il De remediis utriusque fortunae, edizione a cura di C. Carraud, Grenoble, 2002, per il De vita solitaria, edizione a cura di C. Carraud, Grenoble, 199, per i Familiarium rerum libri, edizione a cura di V. Rossi e U. Bosco, Firenze, 1933-1942 (rist. in Francesco Petrarca, Opere-Canzoniere, Trionfi, Familiarium Rerum Libri con testo a fronte, Firenze, 1993), per il Secretum, testo e traduzione a fronte a cura di E. Fenzi, Milano, 1992, per le Prose, edizione a cura di G. Martellotti, e di P.G. Ricci, E. Carrara. E. Bianchi. Milano-Napoli, 1951.
Per Alberto Magno, l’edizione di riferimento è Albertus Magnus, Opera omnia, a cura di E. Borgnet, Paris, 1890.
Per l’Anonimo Magister artium, l'edizione di riferimento è Anonymi Magistri artium, Lectura in librum de anima a quodam discipulo reportata, a cura di R. A. Gauthier, Collegii S. Bonaventurae Ad Claras Aquas, Roma, 1985.
Per Macrobio, l’edizione di riferimento è: Macrobio, Commento al Somnium Scipionis. Libro II, Introduzione testo e traduzione a Commentaria, cura di M. Regali, Pisa, 1990.
Per le traduzioni e commentari al De anima di Aristotele di Giacomo di Venezia e di Guglielmo di Moerbeke, di Tommaso, l’edizione di riferimento è: Aristotelis stagiritae De Anima, in Opera omnia, Parma, 1873, e ripr. a cura di A. M. Pierrotta, New York, 1949.
Riferimenti bibliografici
- Cachey 1997
T. J. Cachey, Peregrinus (quasi) ubique: Petrarca e la storia del viaggio, "Intersezioni. Rivista di storia delle idee", 27 (1997), 369-384. - Calcidio 2003
Calcidio, Commentario al “Timeo” di Platone, testo latino a fronte, a cura di C. Moreschini, Milano, 2003. - Cherchi 2008
P. Cherchi, Verso la chiusura. Saggio sul “Canzoniere” di Petrarca, Bologna, 2008. - Giardina 2009
G. R. Giardina, “Se l’anima sia entelechia del corpo alla maniera di un nocchiero rispetto alla nave”, in Anima e libertà in Plotino. Atti del Convegno Nazionale, Catania, 29-30 gennaio, 2009, a cura di M. Di Pasquale Barbanti e D. Iozzia, Catania, 2009, 71-112. - Hayduck 1882-1909
M. Hayduck, Commentaria in Aristotelis Graeca, Berlino, 1882-1909. - Jean de la Rochelle 1882
- Jean de la Rochelle, Summa de anima, a cura di T. Domenichelli, Prato, 1882.
- Kilwardby 1976
R. Kilwardby, De ortu scientiarum, a cura di A. Judy, Oxford, 1976. - Morosini 2017
R. Morosini, Petrarca e il “mare francisci,” in Racconti e immagini del mare salato. Spazi, itinerari e attraversamenti mediterranei. Dal romanzo medievale a Dante, da Petrarca a Boccaccio, Roma, 2017, in corso di pubblicazione. - Picone 1989-90
M. Picone, Il sonetto CLXXXIX, "Atti e memorie dell’Accademia patavina di Scienze e Lettere ed Arti – Memorie della Classe di scienze morali lettere ed arti", Padova, Presso la sede dell’Accademia, n.s. 102, 1989-1990, 151-177. - Picone 1989
M. Picone, Il motivo della navigatio nel Canzoniere del Petrarca, "Atti e Memorie dell’Accademia Petrarca di Lettere, Arti e Scienze", n.s., 51 (1989), 291-310. - Tracy 1982
T. Tracy, The Soul-boatman analogy in Aristotle’s De anima, "Classical Philology", 77 (1982), 97-112.
English Abstract
This article investigates the recurrent theme of maritime imagery in the works of Francesco Petrarca, particularly focusing on the symbolism of the ship and its navigator as central metaphors. These symbols are explored within the context of Petrarch’s poetic discourse, where they embody the journey of life, marked by existential quests and philosophical introspection. The navigator, or 'nocchiero', who steers the ship amidst the unpredictable seas, represents the self or soul navigating through the vicissitudes of life. This metaphor extends beyond a personal narrative to touch on broader philosophical themes of control, destiny, and human agency. The discussion links Petrarch’s imagery to classical and medieval traditions, highlighting its roots in the philosophical works of Aristotle and its resonance with the ship-state analogy used by earlie poets and philosophers. By examining the frequent appearance of these motifs across Petrarch’s corpus, the article illustrates how the poet uses maritime metaphors not merely as literary devices but as expressions of deep-seated philosophical concerns. The analysis provides insights into Petrarch’s engagement with his intellectual heritage and his profound contemplation of life as a perilous journey requiring moral and intellectual navigation.
keywords: Petrarch; Maritime Imagery; Philosophical Symbolism; Navigator Metaphor; Existential Journey
Per citare questo articolo: Naufragio con spettatore (a bordo). Petrarca “nocchiere della sua nave”, a cura di R. Morosini, “La Rivista di Engramma” n. 147, luglio 2017, pp. 31-50 | PDF dell’articolo