Tra-scritture antiche
Ἀντιγράψαι τῇ γραφῇ. Corrispondere al dipinto con la scrittura
Anna Beltrametti
English abstract
A Lesbo mi trovavo a caccia in un boschetto sacro alle Ninfe e vidi la cosa più spettacolare e bella che mai mi sia capitata di vedere: un’immagine dipinta, una storia d’amore. Era bello anche il bosco, fitto di alberi e di fiori, ricco di acqua: una sola fonte alimentava tutto, anche i fiori e gli alberi. Ma il dipinto dava ancora maggiore piacere, rivelava una tecnica fuori dall’ordinario e raffigurava una vicenda amorosa, al punto che molti, anche stranieri, attirati dalla sua fama, arrivavano sia per pregare le Ninfe sia per ammirare le immagini. Vi erano raffigurate donne che partorivano e altre che avvolgevano nelle fasce i bambini esposti, pecore e capre che li allattavano, pastori che li prendevano in braccio, giovani che si scambiavano promesse, una scorreria di pirati, un assalto di nemici. Guardavo e ammiravo molte altre scene, tutte d’amore, quando mi prese il desiderio di corrispondere al dipinto con la scrittura. Cercai dunque qualcuno che mi spiegasse la rappresentazione e poi mi dedicai alla composizione di quattro libri, un’offerta votiva a Eros, alle Ninfe e a Pan, un bene che può dar piacere a tutti gli uomini, che curerà chi è malato e darà coraggio a chi soffre, che risveglierà i ricordi in chi ha già amato e, per chi non ha ancora amato, sarà propedeutico. Mai nessuno è sfuggito o sfuggirà all’amore, finché c’è la bellezza e gli occhi la contemplano. A noi il dio conceda di mantenerci temperanti e di scrivere le vicende altrui.
Così recita l’incipit del romanzo pastorale di Longo Sofista, scritto con buona probabilità tra la fine del II e i primi del III secolo d. C. Il romanzo verosimile di due pastorelli, Dafni e Cloe, come tanti e fra i tanti negli entroterra dell’isola di Lesbo o la storia sacra – un hieros logos – sottesa al dipinto rupestre della grotta delle Ninfe e a questa vicenda particolare? Intenzionalmente il narratore avvia il proprio racconto sotto il segno di un’ambiguità che avvolgerà un passaggio dopo l’altro senza mai dissolversi: con l’espediente dello spettacolare dipinto scoperto per caso – una variante più antica del manoscritto ritrovato – confonde i piani della narrazione e annulla la temporalità. E la rivelazione, nel finale del romanzo (4, 39, 2), del dipinto come ex voto alle Ninfe dei due pastori protagonisti, passati per tutte le prove e ormai sposi felici, sarà il definitivo segno di questa sospensione intrinseca al senso del racconto. Cosa hanno voluto rappresentare Dafni e Cloe nel loro donativo? Vi hanno figurato la loro storia consacrandola in un luogo di culto come storia originaria e paradigmatica? O, piuttosto, hanno richiamato la storia sacra, senza tempo e fuori di ogni tempo, dalla quale sono stati orientati e di cui sono stati interpreti occasionali?
Quello che conta e che resta del Proemio di Longo, quello che il raffinato parallelismo dei due ex voto suggella – il racconto è presentato come un’offerta votiva del narratore alle stesse divinità cui era stato donato il dipinto dai protagonisti del suo romanzo – è il nesso inscindibile e necessario di immagini e parole che rinviano le une alle altre, che si tra-scrivono e si generano a vicenda nel romanzo, che riportano la memoria poetica del lettore molto indietro nel tempo. Con il gusto e con la sapienza di un intellettuale educato e attivo nel clima della cosiddetta Seconda Sofistica, con l’attenzione per le immagini che affiora anche nella produzione di un poligrafo come Luciano e trionfa nelle descrizioni e nelle narrazioni delle Eikones di Filostrato, Longo incomincia a narrare, a tra-scrivere, facendo ossessivamente leva sul vedere e sull’avere visto, imposto a motivo dominante dal vocabolario: θέαμα εἶδον, εἶδον, εἰκόνος γραφή, εἰκόνος θεαταί, ἰδόντα καὶ θαυμάσαντα, ὀφθαλμοὶ βλέπωσιν, sono i termini e le iuncturae che si susseguono a filo conduttore nel breve spazio del Proemio, che segnalano l’integrarsi complementare delle due forme di rappresentazione, figurativa e verbale, e riaprono la questione dei fondamenti della cultura greca dall’arcaismo all’ellenismo imperiale.
La teatrocrazia platonica e la lezione di Taplin
Ormai quarant’anni fa, nel 1977, Oliver Taplin con il suo libro The Stagecraft of Aeschylus aveva incominciato a mettere fuoco le possibili interferenze tra scene teatrali e iconografia vascolare. Con i saggi successivi, Comics Angels del 1993, dedicato alla commedia, e Pots & Plays del 2007, dedicato alla tragedia, la sua lezione andò perfezionandosi, imponendo all’attenzione e al dibattito (cfr. Bordignon 2015) le possibili e talora provate influenze del teatro sulle raffigurazioni ceramiche di alcuni personaggi mitologici e di alcuni motivi portanti delle loro saghe. Il nucleo forte e resistente della lezione di Taplin, indipendente dalla maggiore o minore cogenza di alcuni accostamenti, resta quello di avere colto nella storia la predominanza del teatro tra le forme di comunicazione della Grecia antica, quella capacità della mimesi drammatica di incidere sull’immaginario dei cittadini e di coinvolgerli che Platone aveva temuto e contrastato nella Repubblica e che, nell’ultimo dialogo Leggi (701a) aveva definito con il neologismo di theatrokratia. Senza sottovalutare le informazioni che alcuni reperti iconografici possono fornire per la datazione e l’interpretazione di alcune opere teatrali, talvolta suggerendo spunti di integrazione per quelle frammentarie, Taplin non ha mai perso di vista la maggiore forza innovativa della drammaturgia rispetto agli usi più convenzionali dei ceramografi nelle rivisitazioni dei miti. E, incrociando i dati, non ha mai messo in dubbio il ruolo paradigmatico del teatro, dei testi e delle messe in scena, non ha mai smarrito la prospettiva intrinseca in quella cultura, tra V e IV secolo a. C., marcatamente logocentrica.
Ma se il teatro attico, il luogo per eccellenza in cui le parole devono tradursi in immagini e in figure, fosse a sua volta il portato strepitoso di una cultura che nel corso dei secoli precedenti era stata visiva non meno che orale e aurale? Se fosse il punto di arrivo di una cultura della parola e del canto che si era sforzata, fin dalle sue forme più antiche, di far vedere mentre faceva ascoltare?
La guerra sulla tela e il mondo sullo scudo
Ma Iri venne ad Elena bianche braccia, messaggera
[…]
La trovò nella sala: tesseva una tela grande,
doppia, di porpora, e ricamava le molte prove
che Teucri domatori di cavalli e Achei chitoni di bronzo
pativan per lei, sotto la forza di Ares
(Iliade III, 121 e 125-129)
Il passaggio è un precipitato quasi erotico di parole e immagini che si attirano le une sulle altre, si trascinano e si alimentano reciprocamente. L’aedo non si contenta della sua dizione convenzionalmente figurata e usa vertiginosamente i propri mezzi, con le parole dipinge un quadro: la più bella di tutte le donne è colta nel gesto più femminile della tessitura mentre istoria la guerra e gli scontri che gli eroi combattono a causa sua. Pochi versi dopo lei stessa, Elena, apparirà come una visione divina, un’epifania sconcertante per i nobili vecchi Troiani che, simili alle cicale (τεττίγεσσιν ἐοικότες) dalla voce di giglio (ὄπα λειριόεσσαν ἱεῖσι), sedevano presso la torre delle porte Scee, parlando tra loro e osservando lo scontro dall’alto delle mura (Iliade III 146-160). Di metafora in similitudine, con parole che suggeriscono colori e forme, che suscitano sinestesie, l’aedo narra per scene susseguenti e nel quadro della tessitura incorpora l’arazzo di Elena, un quadro nel quadro, una mise en abyme, un doppio femminile della narrazione aedica, il parallelo in figura del racconto della guerra in parole. Così in Iliade XVIII:
Disse queste parole poi la lasciò e andò verso i mantici
Li voltò verso il fuoco e li comandò a lavorare
I mantici, tutti e venti, soffiarono sulle bocche delle fornaci (468-470)
[…]
bronzo inconsumabile gettò nel fuoco e stagno
e oro prezioso e argento; poi
pose sul ceppo la grande incudine, afferrò con una mano
un forte maglio, con l’altra afferrò una tenaglia.
Fece (ποίει) per primo uno scudo grande e pesante
decorandolo in ogni parte, intorno vi pose un orlo lucido,
triplo, splendente, e vi attaccò una tracolla d’argento.
Cinque erano le fasce di questo scudo. Poi in esso
fece (ποίει) molti decori con i suoi sapienti pensieri.
Vi costruì (ἔτευξε) la terra e il cielo e il mare
e il sole instancabile e la luna piena (474-484)
[…]
Vi fece (ποίησε) due città di mortali
belle. In una si tenevano nozze e banchetti
[…] si cantava dovunque Imeneo
giovani danzatori vorticavano e tra di loro
flauti e cetre suonavano
[…]
Vi era gente nella piazza raccolta; qui una contesa
sorgeva, due uomini litigavano per il compenso
di un morto, uno gridava di avere dato tutto
lo sosteneva in pubblico, l’altro diceva di non avere avuto niente
[…] i vecchi
sedevano sulle pietre lisce, nel sacro cerchio
[…] e ciascuno, a turno, dava il suo giudizio (490-506)
[…]
Vi pose (ἐτίθει) un prato a marcita e un campo grasso (541)
[…]
Vi pose (ἐτίθει) un podere regale (550)
[…]
Vi pose (τίθει) una vigna sovraccarica di grappoli
bella, d’oro, ma i grappoli pendevano neri;
da cima a fondo correvano i filari e i pali erano d’argento.
Intorno tracciò (ἔλασσε) una fossa scura di smalto e una siepe
di stagno
[…]
ragazze e ragazzi dai pensieri leggeri
nei cesti intrecciati portavano il dolce frutto.
In mezzo a loro, un giovane con la cetra sonora
dolcemente suonava, cantava un bel canto spiegato
con voce sottile; e quelli, battendo il tempo all’unisono,
cantando, gridando, saltando, gli andavano dietro (561-572)
[…]
E una mandria di vacche vi fece (ποίησε) corna dritte,
le vacche erano fatte d’oro e di stagno (573-574)
[…]
E un pascolo vi fece (ποίησε) lo Storto glorioso (587)
[…]
E una danza vi cesellò (ποίκιλλε) lo Storto glorioso (590)
[…]
E vi pose (τίθει) la grande forza del fiume Oceano
lungo l’ultima fascia del solido scudo (606-607)
Il più celebre e studiatissimo scudo di Achille, nel XVIII dell’Iliade, non è solo l’estrema amplificazione della tela di Elena nel canto terzo della teichoskopia. L’ekphrasis più celebre della poesia arcaica raggiunge un grado di complessità e di sofisticazione, nella compenetrazione di parole e immagini e nella moltiplicazione degli incastri, tale da segnare un punto di altissima consapevolezza poetica e semiotica.
Di nuovo l’aedo oppure, per formulare in modo diverso e più verosimile, anche il nuovo aedo dipinge un quadro. Alla sala in cui Elena tesse istoriando la guerra si sostituisce l’officina del fabbro divino che le parole animano dei suoi gesti riferiti in sequenza. Alla porpora di Elena si sostituiscono il fuoco e i metalli con i loro bagliori che prevalgono sui colori e generano effetti pittorici: oro, argento, stagno, smalto si mescolano e si accostano in un gioco di chiaroscuri attraversati qua e là da parole e suoni. La forma tonda dello scudo che si ripropone in molte delle immagini circolari rappresentate su di esso – il consiglio dei vecchi, la danza, le mura – imbocca la linearità del catalogo in cui la parola la traduce scandendo le scene, una dopo l’altra, con le scelte e le azioni ricorrenti del fabbro: ποίει, ἔτευξε, ποίησε, ἐτίθει, τίθει, ἔλασσε, ποίησε, ποίκιλλε, τίθει.
Il tessuto di Elena e il testo poetico, nel III canto, correvano paralleli e speculari lungo il corso della guerra di Troia e del tempo. Nessun parallelo e nessun effetto di specularità si stabiliscono invece tra lo scudo di Achille, il capolavoro di Efesto, e il racconto dell’aedo. Il manufatto assoluto, l’oggetto totale, centripeto, conchiuso tra il cerchio esterno dell’Oceano – la circolarità del corso di Oceano era stata anticipata dall’espressione ἀψορρόου Ὠκεανοῖο del v. 399 – e la calotta centrale del cielo stellato, lo scudo mondo che mette alla prova anche la perizia verbale del cantore, non rinvia al racconto in divenire del poeta ma al tratto più stabile e al ruolo del personaggio. Nell’immaginario arcaico condiviso, le armi sono il prolungamento e la proiezione simbolica dei guerrieri cui appartengono e questo scudo è stato eseguito dal dio fabbro per esprimere Achille.
Come tutti gli altri scudi della poesia, come lo scudo di Atena e quello di Agamennone nell’Iliade (V 739-742 e XI 32-37), come gli scudi dei Sette contro Tebe di Eschilo, anche questo non tramandato, ma fabbricato espressamente per Achille su richiesta di sua madre, deve avere una funzione araldica oltre che di difesa, deve portare iscritta e comprensibile l’ἀρετή propria, il valore distintivo del guerriero che lo impugna e prometterne le gesta. E Achille, ora, tornato in battaglia dopo la morte di Patroclo, è l’arbitro del mondo. Il suo scudo non deve incutere terrore come quelli degli altri guerrieri che ai simboli araldici univano spauracchi deterrenti. Deve invece esprimere l’ordine, nelle geometrie del cerchio e della linea, l’armonia delle relazioni, la simmetria cosmica, sociale e culturale che Achille, il guerriero fuori scala, il figlio della dea, dovrà riportare e garantire nel mondo sconvolto da una guerra epocale. Sono molte le informazioni che il fabbro ha saputo distribuire nello spazio dell’arma, sia attraverso le singole immagini sia attraverso le loro relazioni di prossimità, e che l’aedo ha cercato di tradurre nel tempo breve di un’unità di ascolto. Ed è proprio questo gioco di reciproca appropriazione tra parole e immagini – le immagini cesellate e scolpite dal fabbro cercano di incorporare anche le parole, la musica e gli effetti dei canti rappresentati, mentre la poesia aedica, a sua volta, si sforza di rendere quelle immagini complesse, polivalenti di figure e di suoni – di incastri plurimi, di lenti moltiplicate, a sorprendere di più e a far pensare.
Cosa vuole ingrandire, cosa vuol significare l’aedo che si sforza di far vedere, descrivendole e narrandole, le immagini che su uno scudo hanno voluto figurare un mondo e le sue occasioni privilegiate di parola e di canto, che hanno voluto far sentire il flauto dei pastori, l’Imeneo del corteo nuziale, il canto della vendemmia, le parole dei vecchi giudici? Apertamente l’aedo conferma l’importanza delle armi, e degli scudi in particolare, i grandi emblemi per gli occhi e gli orecchi del suo tempo, per le aspettative dei suoi ascoltatori che dalle descrizioni si sentivano riportati nel mondo aristocratico degli antenati. Lavora un motivo che avrà grande fortuna e lunga durata, che tornerà con forte impatto in tragedia, coltivato da Eschilo e posto in discussione da Euripide nelle Fenicie che riscrivono con altre parole e altri intenti i Sette contro Tebe. Implicitamente, l’aedo valorizza e, a sua volta, pratica in forma esemplare la sinergia delle parole e delle immagini che rinviano le une alle altre, offrendo al suo pubblico un oggetto, lo scudo di Achille, che certo contraddice la linea della sua narrazione, ma senza dubbio riflette la sua dizione sempre figurata, fiorita di metafore e di metonimie che traducono i concetti in cose e in percezioni, che alimentano l’immaginario e aiutano la memoria. Con lo scudo forse l’aedo sta dando un saggio condensato della sua cultura, quella che andava elaborando la propria mitologia, come dire i grandi rami delle proprie tradizioni locali e familiari, in figure, quella in cui gli dèi erano rappresentati a immagine e somiglianza degli uomini, come più tardi avrebbe rimarcato Senofane e come ancora dopo avrebbe deplorato Platone. Quella cultura che avrebbe continuato nei secoli a eccitare le grandi leggende con i conflitti della tragedia e a contenerle nelle proporzioni, nelle geometrie, dei dipinti, di quelli monumentali perduti e di quelli vascolari conservati, ora in accordo – i vecchi del Coro dell’Agamennone (v. 242) di Eschilo richiamano la vividezza del dipinto a illustrare la loro piccola Ifigenia recalcitrante al sacrificio, e Taltibio, nell’Ecuba (v.560) di Euripide, paragona a una statua il bel busto di Polissena che si offre al coltello sacrificale – e ora in contrasto, ora citando in teatro le raffigurazioni e ora citando nelle raffigurazioni il teatro.
Che davvero la cultura greca antica ormai unanimemente riconosciuta, almeno per i primi secoli e per le forme dominanti della produzione ateniese – dall’oratoria alla storiografia erodotea, dalla drammaturgia al dialogo platonico, dalle forme primarie squisitamente orali, pensate e fruite attraverso la parola e l’orecchio, alle forme secondarie, solo mimeticamente orali – come Oral Culture debba essere definitivamente e a pieno titolo intesa e interrogata anche come Visual Culture?
Bibliografia
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O. Taplin, The Stagecraft of Aeschylus: The Dramatic Use of Exits and Entrances in Greek Tragedy, Oxford 1977.
Taplin 1993
O. Taplin, Comic Angels and Other Approaches to Greek Drama through Vase-painting, Oxford 1993.
Taplin 2007
O. Taplin, Pots & Plays: Interactions between Tragedy and Greek Vase-painting of the Fourth Century B.C., Los Angeles 2007.
English abstract
This study is motivated by the strong influence that Attic theatre had on other forms of communication and ceramography. Retracing the line that from Longus’ Romance (2nd – 3rd century CE) goes back to Homer, we find some important contexts in which the word is determined by images or interacts with them (Iliad. III 121-129 and XVIII 468-607; Aeschylus, Agamemnon 242; Euripides, Hecuba 560). We thus highlight the visual component of the paradigmatically logocentric Greek culture.
keywords | Attic theatre; Ceramography; Homer.
Per citare questo articolo / To cite this article: A. Belatrametti, Tra-scritture antiche. Ἀντιγράψαι τῇ γραφῇ. Corrispondere al dipinto con la scrittura, “La rivista di Engramma” n. 150 vol. 1, ottobre 2017, pp.125-133 | PDF