Teste tagliate e santi cefalofori tra Cristianesimo e Islam
Franco Cardini
English abstract
Il primo raid musulmano che abbia toccato Samarcanda si verificò nel 676: si trattava di arabi, ai quali dovevano tuttavia essersi uniti dei persiani già convertiti. Da allora sino ai primi dell’VIII secolo si dovettero verificare altri tentativi di conquistare e, naturalmente, di convertire la Sogdiana; anche se, stando alla shari’a, gli abitanti di quella regione in quanto “mazdei”, cioè zoroastriani – quindi ahl al-Kitab, “gente del Libro” – potevano bensì venir costretti ad accettare la supremazia dell’Islam ma doveva esser riconosciuto loro lo status di dhimmi (“sottomessi”, ma anche “protetti”) e non potevano quindi venir costretti alla conversione. È in tale contesto che può aver avuto luogo la vicenda storica alla base di un episodio che, per i non-musulmani, si concluse in termini leggendari eppure, sotto il profilo antropologico, molto più familiari anche per noi di quanto non possa a prima vista sembrare.
Qusam ibn-Abbas, uno dei nipoti – o, secondo altre fonti, dei cugini – del profeta Muhammad, partì quindi nel 676 alla volta della Bactriana e della Sogdiana per predicare la vera fede agli abitanti di quelle terre ch’erano, come dice Ibn Battuta, “idolatri e miscredenti”: e, giunto nella città di Afrasiab (l’antica Maracanda dei greci: per noi, Samarcanda), gli adoratori zoroastriani del fuoco lo presero a sassate, lo catturarono e lo decapitarono. Qusam è quindi uno shahid, un “martire della fede [1] sul modello di Giovanni il Battista, il Precursore, fatto decapitare dall’empio re Erode IV Antipa, la cui testa si venera ancor oggi nella grande moschea Umayyade di Damasco, dove lo stesso papa Giovanni Paolo II si è recato pellegrino a rendervi omaggio.
Ma Qusam, secondo i credenti musulmani, fece qualcosa che il Battista non aveva fatto (l’avrebbero fatta altri santi cristiani): si alzò da terra dopo la decapitazione, raccolse la sua testa e stringendosela al petto prese a salire sulla collinetta ai piedi della quale era avvenuta l’esecuzione, immediatamente fuori della cinta muraria della Afrasiab di allora – subito ad est del luogo nel quale ora si apre la porta meridionale dell’antica cinta di Afrasiab, presso l’acquedotto. Là, lungo l’attuale via Usto Omar Zhurakulov, Ulugh Beg – astronomo, astrologo e matematico, nipote prediletto e successore di quel Timur che noialtri occidentali sconsideratamente chiamiamo ‘Tamerlano’ – avrebbe fatto erigere nel 1435 un grande pishtak, un portico d’entrata al di là del quale, successivamente, furono costruiti tre contigui chortak, cioè quadriportici sormontati da cupole. Si presenta così, oggi, l’ingresso all’erta “scalinata del Paradiso” i gradini della quale – secondo una tradizione che ho verificato io stesso, chiedetemi il quando (correva forse l’anno 1997), ma non il come né il perché – sono di un numero diverso a seconda che la si salga o la si scenda. Oggi, lungo quella scalinata si allinea una silenziosa e solenne serie di mausolei diversi per forma, grandezza, sontuosità, stato di conservazione, tutti comunque dedicati a personaggi illustri; al culmine della collinetta sorge la moschea dedicata a Qusam con annesso il mazar, il luogo sacro nel quale se ne venera la memoria. Difatti lo shahid, il Martire, giunto sulla cima della collina sovrastante il luogo della sua esecuzione scese in un pozzo profondo ed è ancora là, in preghiera, la testa tra le mani, che attende la Resurrezione della Carne. Il complesso di moschee, di cappelle, di oratori e di portici che attorniano la dimora di Qusam (definirla ‘tomba’ è inadeguato, dal momento che il Martire vive) detto Shah-i-Zinda, uno dei luoghi più arcani di Samarcanda e forse, insieme con il Gur-Amir, il mausoleo di Timur, il più impressionante.
Shah-i-Zinda "il Sovrano Immortale”. L’espressione persiana shah, usata da arsacidi e sasanidi per indicare il Gran Re, traduce alla lettera ma forse non rende del tutto lo spirito dell’equivalente arabo, malik, che a sua volta significa appunto “re”, anzi “sovrano” (con tale termine s’indicava anche il basileus di Costantinopoli, cioè l’imperatore romano d’Oriente) ma che è anzitutto il quarto dei 114 Nomi di Dio – tanti quanti le sure del Corano – e come tale indica anzitutto la sovranità spirituale. A suo esempio, anche alcuni illustri musulmani possono assumere la parola malik nel loro laqab, il loro epiteto onorevole: come il sultano Ayyubide [2] d’Egitto del primo XIII secolo, ospite di Francesco d’Assisi e corrispondente di Federico II, recava il laqab di al-Malik al-Kamil, “il Re Perfetto”. Da quando si sia cominciato a venerare e a considerare mèta di pellegrinaggio – com’è tuttora – il mazar di Qusam, non sappiamo con precisione. Forse la tradizione è antichissima, risalente ai primi tempi dell’islamizzazione: ma le evidenze artistiche e archeologiche dalle quali il luogo è segnato suggeriscono una venerazione particolarmente intensa in età appunto timuridea [3]. La moschea che ne costituisce il centro liturgico è del 1460, ma l’adiacente ziaratkhana ("Sala dei pellegrini") foderata di piastrelle azzurre fu ricostruita nel 1334 su un originale impianto dell’XI secolo mentre nel sottosuolo troviamo la chillakhana adibita a luogo di permanenza per il digiuno rituale di quaranta giorni e la gurkhana vera e propria, la “camera mortuaria” dalla quale si intravede la tomba del Martire, che dovrebbe risalire al 1380. E che 'tomba' propriamente non è, dal momento che il Decollato è, in realtà, un Vivente in attesa del Giudizio Universale.
In questo senso Qusam ibn-Abbas, [4] congiunto del Profeta e shahid, martire della fede, è da allora e per sempre Shah-i-Zinda, "Re immortale". Egli appartiene al nòvero di coloro che – con Elia, con Giovanni l’Evangelista, con Federico I Barbarossa secondo la tradizione germanica – non sono mai morti ma attendono, vigili oppure assopiti in un arcano sonno, il Giorno Ultimo e il Giudizio Universale. Per la verità, la sua leggenda potrebbe celare anche altri significati e alludere ad altre credenze: Qusam dovrebbe la sua eternità a una sorta di filtro magico; inoltre, egli non attenderebbe la Fine dei Tempi nella tomba-pozzo che lo ha ospitato subito dopo la morte, in quanto essa costituirebbe a sua volta un passaggio sotterraneo verso l’Altro Mondo, secondo un tema che ha molti riscontri in varie tradizioni religiose e nello stesso folklore cristiano. Là, Qusam assolverebbe a una funzione simile al Minosse della nostra tradizione pagana ripresa da Dante, cioè di giudice delle anime. È stato notato come analoga funzione, sul piano folklorico, sia ritenuta quella svolta dal vecchio sovrano-fondatore preario di Samarcanda, Afrasiab; e come in tutto il confuso e complesso corpus dei “re-morti-viventi” riguardante Afrasiab/Qusam sembrino confluire anche miti passati attraverso lo zoroastrismo.
D’altronde, la leggenda dei santi decollati e cefalofori ci è familiare: l’abbiamo già ascoltata più volte a diverse latitudini e culture: dalla celtica all'induista [5]. E la loro ascesa al colle, sulla cima del quale si può finalmente morire oppure attendere meditando, la conosciamo.
Siamo circondati da cefalofori: che sempre ci ammoniscono, ci indicano la via. Il cefaloforo della testa altrui è il carnefice, l’esecutore di giustizia, che mostra al popolo il capo reciso del criminale: come accadeva ogni giorno, e accadde per molti mesi, in Place de la Révolution, specie in quel memorabile 2 gennaio 1793 quando la folla si precipitò a immergere i suoi fazzoletti nel sangue che colava dal collo dell’ultimo Unto del Signore per conservarne le reliquie; come accadeva sovente nella Roma pontificia del primo Ottocento, allorché mastro Titta dal mantello rosso, “er Boja de Roma” [6], sollevava ben alta la testa dei criminali ghigliottinati – i Giacobini avevano pur insegnato qualcosa anche al Santo Padre… – e tutti i padri presenti si affrettavano ad assestare ai figli che avevano accompagnato allo spettacolo tenendoli per mano un sonoro schiaffone, affinché si ricordassero bene e per tutta la vita come si finisce quando si comincia a far del male. L’archetipo dei cefalofori della testa altrui è il Perseo bronzeo di Benvenuto Cellini, mirabile monumento al boia, che ancor oggi leva in alto al cospetto del popolo fiorentino (e dei turisti) la testa recisa dell’anguicrinita Medusa affinché tutti ricordino la fine inevitabile di chi semina discordia, come i capelli-serpenti serrati nel pugno dell’eroe-carnefice e che ancora, negli spasimi dell’agonia, si mordono tra loro. La "discordia", come la chiamava il Granduca Cosimo committente del Cellini, e che altri, forse, chiamavano libertà.
Ma vi sono poi i cefalofori di se stessi: quelli che mostrano la loro stessa testa in testimonianza del loro sacrificio e della Verità della quale esso è portatore. Ed ecco la storia del martire sconosciuto ma di stirpe regale che veniva dall’Armenia – e che per questo è detto Miniato – il quale fu decapitato verso il 250 d.C., durante la persecuzione scatenata dall’imperatore Decio, nella città di Florentia, presso il ponte sul’Arno che varcava il fiume e dal quale si entrava per la porta meridionale nel centro urbano dalla forma castrense romana; raccolse la sua testa e lentamente ascese il colle che ancor oggi sovrasta Firenze, sulla riva sinistra del fiume, e sul quale sorge la bella basilica marmorea che gli è dedicata. È la storia di Dionigi vescovo di Lutetia Parisiorum, anch’egli decapitato pare durante l’infierire della medesima persecuzione ai piedi di una modesta altura al di là delle mura cittadine, sulla destra della Senna, verso nord: e anch’egli raccolse la sua testa e si fece a piedi il tratto in salita fino alla cima della collinetta del Mons Martyris, quella che oggi è la Place du Tertre, centro appunto del quartiere di Montmartre e luogo presso il quale sorge la grande basilica del Sacré Coeur.
Samarcanda come Firenze e come Parigi, Qusam come Miniato e come Dionigi, lo Shah-i-Zinda come San Miniato e come Montmartre: le loro teste come lampade luminose a dissipare, con la forza della loro shahada, la giâhiliyya delle genti alle quali sono stati inviati. È sconvolgente coincidenza – se di coincidenza si tratta – che il “seminatore di discordie e di scismi” Bertrando “del Bornio” [7] di Dante mostri a sua volta, il braccio proteso, la sua stessa testa: anch’egli a sua volta paradossale testimone, nella nona bolgia dell’ottavo girone infernale, della Verità e della Giustizia divina. Vittima e boia di se stesso.
Io vidi certo, e ancor par ch’io ’l veggia,
un busto sanza capo andar sì come
andavan li altri de la trista greggia;
e ’l capo tronco tenea per le chiome,
pesol con mano a guisa di lanterna:
e quel mirava noi e dicea: "Oh me!".
Di sé facea a sé stesso lucerna,
ed eran due in uno e uno in due;
com’esser può, quei sa che sì governa.[8]
E sorge il dubbio che il Bertrando di Dante sia l’ispiratore lontano, forse inconscio, forse archetipico, del Perseo di Cellini.
Note
[1] Testimonianza in arabo si dice shahada, che significa anche “martirio”. Essa è la testimonianza formale di fede islamica, la ilaha ilâ Allah, wa Muhammad rasûl Allah. La testimonianza equivale letteralmente al martirio – in arabo come in greco la parola è la medesima: il martire è, appunto, lo shahid.
[2] Cioè appartenente alla famiglia dei Beni Ayyubi, i “discendenti di Giobbe”, il cui più illustre esponente è Yussuf ibn Ayyub (1138-1193) il cui laqab è Salah ed-Din (“Fortezza della Fede”).
[3] Usiamo l’aggettivo “timurideo” per riferirsi a quanto riguarda strettamente il Grande Emiro o Amir Timur, come nella tradizione uzbeka si usa chiamarlo, distinguendolo da quello “timuride” che indica invece in senso ampio al sua epoca e la sua dinastia.
[4] Il suo nome viene scritto spesso anche Qasim, o Kasim, o Kassim, o secondo altre varianti. Si tenga presente che ci troviamo dinanzi a un nome arabo, e che l’arabo è una lingua consonantica: il nesso qsm può quindi venire sciolto come Qasim, o Qassim, o Qusam, o Qussan, o Qutham (altri problemi sono quelli della resa fonetica di due lettere distinte, K e Q, e delle consonanti raddoppiate).
[5] È anche materia di un poemetto cavalleresco a proposito del quale si sono sottolineate le radici celtiche, Sir Galvano e il Cavaliere Verde. La cultura celtica è tra quelle in cui la presenza del tema delle teste tagliate e del relativo significato magico è più presente: con il significativo pendant di leggende induiste.
[6] Giovanni Battista Bugatti, romano (1779-1869), titolare di ben 514 esecuzioni, che definì la ghigliottina “nuovo edifizio per il taglio della testa” e serenamente si spense dopo aver esercitato fino al 1864 la sua professione: al fedele suddito pontificio fu risparmiato dalla misericordia divina di assistere alla vergogna del 1870. La nuova macchina tagliateste, introdotta nella Roma dell’interregno tra papa Pio VII e Napoleone, era stata per breve tempo sospesa dopo il ritorno del pontefice a Roma, però ripristinata a partire del 1816.
[7] Cioè il celebre trovatore Bertran de Born, trovatore provenzale del XII secolo (m. 1215 ca.), autore fra l’altro, citato anche da Ezra Pound nella sestina Altaforte dei Cantos, pubblicata per la prima volta nel 1909.
English abstract
From Damascus to Samarkand, Paris and Florence, looking for the myth of the kepalophoroi: Saints, Kings, Executioners and Heroes with their heads in hand
keywords | Islam; Christianity; Saints; Execution.
Per citare questo articolo / To cite this article: F. Cardini, Teste tagliate e santi cefalofori tra Cristianesimo e Islam, “La rivista di Engramma” n. 150 vol. 1, ottobre 2017, pp. 261-267 | PDF