Architettura Esemplificatante (exemplifying architecture)*
Sergio Los
English abstract
1. Immagini senza referenzialità: costruiscono, non descrivono
Il tema che dobbiamo svolgere è Zum Bild das Wort, interpretabile come ‘dare la parola all’immagine’. Oggi, infatti, all’immagine manca la parola: essa intrattiene ma non comunica. L’estetizzazione dell’immagine ne vieta la referenzialità e con essa l’attitudine cognitiva. Infatti la biblica proibizione delle immagini che inaugura le diverse iconoclastie non se la prende con le immagini, ma con i loro contenuti, ovvero con la loro referenzialità. L’immagine però non è senza contenuto, il suo contenuto rimosso viene trasmesso invece che comunicato, e agisce in modo suggestivo, ipnotico, inconscio (Mondzain 2017). Mi fa agire senza esserne consapevole e responsabile: produce effetti invece che comunicazioni. La moderna castrazione dell’immagine, necessaria all’istituzione dell’individuo universale, produce una catastrofe nella cultura architettonica: spaccando il progetto in due irriducibili pratiche – l’estetica e l’ingegneria – blocca la riproduzione dell’architettura referenziale, bioclimatica, e produce un’architettura internazionale (Los 2013). Nel fare questo, in un certo senso arresta la riproduzione del paesaggio, del luogo, evidenziato dall’architettura.
Vorrei prima di procedere dire qualcosa sul titolo. Il sottotitolo in inglese si propone di aiutare la comprensione del senso intenzionato dal titolo italiano, sul duplice ruolo dell’architettura che è esemplificante nella costruzione ed esemplificata nei disegni di progetto e di rilievo. Esso proviene da un libro di Heinz, Observing Systems, che in inglese vuol dire sia ‘sistemi che osservano’, capaci di osservare, che sistemi sotto osservazione, ‘osservare i sistemi’ (Von Foerster 1981). In questo testo sia ‘architettura che esemplifica’ che ‘l’esemplificare architettura’. Il testo nelle mie intenzioni intende evidenziare questa duplice valenza.
Per far comprendere cosa intendo, vorrei evidenziare l’importanza che assumono nella teoria dell’evoluzione alcune forme di adattamento biologico di carattere ecologico, ossia di tipo post-genetico. Occorre riflettere su una serie di opzioni teoriche imparentate filogeneticamente che comprendono il concetto di ‘umwelt’, tradotto in italiano come ‘ambiente circostante’ ed elaborato dal biologo e filosofo estone Jakob von Uexküll nel 1909 (Uexküll 2011, 2015), la metafora costruzionista di Richard Lewontin (Lewontin 1982, 1983) per giungere alla ‘niche construction theory’ di John Odling-Smee del 1988 (Odling-Smee, Laland, Feldman 2003): una proposta teorica che considera l’adattamento come un processo dove l’organismo interviene nella circolarità retroattiva istituita con l’ambiente per modificare sia il corpo proprio che quello dell’ambiente, interpretando la partitura della “costruzione” di una nicchia ecologica della propria specie. Questo approccio sostiene che ogni specie costruisce un complesso di interazioni specifiche con l’ambiente circostante, che ne consentono la riproduzione quindi la sopravvivenza come specie: un ‘circuito funzionale’, ossia una circolarità retroattiva che regola le azioni in funzione dell’ambiente percepito, selezionando un insieme di variabili paradigmatiche significative da tenere sotto controllo poiché richiedono risposte critiche. [Fig 1] La selezione delle variabili paradigmatiche costituisce una specie di nicchia informazionale che esclude molte proprietà non significative per la specie, presenti nell’ambiente circostante. Agendo sulla evoluzione cumulativa delle specie, tale circolarità interviene sia sulla formazione che sul funzionamento degli organismi, sulle strutture e sulle funzioni/comportamenti: interessa quindi il progetto di ricostruzione degli organismi quando si riproducono. Essa adatta la forma degli organismi ai loro comportamenti che rendono possibile la loro sopravvivenza in ambienti variamente dotati di affordanze e risorse che ne condizionano la riuscita. Un certo pesce continua a riprodursi adeguando progressivamente la propria forma-struttura, tipica di quella certa specie di pesce, per potersi comportare in quel certo modo che gli consente di sopravvivere in un certo ambiente acqueo, essendo per questo dotato di occhi, coda, pinne, bocca, organi interni, ecc. Un adeguamento che riguarda la specie che si riproduce, moltiplicandone gli organismi adattati: la forma è sviluppata dalla specie, naturalmente, non dall’individuo. Essa accresce la probabilità statistica di sopravvivere diffondendo le proprietà caratteristiche della specie. Un organismo veramente individuale, completamente diverso da quelli della sua specie, molto probabilmente non potrebbe sopravvivere. È proprio in questa riproduzione che entra l’architettura come protesi dell’organismo umano, a livello di cultura non di individui. Vi sono infatti delle specie che non si limitano alla selezione delle proprietà semplicemente evidenziandole, ma che le modificano intervenendo mediante alterazioni specifiche dell’ambiente circostante che sono vere e proprie costruzioni (il formicaio delle formiche, per esempio vedi la evoluzione mediata dalla costruzione della nicchia; cfr. Pattee 1978).
Se consideriamo la cultura come l’analogo umano della specie, e la pensiamo dotata di un linguaggio sviluppato attraverso l’uso dalla comunità linguistica, volto a selezionare quelle proprietà dell’ambiente che sono paradigmatiche perché caratteristiche della sua forma di vita, di sopravvivenza, ma anche volte a costruire nicchie che aiutano la regolazione di quelle risposte critiche necessarie a migliorare la sopravvivenza, possiamo allora cogliere il duplice ruolo dell’architettura:
a) nel selezionare e rendere leggibili le proprietà dell’ambiente che richiedono risposte continuative;
b) nel modificare l’ambiente per migliorare tali proprietà anche mutandole. Alla selezione per focalizzare le proprietà più rispondenti da sottoporre a controllo, rispetto alla sopravvivenza della comunità (qui intesa come specie), aggiungiamo la loro modificazione, per rendere meno vulnerabile e precaria, più stabile tale forma di vita, di sopravvivenza.
Se le culture nomadi di cacciatori raccoglitori esercitano prevalentemente il ruolo selettivo delle proprietà ambientali, e migliorano le loro condizioni di sopravvivenza spostandosi in un nuovo ambiente, le culture stanziali di agricoltori, volte alla domesticazione dell’ambiente, esercitano le loro capabilità modificatorie costruendo situazioni comportamentali più congruenti con la loro forma di vita tenendo conto anche delle ‘affordanze’ presenti in tale ambiente. Le città emergono come esemplari della costruzione di quelle ‘umwelten’ che consentono di realizzare ‘circuiti funzionali’ adattati alle necessità delle forme di vita capaci di soddisfare il duplice compito dell’architettura nelle culture umane. Le prime sviluppano tutte le conoscenze utili a spostarsi, ai mezzi di trasporto e di orientamento, a migrare cercando un ambiente più adatto: diventano così tendenzialmente extra-alimentate, le seconde, tutte le conoscenze utili a insediarsi, a costruire e difendere abitati, a radicarsi adattando l’ambiente circostante ai propri obbiettivi, diventano quindi tendenzialmente intra-alimentate. Nelle prime è prioritario il tempo: tendono a temporalizzare lo spazio e a competere, nelle seconde è prioritario lo spazio: tendono a spazializzare il tempo e a costruire cooperanti comunità.
2. Culture nomadi e culture stanziali
Queste differenziazioni emergono quando gli umani si diffondono nell’intero pianeta, e sono motivate dalle diverse condizioni che trovano. Esso propone alla sopravvivenza degli umani delle forme di vita presenti nelle varie regioni geografiche della Terra potenzialità diverse che conducono a sviluppare culture molto diverse tra loro, come se si suddividessero in tante diverse specie per adeguarsi alle differenti condizioni geografiche locali (clima, luce, paesaggio, fauna e flora, acqua e aria, etc.). In particolare, la transizione dalle culture nomadiche di cacciatori raccoglitori a quelle stanziali di artigiani agricoltori non avviene contemporaneamente in tutte le regioni: in alcune ha luogo prima in altre dopo, ma questo produce, per le inevitabili interazioni tra le varie regioni, situazioni complesse che rendono comprensibili molte situazioni problematiche attuali, sulle quali vorrei riflettere. Nelle regioni temperate e aride dell’Europa mediterranea, tale transizione inizia nel neolitico con la comparsa dei primi insediamenti agricoli nell’ambito della ‘mezzaluna fertile’, in quelle fredde dell’Europa continentale avviene con un certo ritardo ed emerge portata da culture provenienti dalle regioni mediterranee. Questa situazione preserva per una certo periodo storico una certa prevalenza delle culture mediterranee su quelle continentali, ma nel XVI secolo con la Riforma avviene una svolta molto importante che apre alla modernità.
Considero la modernità contraddistinta dalla prevalenza delle culture continentali neo nomadiche su quelle mediterranee stanziali. Mentre prima del XVI secolo vi è stato il tentativo di diffondere nell’Europa continentale le culture stanziali, prima con l’impero romano e poi con la cultura cristiana nell’epoca medioevale, dopo la svolta della Riforma e attraverso una serie di rivoluzioni che portano alla formazione delle istituzioni nazionali, è in atto il tentativo di diffondere nell’intero pianeta le culture nomadiche, prima negli Stati Uniti, Australia e Sud Africa poi con il comunismo in Russia e Cina, infine con la globalizzazione in India e altri paesi. Mentre le culture stanziali basate sull’agricoltura erano fondate su forme di vita che tendevano a preservare lo stato del pianeta con trasformazioni molto contenute e il loro sviluppo era in qualche modo direttamente proporzionale allo sviluppo del mondo non umano, le culture nomadiche basate sul mercato, sul trasporto e sullo sfruttamento termo-industriale di risorse minerali, sotterranee, non rinnovabili, comportano uno sviluppo inversamente proporzionale allo sviluppo del mondo non umano: a un periodo di rapporti tra mondo umano e non umano caratterizzati dai giochi a somma diversa da zero delle culture stanziali, succede un periodo di rapporti caratterizzati dai giochi a somma zero delle successive culture neo nomadiche (Los 2015). Le culture stanziali erano correlate ai luoghi perché sulla loro diversità emergevano forme di vita diverse, le culture nomadiche non sono più correlate a luoghi specifici, sono relativamente indipendenti dalle differenze locali e tendono a costruire una pianeta uniformato e unico, guidato da una unica omogenea cultura. Le differenze individuali mi paiono una risposta patetica a questo processo globale di uniformazione sostanziale, con uno stesso linguaggio, ridotto a compiti trasmissivi, una stessa architettura internazionale estetico/funzionale, una stessa cucina chimicamente unificata, le stesse megalopoli, tutto grottescamente diversificato da astratte quanto gratuite preferenze di massa continuamente mutevoli ma prive di senso.
A questo moderno nomadismo tecno-scientifico, ai suoi sprechi e alla sua agonistica irrazionalità, il pianeta sta rispondendo con mutamenti irreversibili estremamente rischiosi. Cercheremo di comprendere il ruolo delle immagini e dell’architettura come immagine, in questa pericolosa transizione fondamentalmente politica. Quando l’architettura – per diventare moderna e internazionale – spezza in due quel circuito funzionale in cui operava il progetto e divide, da una parte le prestazioni costruttive e ambientali degli ingegneri, dall’altra le esperienze estetiche e distributive funzionali delle forme stilizzate internazionali degli architetti, viene interrotto quell’adattamento continuo alle condizioni ambientali che contraddistingueva le comunità linguistiche delle culture situate, stanziali. Vengono in qualche modo privilegiate le condizioni caratteristiche delle culture nomadiche, meno impegnate di quelle stanziali nella costruzione, controllo e manutenzione di ambienti adattati alle loro forme di vita. Cambiando continuamente ambiente, quelle culture sono meno interessate a costruire strutture radicate e difese, rispetto alle quali istituzionalizzare ‘circuiti funzionali’ da amministrare continuativamente per dare luogo a forme di vita civiche. L’aspetto delle costruzioni invece che essere codificato per comunicare informazioni utili alla ri-costruzione e manutenzione delle opere, è volto a una ricezione mutevole e istantanea tipica dell’estetica, come quella attualmente insegnata nelle diverse scuole di architettura.
3. L’economia nomadica internazionale sottomette le culture stanziali
Questa trasformazione, interpretata nei termini della modificazione del ‘circuito funzionale’ tra la comunità/specie ‘moderna’ e il suo ‘umwelt’ (le citate periferie e le diverse megalopoli), mostra come a guidare le scelte degli attori coinvolti vi sia un diverso codice che interessa le interazioni tra un ambiente da essa mercificato, ovvero tradotto in termini monetari, e gli agenti economici che con esso intrattengono delle transazioni potenziali, valutate in termini contabili di guadagni o perdite individuali. Le operazioni vengono effettuate se fanno guadagnare gli operatori, altrimenti vengono abbandonate. Ma le variabili critiche che vengono selezionate per essere tenute sotto controllo sono semplicemente quelle utili nelle competizioni monetarie tra quegli operatori, la preservazione degli ambienti non è più pertinente e viene rimossa. I comportamenti dettati dalla commedia mercantile operante, ovvero effettuati ‘come se’ l’ambiente fosse una merce, sono possibili poiché esistono delle credenze accettate dalla comunità simbolica cui appartengono tali operatori, che rende reale tale commedia. L’aspetto esperibile delle costruzioni per il modo in cui vengono fatte apparire nelle culture moderne, è guidato dalla estetizzazione che produce immagini non referenziali, istantanee, per prodotti di consumo, prodotti mobili che attraggono un consumatore, non istruiscono un futuro manutentore e riproduttore del prodotto. Diversamente dai prodotti immobili, questi invitano all’acquisto e all’innovazione compulsiva, alle svendite stagionali per rottamare tutto il possibile, in modo da fare spazio ai nuovi, sempre straordinari arrivi. Questi accelerano il passaggio dalle risorse ai rifiuti, mediante una produzione che occupa i consumatori non per farli sopravvivere ma per vendere loro quelle merci che l’estetica rende continuamente mutevoli e individuali. Questa macchina di trasmissioni che, per arricchire qualcuno sta appestando il mondo, pare fatale: il rito del consumo è la nuova preghiera quotidiana che la fa espandere. È vero che fa anche sopravvivere, ma divorando il futuro, quelle risorse non rinnovabili che noi sprechiamo continuamente dovevano essere usate con estrema prudenza e parsimonia.
Il mondo che vediamo e nel quale viviamo presenta caratteristiche che motivano le nostre azioni, il sensorio ne coglie aspetti cui il motorio risponde con azioni che producono conseguenze sia su noi che sul mondo. Del mondo che vediamo nessuno può cogliere tutte le proprietà, quindi noi viviamo nell’ambito di culture che condividono la selezione delle proprietà corrispondenti alla forma di vita cui partecipiamo, che condividiamo con altri appartenenti alla nostra stessa comunità simbolica e parlano il nostro stesso linguaggio. Dunque le culture, analogamente alle specie che pure selezionano proprietà specificamente correlate alla loro forma di vita come al loro corpo, si riproducono per avere i comportamenti corretti rispetto alla loro caratteristica sopravvivenza nel loro umwelt. Ne risulta che non possiamo avere tutti lo stesso mondo, indipendente dalla nostra forma di vita, né potremmo adottare tutte le possibili forme di vita per esaurire l’esperienza di tutte le proprietà del mondo. Per questo la nostra esperienza del mondo non può essere individuale ma è l’esperienza comune agli appartenenti alla stessa comunità culturale, alla stessa comunità simbolica, poiché consiste in un linguaggio esemplificazionale che nella percezione istanzia una parte del mondo evidenziandone proprietà specifiche corrispondenti alla comune forma di vita, e che di essa orientano i comportamenti caratteristici e le comunicazioni. Dunque ogni comunità culturale, simbolica, ha un mondo che attiva tali comportamenti e comunicazioni. In tal senso va intesa come un linguaggio, anzi un complesso di linguaggi che comprendono anche il paesaggio, l’architettura, la città, le immagini, oltre alle parole. È per produrre i corretti comportamenti che selezioniamo le proprietà con cui riconosciamo i paesaggi. Una conoscenza indipendente dalle comunità simboliche e dai relativi comportamenti è un assurdo, anche perché prevede un mondo unico e un unico omogeneo sistema simbolico che non è un linguaggio comunicativo, ma di cause ed effetti.
Non è che non ci siano quelle cose che chiamano ‘quanti’, non voglio certo contestarlo, ci sono anche quelli, ma non solo quelli. A certe interrogazioni emergono risposte che conducono a descrivere i quanti che hanno determinate conseguenze pratiche, comportamenti, ma ad altre interrogazioni ed esperimenti (intendo entro altre diverse circolarità) emergerebbero altre risposte con altre diverse conseguenze. Contesto che quella sia la Realtà unica e sola, come molti vorrebbero farci credere. È uno dei mondi, il mondo di quella comunità non certo universale che va sotto il nome di ‘uomo occidentale’. Tutte le comunità fanno del bene e del male, ma non vi sono comunità buone o cattive, lo sono in proporzioni diverse. Non esistono comunità completamente buone o completamente cattive: vi sono cose da apprendere da tutte le comunità. Altrimenti non comprenderemmo perché sono emerse, e cosa, sia pure sbagliando, intendessero perseguire. Non sono certo tutte uguali ma il loro emergere nel loro mondo diventa comprensibile soltanto uscendo da questi schemi manichei che eludono colpe e meriti effettivi.
Dunque, è per il fare che noi vediamo un certo mondo, primariamente esso deve motivare il fare. Non può essere oggettivo poiché questo presupporrebbe che noi tutti vediamo tutte le proprietà dell’ambiente circostante per attivare tutti gli stessi comportamenti in ambienti però radicalmente diversi, tanto che, per fare dovunque gli stessi edifici e città, dobbiamo nascondere impianti diversi per poterli abitare, sprecando combustibili e inquinando. Ciò che dobbiamo fare è selezionare le proprietà pertinenti alla determinazione dei comportamenti corretti. Il nostro problema sono i comportamenti adeguati, e le proprietà del mondo sono selezionate per determinarli. Le costose conseguenze di comportamenti uguali dovunque indotti dal vedere un ambiente dovunque uguale devono farci comprendere che la verità sui mondi rivelati dalle nostre conoscenze si misura dai comportamenti che esse determinano: le descrizioni implicanti tali proprietà evidenziate dovrebbero essere finalizzate a indirizzare le azioni giuste. Non è l’essere del mondo che deve prioritariamente interessare la conoscenza, per determinare in base a essa i comportamenti conseguenti. Dobbiamo partire invece dai comportamenti e dalle loro conseguenze desiderate, e il mondo dovrebbe essere congruente con essi. Primariamente, sono i comportamenti che possono portare verso la sopravvivenza oppure verso la scomparsa, non i mondi. Ovvero, sono quelle circolarità retroattive, umane e comportamentali – che noi stabiliamo con le proprietà selezionate ed evidenziate dei mondi – che le nostre culture controllano per poter sopravvivere, non i mondi. E le circolarità comprendono il nostro sguardo, le nostre visioni, credenze e conoscenze, la nostra forma di vita, non solo il mondo esterno o l’individuo universale.
E poiché le descrizioni producono comportamenti, comprendiamo che le descrizioni sono progetti che vincolano comportamenti. Qualsiasi conoscenza pubblicata descrive fatti incontrati ed esprime valori progettati da qualcuno che impersona la comunità cui egli appartiene. La descrizione dell’evoluzionismo dimostra la sua verità rispetto ai comportamenti che motiva, come l’ipotesi materialistica. Fa ridere discutere se il mondo sia materiale o meno, la questione è quali comportamenti comporta l’essere materiale del mondo e quali comportamenti determina il non esserlo o l’essere qualcos’altro. Una buona parabola che comportasse azioni volte a farci sopravvivere sarebbe preferibile a ‘conoscenze fondate’ presunte vere, che ci facessero soccombere, magari invitandoci a essere realisti e a rassegnarci al ‘pensare stoicamente’ che non eravamo fatti per sopravvivere.
Se ha senso questo discorso anche per il mondo che ci circonda, perfino per le stesse orbite planetarie, delle quali pure selezioniamo le proprietà che corrispondono all’uso che ne fa la nostra comune forma di vita, la nostra comunità, allora ha ancora più senso per il mercato che è una storia volta a legittimare dei comportamenti umani (Goodman 1996). Se essi conducono a distruggere città e monumenti, turistizzandoli magari invece che distruggerli con le bombe (senza comprendere che è un altro modo di distruggerli), dobbiamo modificare questa sciagurata retorica. Se le descrizioni producono comportamenti di persone, azioni coordinate, il magistero più giusto per le nostre ricerche è proprio la ‘retorica’ (Perelman 1979), molto più serio delle ‘tecno-scienze oggettive’, senza con questo eliminare tutto il buono che vi è in esse, naturalmente.
Il mercato non ha quindi alcuna esistenza indipendente dalle nostre esemplificazioni, va discusso criticamente per confermarlo volontariamente e non subirlo col fatalismo attuale. La scala del mercato soprattutto, poiché la scala è cruciale, sappiamo che il dinosauro non avrebbe potuto diventare umano, sviluppare con le sue dimensioni le capabilità umane. Vale anche per il mercato internazionale. Il patto costitutivo che ne abilita la legittimità rendendolo accettabile, si basa sulla credenza di una presunta razionalità, che avrebbe dovuto mantenere le promesse sulle quali si fondava. Ma questo non è avvenuto. Il trucco che rende fatale, perché non comprensibile, questa società moderna, termo-industriale nomadica, consiste nell’invenzione dell’’individuo universale’, la comunità uni-personale che sostituisce quelle comunità multi-personali che sono le culture. La ‘comunità’ è invisa a questa moderna ideologia, è stata rimossa e sostituita, prima dalle nazioni e poi dalla globalizzazione internazionale. Non devono poter esistere comunità culturali, linguistiche, particolari, devono diventare internazionali, universali. Lo spirito cosmopolita dell’individuo è il suo appartenere a una ‘comunità’ universale. Il multi-culturalismo, che dovremmo tutti adottare, ha questo senso totalitario: dovremmo tutti credere di appartenere alla medesima società universale e di condividerne il mondo uniformato e unico possibile. Non possiamo pensare che vi siano altre comunità che la pensano diversamente, con differenti possibili forme di vita, sarebbero forme di vita patologiche da risanare, non con le quali discutere. La comunità, potenziale avversario di questo insieme di individui universali, viene sottoposta a interdizione preventiva, tollerata come un temporaneo residuo di pratiche scadute perché superate dalla storia. La società di individui universali anti comunitari, quasi un ossimoro, delegittima chiunque creda di appartenere a una altra diversa comunità culturale. Le critiche ammesse dovrebbero provenire da un altro individuo universale (ovvero da un’altra comunità uni-personale) rivolte a individui universali, il quale per parlare dovrebbe negare l’esistenza di quello che intende dimostrare: ovvero l’esistenza di comunità multi-personali. Qui infatti io intendo discutere, come appartenente a una comunità stanziale, con gli appartenenti alle comunità nomadi, che si credono individui universali (ovvero comunità uni-personali).
L’Illuminismo credeva che gli individui – una volta ‘usciti dallo stato di minorità’, consistente nell’essersi liberati dall’obbligo di obbedire alle istituzioni dell’Ancien Regime (le chiese e le monarchie) – sarebbero evoluti naturalmente verso forme di emancipazione tali da non avere più bisogno di alcun controllo da parte di istituzioni collettive. L’ideologia liberale che allora emerge si fonda su questa illusione di uno stato temporaneo, tanto minimizzato da essere quasi assente, come volevano gli anarchici. Quell’ideologia che, iniziata con la Riforma, ha guidato per quattro secoli le varie rivoluzioni borghesi, è diventata un mito che non si regge su dimostrazioni tecno-scientifiche poiché fonda pure la loro legittimità attraverso la credenza nell’individualismo metodologico, che da essa proviene. Questa sarebbe la superiorità delle istituzioni tecno-scientifiche sulle culture locali, che il multi-culturalismo tollera, come le religioni, poiché le crede private e temporanee, in via di scomparsa. Oggi, con lo stato del pianeta, le migrazioni in atto, le crisi economiche, le risorse non rinnovabili sempre meno disponibili, etc., siamo molto distanti da quelle illusioni e forse sarebbe necessario un ri-esame.
4. Costi e benefici dell’architettura moderna
La strategia del sostituire le ragioni culturali delle comunità stanziali (comunicate come sistemi simbolici) con la presunta razionalità di una mente individuale, che agisce come se si trovasse in un mondo unico (consistente in un meccanismo mercantile internazionale nomade, basato sulla computazione di trasmissioni), si rivela oggi sempre più perdente. Quello è infatti un mondo a termine – nel senso che lo sono le sue principali risorse – e quel termine è molto più vicino di quanto possiamo immaginare. Infatti, questa strategia scellerata ha costi enormi, non solo in termini di identità culturali, ha costi perché spreca delle risorse minerali non rinnovabili (combustibili, metalli, pietre, acqua, ecc.) e inquina contribuendo sensibilmente al riscaldamento del pianeta, oltre che riducendone la biodiversità. La tecnologia degli edifici che ha avuto maggiore diffusione nella modernità è quella dei grattacieli ‘gotici’, una tecnologia leggera che è inadeguata negli ambienti temperati, aridi e tropicali dove dal sole spesso gli abitanti devono difendersi, ambienti molto diversi da quelli delle culture nordeuropee di clima freddo, nel cui ambito essa si è sviluppata. Quindi le multinazionali della produzione edilizia diffondono quell’architettura dovunque, demandando agli impianti il compito di renderla abitabile, nonostante gli involucri completamente scorretti. Non abitabili comunque in modo ottimale, ma semplicemente vendibili come abitabili. Queste società di mercato complici della ‘grande trasformazione’ non sono affatto razionali e non sono neanche mosse dal mercato (Polanyi 1974). Sono corporazioni multinazionali mosse da una combinazione di astuzia, egoismo e avarizia, venduta come competitività, che attraverso la retorica del mercato ottengono sovvenzioni dalle varie nazioni dove operano e normative che rendono competitiva la loro inefficienza.
È come se l’architettura moderna, abolendo le distinzioni tra le culture/specie, volesse fornire un solo umwelt, unico e uniformato per tutte le culture/specie esistenti. Un umwelt internazionale che è ‘monetologico’ e non climatico: indifferente alle diverse regioni geografiche del pianeta. Perché l’architettura di acciaio e vetro, con la sua immagine evocante la tradizione gotica, possa essere venduta dovunque, occorre nascondere al suo interno un impianto regionale, sensibile alle diversità climatiche. La modernità è economicamente irrazionale, poco confortevole, spreca risorse non rinnovabili e inquina, ma costruisce un mercato internazionale per farci credere che possiamo tutti consumare gli stessi prodotti multi-nazionali, cercando perfino di farci credere che soltanto così possiamo far sopravvivere tutti gli abitanti del pianeta. [Fig 2] Le periferie di tutto il mondo sono visibilmente uniformate da una unica architettura moderna perché questa possa essere prodotta da costruttori multinazionali con prodotti ancora multinazionali. Quelli che avevano buone città dovranno naturalmente rassegnarsi a perderle per inseguire questa spaventosa unificazione della megalopoli planetaria, uguale dovunque con una unica cultura. Le scuole che continuano a insegnare questa miserabile architettura internazionale aiutano l’insensata crociata illuminista della modernità.
È così che l’opera diviene internazionale, secondo il programma illuministico della modernità, presupponendo che il progresso offerto dalle tecno-scienze sia tanto superiore a tutte le altre tecniche che le varie tradizioni culturali hanno sviluppato nei vari territori, da poterlo imporre senza esitazioni né discussioni. Qui si confrontano una pratica collaudata dall’esperienza dell’uso, non dissimile dalle pratiche linguistiche e relativi atti linguistici, operanti nell’ambito di specifiche comunità linguistiche, con una pratica tecno-scientifica – estetica e ingegneristica – internazionale. Diventando internazionale il progetto rinuncia perciò a essere sistema simbolico di una comunità simbolica, aspirando come progetto moderno a essere una specie di ‘esperanto’, come se fosse questa la naturale evoluzione della cultura architettonica mondiale. Non è mai stata posta una scelta ponderata, basata su una riflessione critica, sui vantaggi e gli svantaggi delle conseguenze di uno stile unificato e uniforme in tutto il pianeta. Impegnata ad aiutare la ‘grande trasformazione’ (Polanyi 1974) invece che a resisterle, la cultura architettonica affianca quei processi che sottomettono le culture al dominio del mercato internazionale, invertendo la precedente situazione che vedeva invece l’economia integrata nelle culture. Così l’architettura cessa di rafforzare le identità culturali regionali e diviene componente di quella razionalità universale che rimuove le culture, i loro linguaggi, le forme di vita, le capabilità correlate ai vari paesaggi e alle città, per sottometterle a una unica e uniformata forma di vita universale guidata dalle tecno-scienze e dall’istantaneismo nomadico, senza tradizioni. Indebolire la stabilità delle comunità simboliche con il loro indispensabile spessore storico temporale, implica indebolire i relativi linguaggi ‘comunicativi’, rendendoli ‘trasmissivi’. La progressiva indeterminazione semantica dei sistemi di comunicazione moderni, la loro incapacità di discutere, è l’esito delle acclamate ibridazioni cosmopolitane, del culto del diverso. Non comprendiamo che per capire la diversità del nostro interlocutore dobbiamo condividerne il linguaggio: in assenza di condivisione non possiamo dire né che sia uguale né che sia diverso. Il culto del diverso è, in realtà, un culto dell’estraneo, dell’incomprensibile.
Nessun patto costitutivo criticamente argomentato ha accompagnato questa mostruosa transizione, che ora rivela di non essere tanto chiara e distinta quanto l’hanno creduta i padri fondatori. Per sottomettere queste culture, in molte delle quali le immagini parlavano, è stata necessaria una ideologia iconoclasta che ha radicalmente mutato lo sguardo rendendo quelle immagini mute. Non essendo praticabile la loro eliminazione fisica è stato modificato il codice che le ha museificate e ha costruito quella ‘cosa’ che è stata per molti anni l’opera d’arte, moderna e contemporanea. Ridare la parola all’immagine significa restituirle un ruolo non marginale nelle forme di vita delle città attuali (Bredekamp 2015). Tematizzare la grande trasformazione consiste nell’argomentare la relatività della cultura dominante, nel non considerarla come vuole essere riconosciuta internazionale, ma riconoscere sia la regione specifica da cui è partita per la sua marcia piena di promesse, che quell’identità della quale deve rispondere. Vi sono oggi molti disastri planetari che hanno padri nascosti da portare alla luce, non per infliggere inutili castighi ma per fermarli.
Tra questi anche i padri di quell’esperanto architettonico moderno che in nome di una presunta universalità rimuove le comunità linguistiche delle varie culture. Il quadro normativo di questa transizione, le motivazioni del suo dover essere, si fondano su verità di fatto basate su presupposte sperimentazioni, che molte successive ricerche hanno dimostrato non tanto false quanto piuttosto contenuto di progetti, di costruzioni retoriche programmatiche, piuttosto che dati di fatto. Quindi i benefici di molti edifici moderni sono fondati su una serie di credenze, supportate dalla volontà e dall’interesse di alcuni che le propongono come risposte necessarie a situazioni di fatto, non perché siano tali ma perché credono che non possano esistere altre comunità con credenze diverse, con diverse forme di vita. Molte espressioni tecno-scientifiche che supportano la razionalità dei moderni non emergono da fatti ma da preferenze, aspettative, progetti di una società che ha un volto e una volontà, un territorio e un clima che motivano e modulano la loro riconoscibile forma di vita, con particolare insistenza negli ultimi secoli.
La rimozione sistematica delle comunità per far posto all’individuo universale, così naturale all’ideologia illuminista, comporta conseguenze del tutto impreviste e forse imprevedibili. Con le comunità se ne vanno la tradizione, la genealogia, i confini, le regioni e le città. Un moderno diluvio universale uniformante e onnivalente. L’architettura resta immagine, vorrei dunque dare la parola all’architettura, ridarle la referenzialità perduta, ricondurla a casa dopo i moderni vagabondaggi ed errori. Seguendo la distinzione proposta dal comunitarista Michael Walzer di una ‘morale spessa’ fondata sulle tradizioni culturali radicate nel territorio regionale, congruente con geografia e clima (vedi anche la situated knowledge), e una ‘morale sottile’ condivisa dalle varie tradizioni culturali situate che ne garantisce e legittima l’autonomia, la città bioclimatica, quel complesso di linguaggi e istituzioni nel cui ambito si costituiscono le comunità culturali (Walzer 1999, 2008). Sviluppando questa prospettiva possiamo immaginare le comunità culturali al posto degli individui, intesi come le comunità uni-personali della cultura moderna, che si confrontano direttamente con il villaggio globale. La radicale differenza consiste nella possibilità di gestire sistemi di comunicazione come i linguaggi, possibilità che manca negli individui. Poiché penso che solo i linguaggi consentano di dare e chiedere ragioni, ovvero di diventare consapevoli e responsabili, credo che non siano gli individui che possano rispondere, ma le comunità comunicanti, che discutono: sono quelli, credo, che mancano all’architettura estetizzata della modernità.
Preservare un’architettura estetica, non cognitiva, significa eludere il suo rilevante contributo al global warming, allo spreco di tante risorse non rinnovabili, alla distruzione di suolo e di biodiversità, alla distruzione delle città. Se l’architettura fosse conoscenza dei siti e delle istituzioni che essa fa abitare, diventerebbe consapevole delle sue responsabilità nei disastri del pianeta, del suo partecipare a quella ‘grande trasformazione’ che sta distruggendo i linguaggi, le città, le comunità che discutono, le comunicazioni rendendole trasmissioni. Invece non lo è, e per questo si rassegna a prendere atto dell’ormai inarrestabile riscaldamento che sta già provocando migrazioni, dell’internazionalismo, della modernizzazione, con un distorto concetto di realtà. L’invenzione moderna di uno sguardo non-morale – combattendo la morale identificata con la chiesa e la sua religione – separa la realtà dalla morale, come se potesse esistere una realtà indipendente dal senso e dalla morale, per essere la morale considerata soggettiva e applicata a posteriori, individualmente (MacIntyre 1981). La morale, come il linguaggio, non può esistere individualmente. Solo una comunità può condividere e sviluppare, vivendola, una morale. Gli argomenti di Wittgenstein sulla impossibilità del linguaggio privato valgono anche per la morale, che non può essere privata. La confusione del multi-culturalismo, che implica un multi-moralismo, evidenzia i tanti problemi che esso induce nelle ingenuità (interessate) della globalizzazione. Quando guardiamo un edificio scorretto, che aiuta inquinando il riscaldamento del pianeta e spreca inutilmente risorse non rinnovabili, dovremmo vederlo come un ostacolo da eliminare. Insomma la realtà non è mai neutrale, se non eliminiamo quell’edificio lo preserviamo; non possiamo uscire dalla vita per fare delle analisi e poi rientrare per agire. Il limbo tecno-scientifico moderno produce confusioni enormi con le sue conoscenze neutrali.
5. Un linguaggio esemplificazionale per l’architettura
Vi sono molti altri che hanno considerato l’architettura una specie di linguaggio – Eco, Zevi, Klaus Koenig, Jencks, Broadbent, Portoghesi, De Fusco, ecc. – ma la referenzialità restava sempre una questione cui dare risposta. Invece di cercare analogie con lo studio della linguistica o della semiologia, ho cominciato ad affrontare questo problema attraverso lo studio di Konrad Fiedler (Fiedler 1945, 1967), un filosofo dell’arte che è stato per me molto importante. Penso che la composizione architettonica faccia emergere questioni filosofiche e che la referenzialità sia una di esse. È difficile comprendere il modo in cui l’architettura simboleggia, produce senso. A tali questioni di referenzialità architettonica ho trovato una risposta filosofica nel concetto di ‘esemplificazione’, che ho usato a lungo nei miei corsi, ricerche e progetti. Il concetto di tipologia, presente in tante teorie architettoniche, è molto vicino a quello di esemplificazione, in quanto un esemplare – tipizzando l'estensione degli aspetti che condividono le sue proprietà esemplificate – diventa capace di trasferire le conoscenze nelle attività di insegnamento e di progettazione. L’esemplificazione svolge due azioni:
1) istanzia l’esemplare presentandolo, Husserl (1950) direbbe “in carne e ossa”
2) ne evidenzia delle proprietà che essa intende focalizzare.
Combina quindi contenuti formali comunicativi con quelli materiali prestazionali: agisce e mostra, costruisce e descrive (Goodman 1976).
Per lungo tempo la cultura della ‘semiotica architettonica’ ha cercato di applicare agli edifici una referenzialità denotativa, multi-senso, anche connotativa, nella quale il segno aveva un denotato diverso dalla realtà che esso denotava. La tipologia in architettura e la teoria del progetto si riferiscono direttamente alla corporalità degli edifici, come nel caso della esemplificazione.
Prevalentemente, il processo di progettazione di un’opera architettonica moderna è diviso in due processi diversi: uno è un processo estetico, per gli aspetti formali e distributivi, e l'altro è un processo ingegneristico, per gli aspetti ambientali e costruttivi. Ma anche l’opera realizzata attraverso di essi (l'edificio, per esempio) presenta due diversi insiemi di componenti o sotto-sistemi: la struttura portante e gli impianti, che sono progettati principalmente da ingegneri, applicando strumenti tecno-scientifici, gli involucri esterni e interni che sono progettati principalmente da architetti, applicando gli strumenti dell’estetica (Rush 1986). [Fig. 3]
I due involucri dell’architettura evocano il suo carattere multi-scala, l’involucro esterno incontra l’architettura civica dell’urbanistica, l’altro incontra l’architettura di interni dell’arredamento. Gli stili articolano questi complessi di strumenti estetici, rendendo riconoscibili le diverse attitudini formali dei progettisti, dando loro, lontano dalla soluzione di problemi tecnici, il carattere di ornamento, di intrattenimento, universale (Los 1967).
Gli ingegneri agiscono e gli architetti mostrano. Gli ingegneri hanno a che fare con le caratteristiche strutturali e anche con le caratteristiche ambientali di climatizzazione, illuminazione e acustica degli edifici, garantendo la istanziazione delle caratteristiche necessarie per la stabilità e il funzionamento climatico, luministico e acustico dell'edificio. L'edificio diventa un dispositivo che può essere acceso o spento. Diventa abitabile solo quando è acceso, ma non abitabile quando è spento. In passato l'edificio era costruito su commessa, ma come un prodotto finanziario oggi esso ha bisogno di essere costruito quando può ottenere il permesso ed è disponibile il mutuo. Al fine di renderlo più vicino alla produzione di automobili, diventa così possibile produrlo a magazzino. Poi sarà reso operante, acceso, quando sarà acquistato e abitato. Lo si vede nelle strade, ma è sospeso come se fosse parcheggiato nel magazzino della fabbrica. Utilizzando le strade della città come il magazzino della fabbrica di edifici, il costo di questi investimenti diventa molto alto, ma è sostenuto principalmente dalle tasse dei cittadini, non dagli investitori. Il suolo sprecato da questi depositi di appartamenti non è poco: nelle nostre città almeno un quinto degli alloggi si trova in questo stato. Alcuni quartieri urbani sono infatti città fantasma, che includono edifici “dormienti”, disabitati in attesa di essere venduti o affittati, come investimenti bancari al di fuori delle banche. Essi esemplificano il loro ruolo finanziario come la loro caratteristica principale, anche se non esplicita. L’interpretazione convenzionale più accreditata è il loro “naturale” aggiornamento tecnologico, il progresso architettonico [Fig. 4].
Gli operatori immobiliari investono meno possibile nella costruzione degli involucri edilizi esibiti e di più negli impianti nascosti, per rendere l'edificio una sorta di interruttore, che spreca un sacco di energia quando è operante, ma che potrebbe avere lunghi periodi di attesa prima della vendita. Questo spiega la preferenza per involucri generici, internazionali, e per impianti regionali, in grado di accendere o spegnere l'edificio, uguale in tutto il mondo. Gli architetti hanno a che fare con l’apparenza degli involucri edilizi esterni e interni. Essi legittimano con i loro scherzi stilistici internazionali questa transizione verso la costruzione di investimenti finanziari sotto forma di edifici, distraendo e deliziando i loro fan. Dunque la globalizzazione dell'architettura, il suo stile internazionale, non sono dovuti all'effetto delle avanguardie o a fattori della cultura architettonica, ma a questioni monetologiche, più ancora che economiche: la globalizzazione non è architettonica, è finanziaria. L’architetto obbedisce, la sua creatività serve a travestire l’operazione finanziaria. A facilitare questa evoluzione non sono state le avanguardie ma viceversa.
È dunque internazionale l’architettura attuale, come vorrebbe quell’individuo universale che contraddistingue la modernità? Parrebbe così, essendo uguale dovunque. Eppure, se la osserviamo bene vedremo però che l’involucro di acciaio e vetro assomiglia di più all’architettura gotica, che emerge in ambienti dalla luce scarsa, piuttosto che all’architettura mediterranea che dal sole deve talvolta proteggersi con l’ombra dei porticati. Dunque noi siamo colonizzati da una modernità nord-europea e nord-americana, da culture viventi nel clima freddo, non temperato, né arido o tropicale. Molte altre caratteristiche di questa modernità che molti – adottando il solo paradigma temporale senza differenze spaziali – credono internazionali appartengono invece che alla temporalità moderna alla spazialità delle culture di un’Europa continentale che da secoli prosegue la sua nomadica destinazione ben diversa dalla tradizione dell’Europa mediterranea.
Questi due complessi di sottosistemi dell'edificio o di suoi componenti, la struttura portante e gli impianti da un lato, gli involucri interni ed esterni, dall'altro, agiscono in modo indipendente. I dispositivi tecnologici degli ingegneri non hanno nulla a che fare con l'involucro estetico degli architetti. La loro azione consiste nel correggere gli errori commessi nella progettazione della forma dell’involucro edilizio (finestre troppo piccole, orientamento errato, tetto sbagliato, ecc.), ma non per conseguire un involucro adeguato. Infatti queste correzioni non raggiungono mai gli architetti, non sono modificazioni di tale involucro architettonico errato (finestre più grandi, orientamento giusto e tetto rispondente, ecc.), ma riguardano l'aggiunta di dispositivi tecnologici (più lampadine, un impianto ad aria condizionata più potente, più acciaio nascosto nel sistema strutturale, ecc.). Le maschere degli involucri devono apparire prioritarie, le strutture e gli impianti rendono abitabili gli edifici nonostante gli estetici capricci creativi degli involucri. Gli ingegneri considerano la forma dell'involucro edilizio un dato di fatto, sarebbe molto difficile per gli ingegneri convincere gli architetti a cambiare la forma del loro edificio. In questo modo la separazione dei due processi di progettazione interrompe quella circolarità retroattiva che in passato migliorava la progettazione architettonica. Negli edifici del passato, infatti, i progettisti/costruttori realizzavano edifici principalmente replicando le strutture tradizionali e con impianti molto più semplici (solo dove realmente necessari), il progettista/costruttore veniva a conoscenza dei suoi errori, e li correggeva progressivamente, in modo da imparare come migliorare il suo progetto. Ma l’iconoclastia consiglia di lasciar perdere le figure coi loro significati e di affidarci alla indeterminazione semantica dei numeri, più internazionali.
6. Il pilastro deve portare e comunicare robustezza
Ricordo una conversazione con Louis Kahn che sosteneva :
Non basta che un pilastro sia robusto, esso dovrebbe anche mostrare, comunicare la sua robustezza. [Fig. 5] Guardando il pilastro dovremmo riconoscere tale robustezza.
La robustezza dovrebbe essere una proprietà evidenziata dalla forma del pilastro istanziata dalla sua esemplificazione progettuale, esserne un referente. Non è infatti il pilastro che porta, non è il tetto che protegge, ma è l’architetto che porta mediante il pilastro e protegge mediante il tetto, comunicando queste sue azioni a chi abita la casa. Il pilastro istanzia la sua caratteristica del sostenere i carichi che gli affidiamo, e li sostiene anche effettivamente, ma al fine di esemplificare deve anche fare riferimento a tale caratteristica, evidenziandola, mostrandola e comunicandola. Se scrivo una lettera sono io che comunico con chi la riceve attraverso la lettera, non è la lettera a comunicare.
Dal XVIII secolo, con l'introduzione degli ingegneri, il processo di progettazione, diviso in due processi molto diversi, inizia ad avere due diversi accessi epistemici. Qualsiasi pratica progettuale per rispondere ai requisiti del programma genera soluzioni immaginate che controlla per verificarne l’effettiva corrispondenza. Se il controllo risulta soddisfacente adotta la soluzione immaginata altrimenti apprende dall’errore commesso e lo corregge avvicinandosi euristicamente alla soluzione soddisfacente. Una circolarità retroattiva che corrisponde al processo evolutivo contenuta in ogni progetto. Le capabilità immaginative reggono la generazione delle soluzioni ipotetiche mentre gli strumenti di simulazione e valutazione controllano la loro congruenza coi requisiti del programma. Parrebbe che gli architetti dovessero generare soluzioni ipotetiche e che gli ingegneri dovessero controllarne la congruenza con tecniche adeguate ma, a parte qualche caso ideale, non avviene così. Usualmente, la generazione delle forme procede inseguendo stili individuali resi riconoscibili dalle pubblicazioni mentre le engineering li adeguano alle locali burocrazie senza modificarne la creativa esibizione della firma individuale. Sono due circolarità che hanno storie diverse e agiscono separatamente in due mondi diversi.
Nel primo processo l'ingegnere attraverso il calcolo fa che il pilastro istanzi le sue funzionalità, ma dal punto di vista dell’esemplificazione esso manca di riferimenti, non viene mostrato e comunicato: dunque i pilastri sono robusti, ma non appaiono robusti, non rendono manifesta la loro robustezza. Nessuno, senza essere un esperto, riconosce tale robustezza guardandola. Qualcuno può garantire burocraticamente la sua capacità di stare in piedi e sostenere, senza consentirmi di riconoscere tale capacità. Il pilastro è dotato di informazione ma non di significato. Posso confidare nel calcolo del tecnico che calcola l’informazione per garantire quella capacità. L’individualità moderna di quel pilastro, che nessuno dovrebbe copiare, implica l'idea di un sistema sintatticamente e semanticamente denso e saturo.
È Nelson Goodman a identificare nella saturazione e nella densità sintattica e semantica i sintomi dell’estetico, del modo di simboleggiare caratteristico delle opere d’arte figurativa, nel citato I linguaggi dell'arte (Goodman, 1976). Ho in alcuni miei testi sostenuto la distinzione - evidente in architettura, ma non solo – tra ‘modellazione’ e ‘composizione’ (Los, 1997) dove tale distinzione contraddistingue la ‘modellazione’ degli architetti moderni tendenzialmente individualisti dalla ‘composizione’ degli architetti tradizionali tendenzialmente comunitaristi. La modellazione corrisponde alle opere architettoniche dense e sature, la composizione a quelle scomponibili e discrete.
Ogni architetto esperto comunque sa che poi le tecniche di costruzione articoleranno tale sistema perché le casseforme e gli elementi costruttivi sono discreti. Inoltre, molte volte la struttura portante dell'edificio è completamente nascosta, come gli impianti di condizionamento e illuminazione: sono quindi invisibili. Escludo ovviamente i pochi ben noti casi di idolatrica monumentalizzazione di impianti e strutture che non hanno avuto molto seguito. La rimozione di strutture e impianti dalla cultura figurativa degli architetti interrompe quella circolarità che potrebbe rendere visibili le proprietà istanziate dall’ingegnere. La conseguente mancata motivazione a correggere, che porrebbe l’accento su ciò che distingue la configurazione giusta rispetto a quella sbagliata, non rende riconoscibile/visibile la differenza. Occorre riconnettere questi sub sistemi disconnessi e separati per tornare a rendere visibile ciò che non è attualmente visibile, per migliorare l’insegnamento della composizione architettonica e far evolvere il sistema, rendendolo veramente innovativo. I contenuti costruttivi dovrebbero diventare referenziali e, come il pilastro citato, comunicare il loro funzionamento, quelli ambientali renderebbero bioclimaticamente referenziali i due involucri che comunicherebbero così anche il loro radicamento nella correlata regione climatica cui appartengono, riducendo moltissimo il ruolo degli impianti e il consumo energetico, correlato a risorse e inquinamento.
In quest'ultimo processo, quando arriva l'architetto, non considera suo compito rendere referenziali, eloquenti, tali pilastri, ma renderli invece piacevoli. Il suo contributo consiste nell’intrattenere attraverso l'estetica chi sta guardando il pilastro. Così l'architettura moderna non ha esemplari, non ha tipi, perché la forma del pilastro non è impegnata a rendere manifeste le sue caratteristiche strutturali, ma piuttosto a distrarre l’abitante da esse, per estetizzare il pilastro. L'emergere degli stili, causato dalla divisione dei due processi progettuali, ha anche conseguenze sull’esemplificazione architettonica. Qualche architetto o ingegnere ha cercato di fare questo: Pier Luigi Nervi voleva pilastri che potessero mostrare come stavano lavorando, e ha progettato tali pilastri, ma non è mai accaduto che qualche altro progettista abbia ri-utilizzato i suoi pilastri come esemplari, che esemplificassero le stesse caratteristiche. [Fig. 6] Rimasero un’espressione individuale che non è mai stata condivisa nei loro progetti da altri architetti per correggere pilastri che, precedentemente costruiti, fossero apparsi scorretti e quindi corretti nei nuovi progetti, e anche nell’insegnamento della composizione. La cultura architettonica moderna è molto lontana da tale comune riferimento. Il riferimento è una questione di condivisione, mira a un’intesa intersoggettiva, non al raggiungimento di finalità individuali. Il carattere auto-referenziale degli edifici moderni lascia trasparire quell’impossibile linguaggio privato che esprime l’individualità del progettista, non comunica argomentazioni come vorrebbe una democrazia deliberativa. L’individuo è una comunità uni-personale.
Se un sistema simbolico fosse così denso e saturo da rendere impossibile ogni replica dell’opera cui è applicato, e anche dei suoi elementi compositivi, il linguaggio dell'arte utilizzato nella sua composizione diventerebbe un linguaggio individuale, un idioletto o un linguaggio addirittura transitorio. Sarebbe un linguaggio privato o nemmeno tale linguaggio privato, contraddicendo l'affermazione di Wittgenstein (Wittgenstein [1953] 1967), che non esiste un linguaggio privato. Perciò penso che gli elementi o i termini di un sistema o linguaggio esemplificazionale dovrebbero essere replicabili e copiabili, altrimenti non potrebbero essere referenziali. La densità e la saturazione sono sintomi dell’estetica non di sistemi artistici e nemmeno della cognizione. Così l’esperimento di Nervi dell’esemplificare la robustezza del pilastro non è riuscito, e non tanto per la sua mancanza di competenza, ma per la mancanza di risposta da parte dei suoi contemporanei, che non hanno reagito attraverso le repliche del suo pilastro mettendolo in comune, considerandolo bene comune. Così quel componente pilastro non è mai passato dal livello individuale a quello della comunità ‘linguistica’ architettonica, come accadeva invece con le colonne degli ordini.
7. I controlli dell’architettura e quelli dell’ingegneria
Per verificare se un pilastro istanzia davvero la funzione del sostenere quello che ci aspettiamo da esso, il calcolo di un ingegnere è sufficiente. Può calcolare anche individualmente, senza alcun rapporto con altre persone, e se il pilastro non crolla vuol dire che sostiene, ma resta un’azione strumentale che non comunica nulla. Per verificare invece la sua capacità di riferirsi a tale caratteristica del sostenere, di mostrarsi, di essere comunicato, dobbiamo verificare se qualche altra persona osservando la forma del pilastro riconosce tale caratteristica, associando in qualche modo la forma del pilastro con la sua funzione di sostenimento. La relazione tra la forma del pilastro e la sua prestazione deve essere resa manifesta, diventare un’azione comunicativa. Ma non basta una sola esemplificazione perché essa entri nel linguaggio esemplificazionale di una certa cultura. Essa dovrebbe essere ripresa da altri progettisti/costruttori e acquisire quella frequenza di uso che la facesse entrare nel sistema simbolico per la sua semantica condivisa. È il compito istituzionale delle scuole di architettura, un compito oggi tradito da tutte quelle che conosco. Penso che abbiamo bisogno di una sorta di intesa per consolidare queste associazioni e condividerle. La prima è un’azione strumentale finalizzata, quest’altra azione ripresa e ripetuta sarebbe invece un'azione comunicativa (Habermas 1986). L'esperienza dimostra che gli edifici stanno in piedi senza essere referenziali, possono funzionare in modo strumentale ma non hanno un carattere comunicativo. Contengono molta informazione ma poco significato e per questo possono produrre effetti, portare i carichi necessari ma non comunicare. Penso che in questo modo, possono essere esteticamente validi, ma non artisticamente capaci di conoscere i loro luoghi e le istituzioni che li abitano. L’interpretare tale mondo di esemplificazioni interrotte – che implica una società di individui capaci di dotarsi di strumenti finalizzati molto efficienti, ma non di esemplari comunicativi – ci rende contemporaneamente consapevoli che non siamo capaci di diventare auto-coscienti e responsabili di tali strumenti.
Se l'architettura come arte (come linguaggio esemplificazionale) può comprendere il luogo in cui essa è costruita, o meglio, l'architetto attraverso l'arte dell'architettura può comprendere quel luogo esemplificandolo, l'architettura come estetica, come un intrattenimento internazionale, è capace di deliziare ma non di comprendere. Non può esistere un linguaggio internazionale. Soltanto una comunità può coltivare un linguaggio, usandolo per un tempo sufficiente a farlo condividere in una regione specifica di convivenza. I linguaggio come il vino deve invecchiare per essere buono. Per questo le comunità parlanti, discutenti, sono i tesori più rari e fondamentali che abbiamo nel mondo, dobbiamo assolutamente preservarli come la nostra principale risorsa. Se li modificassimo troppo perderebbero la capacità di attingere alla memoria di tutta la letteratura da cui emergono, che non si potrebbe certo ri-costruire istantaneamente. I linguaggi erano complessi, erano intrecciati coi linguaggi dell’architettura, della città, della produzione e dei vari lavori. Il logo-centrismo moderno è un portato dei cinque secoli di dominio della stampa di testi verbali (Debray 1991, 1999).
Per diventare una specie di linguaggio dell'architettura, esso richiede repliche e condivisione, e quindi una certa stabilità e durata, invece l'estetica per intrattenere richiede di essere sorprendente e nuova ogni giorno. Le sue manifestazioni sono più vicine alla notizia che alle espressioni artistiche. Mentre l’estetica ha da cambiare continuamente, l’arte dovrebbe trovare una sempre migliore sistemazione nelle intese di una comunità, come accade al linguaggio verbale. La transizione moderna dall'arte all'estetica può spiegare molte incomprensioni odierne circa l'irresponsabilità della cultura architettonica di fronte alle condizioni reali del mondo. Basta pensare alle città, al riscaldamento globale dovuto in gran parte a edifici e città sbagliati, all’esaltazione acritica della tecnologia, all’individualismo dei progettisti, all’insegnamento corrente dell’architettura.
Se si pensa a una medicina, le sue caratteristiche terapeutiche sono selezionate da un medico e da un chimico, ma per migliorare la sua interfaccia con i pazienti le vengono aggiunti alcuni gusti, arancia e zucchero e colori per renderla più gradevole migliorando l’interfaccia con l’utente. Potremmo dire che la medicina istanzia le caratteristiche terapeutiche invisibili, ma che non si riferisce a tali caratteristiche, per renderle riconoscibili: l'esperienza di quelle caratteristiche è distratta dall'esperienza del gusto di arancia e zucchero e dei colori. Oggi gli architetti sono più coinvolti nell’aggiungere arancia e zucchero al pilastro che nell’esemplificare le sue vere caratteristiche. Per spiegare la sua mancanza di comprensione della realtà, nelle mie lezioni chiamo l'architettura "la Bella Addormentata". Diceva Eraclito:
Gli svegli hanno un unico mondo comune, nel sonno ognuno si apparta in un mondo a lui proprio.
8. Contro il repertorio internazionale per l’architettura moderna
Questo è il motivo per cui è emerso un vocabolario internazionale, globale, per gli involucri architettonici. Penso invece che il vocabolario dell’architettura non dovrebbe essere globale: utilizzando un vocabolario globale gli architetti finiscono infatti per progettare edifici che esemplificano lo stesso sito dovunque. Ma i siti del pianeta sono fortemente differenti. Principalmente, l'architettura moderna è una finzione, non rivela il sito vero e proprio, interpreta un sito fasullo uguale dovunque. Se il linguaggio esemplificazionale dell'architettura avesse ‘parole’ architettoniche, sarebbero senza un mondo. Quindi, se "possiamo avere architetture senza un mondo ma non mondi senza architetture o altri simboli" (Goodman 1988), un vocabolario globale riguarda un’architettura fittizia, o meglio, architetture senza un mondo. Questi edifici moderni esemplificano un mondo di ‘unicorni architettonici’ come tanti luoghi leggendari del passato, edifici che non sono reali, pure essendo costruiti. Una parola, che denota, può fare riferimento al suo oggetto senza avere le caratteristiche dell’oggetto riferito, invece il riferimento per esemplificazione richiede sia la creazione di istanze che il riferimento a esse. Questo genere di referenzialità è perfetta per l'architettura, dove un elemento, per esempio un pilastro, deve fare riferimento a (oppure rendere manifesto, comunicare) un referente, ma contemporaneamente deve anche istanziare o possedere, eseguire effettivamente, la sua funzione di sostegno. Ma tale linguaggio esemplificazionale non si può applicare all'architettura attuale. La divisione tra istanziazione e riferimento è il problema principale dell'architettura reale perché l'architettura moderna non è più esemplificazionale, come era in passato, non è un sistema simbolico pubblico, istituzionale.
Quando adotto e insegno un vocabolario architettonico globale (ciò che sta accadendo nella maggior parte delle scuole di architettura) ottengo edifici che devo riempire di impianti ad aria condizionata per poterli utilizzare, altrimenti non sarebbero abitabili. Ma questi impianti non sono globali, sono strettamente locali, regionali (Phaidon 2004) [Fig. 7]. A Riyadh non posso installare un impianto internazionale, non posso per esempio installare quello di Helsinki. Ma l'involucro architettonico invece è lo stesso in entrambi i casi. Ora dobbiamo capire che, poiché nessuno vede l'impianto locale, regionale, dato che nessuna rivista di architettura lo pubblica, lo rende pubblico, tutti gli architetti e gli studenti guardano invece gli involucri di edifici internazionali, visibili in tutte le riviste di architettura e nei media. Queste riviste sono oggi gli effettivi trattati di architettura, attraverso i quali passa tutto l'insegnamento architettonico. Con questi involucri architettonici internazionali (progettati utilizzando vocabolari globali) riempiti con impianti locali, stiamo sprecando un sacco di risorse non rinnovabili, il petrolio per esempio, che potrebbero essere meglio utilizzate altrimenti (dato che tali risorse stanno diventando sempre più rare) e stiamo inoltre inquinando l'ambiente, in modo da aiutare il riscaldamento globale. Conoscere il ‘globish’ (global English) è come saper fare le mosse degli scacchi, conoscendo le regole, senza saper vincere le partite. L’attuale globish architettonico dimostra professionalità nel rendere gli edifici sia ingegneristicamente stabili e climatizzati che esteticamente apprezzabili, tanto da essere compravenduti, ma incapaci di vincere le partite che la presente situazione problematica chiede loro di giocare.
9. Distinguere le immagini nell’arte e nell’estetica
Senza sostituire l'arte con l'estetica, come è accaduto nella filosofia del XVIII secolo influenzata da interpretazioni più o meno congruenti con la Critica della facoltà di giudizio che Kant pubblica nel 1790, tutto questo non avrebbe potuto avere luogo. Le avanguardie figurative e architettoniche moderne hanno fatto il resto completando questo processo di progressivo indebolimento dei linguaggi che accompagna il parallelo indebolimento delle comunità linguistiche. È la comunicazione che viene gradatamente disarticolata per essere sostituita dalla trasmissione. Questa transizione dall’arte all’estetica priva l'arte dell'architettura della sua capacità di conoscere e di comprendere, perché l'estetica – come Konrad Fiedler chiarisce molto bene – è la ricerca della bellezza mentre l'arte è una forma di conoscenza. Nel suo saggio Making Manifest Catherine Elgin (Elgin 2011), dice:
Piuttosto che assumere l’esemplificazione come un sintomo della estetica, dovremmo riconoscere che l’esemplificazione svolge un ruolo importante in tutta la cognizione. Ciò che è sintomatico dell’estetico è la densità e la saturazione esemplificazionale, ciò che è sintomatico dello scientifico è la differenziazione e la rarefazione esemplificazionale. Questi sono, come Goodman ha riconosciuto, semplicemente sintomi. Probabilmente si possono trovare esemplari abbastanza articolati e rarefatti nelle arti ed esemplari almeno un po' densi e leggermente saturi nelle scienze. Eppure, gli esemplari densi e saturi hanno più probabilità di funzionare esteticamente, e gli esemplari articolati e rarefatti hanno più probabilità di funzionare scientificamente.
Elgin ha ragione nel collegare la esemplificazione con la cognizione, ma solo distinguendo l'arte dell'architettura da quella moderna combinazione di estetica e ingegneria, siamo in grado di perseguire una architettura cognitiva. Suppongo che gli esemplari articolati e rarefatti abbiano maggiori probabilità di funzionare cognitivamente, sia nelle arti che nelle scienze, in modi diversi, naturalmente. Al contrario, gli esemplari densi e saturi hanno maggiore probabilità di funzionare esteticamente, dove l'estetica, in contrasto con l'arte, non funziona cognitivamente.
Seguendo Fiedler possiamo avere una proposta interessante, perché se un sistema esemplificazionale architettonico – differenziato e rarefatto – può perseguire un processo di comprensione per esemplificare il sito, istanziando le sue caratteristiche e facendo riferimento ai suoi aspetti comunicativi, il progetto architettonico potrebbe funzionare meglio di adesso, superando le modalità internazionali della sua evoluzione, e acquisendo un ruolo più profondo nell’ambito delle culture regionali, in modo da migliorare l'espressione delle loro identità locali. Penso che i sintomi dell’estetica, sviluppati da Nelson Goodman ne I linguaggi dell'arte e in altri testi, sarebbero meglio interpretati come sintomi di modernità e facendo riferimento all'estetica invece che all'arte: egli sta davvero pensando ai moderni, perché nel XVIII secolo l’arte diventa l’estetica, modificando radicalmente i suoi obiettivi e le sue attività, perdendo il riferimento e diventando una istituzione internazionale.
Il mio sospetto è che la densità e la saturazione delle opere d'arte siano più importanti per la loro autenticazione richiesta dai proprietari – dove un originale è molto più apprezzato (nel senso di prezzo) di una copia – che non per insegnare e discutere sul valore conoscitivo dell'arte. Se un dipinto perde il suo forte legame con la comunità che l'ha prodotto, perché il suo contenuto – quando è vissuto da estranei che non possono capirlo – diventa un valore economico, allora si pone il problema di vietare la sua replicabilità. L’opera diventa un feticcio globale, internazionale, e l’unico modo per renderne impossibile la replica è far valere e condividere un sistema simbolico sintatticamente e semanticamente denso e saturo. È l’operazione svolta dai musei, l’estetizzazione delle opere d’arte è stata la guerra di religione della borghesia mercantile che voleva togliere i referenti culturali dalle opere che comunicavano un progetto morale e renderle merci internazionali, come accade nello stesso periodo con gli scavi archeologici. Gran parte dell’arte contemporanea è intrattenimento estetico internazionale, godibile senza codici culturali locali, e questo deve essere però in copia unica certificata. Con l’arte come forma di conoscenza non ha più niente a che fare.
La sfida del riscaldamento globale del pianeta richiede di essere affrontata con la ricostruzione delle città e un'architettura insegnabile che è fortemente necessaria per aiutare tale ricostruzione. Quando perdiamo gli esemplari, l'insegnamento dell'architettura diventa molto difficile. Essa viene insegnata come divisa in due discipline molto diverse, l'estetica e l'ingegneria, che per motivi differenti spingono i progetti architettonici verso un linguaggio internazionale, (lo stile internazionale), che diventa una sorta di Esperanto: l’attuale globish (l’inglese globale del world wide web). Questi sono linguaggi molto poveri, in grado di trasmettere, ma non di comunicare. I nostri edifici sono strumenti funzionali, forse, in grado di operare come meccanismi, ma incapaci di costruire insieme città che vorrebbero azioni comunicative. L'architettura non è un'arte privata, la sua costruzione coinvolge – per la sua complessità e dimensione – non gli individui, ma le comunità di costruttori coordinati, che devono condividere un linguaggio se vogliono evitare il fallimento della torre di Babele. Anche la sua durata implica una resistenza contro il suo diventare un prodotto di consumo ‘usa e getta’, e permetterebbe il consolidamento di esemplari per sviluppare un sistema simbolico condiviso.
10. Articolazione per rendere discreto il sistema simbolico
Solo articolando il sistema simbolico possiamo rendere riconoscibili le caratteristiche selezionate, da evidenziare nella esemplificazione, cercare quindi un modo di articolare i sistemi densi e saturi. Penso che, al fine di condividere una conoscenza nelle arti e nelle scienze, e di insegnarla nelle scuole, abbiamo bisogno di un sistema simbolico articolato, sintatticamente e semanticamente scomponibile e discreto. (Los e Pulitzer 1998) Nella mia esperienza, un sistema di notazione potrebbe consentire di articolare anche un sistema denso. Nel processo di esplicitazione di un sistema simbolico architettonico potremmo trovare tale sistema di notazione nel suo sistema di disegnare, e potremmo usarlo per ottenere tale articolazione. In effetti il sistema simbolico architettonico è diventato sempre più insegnabile attraverso il disegno, utilizzato sia per registrare i monumenti antichi tradotti in disegni, che per ripristinarli e manutenerli, e anche per progettarli, naturalmente. Il disegno accompagna la sua crescente complessità di articolazione con una capacità cognitiva sempre più profonda e accurata.
Per registrare le conoscenze acquisite abbiamo bisogno di un linguaggio, un linguaggio esemplificazionale condiviso all'interno di una comunità che lo usa per i suoi edifici e le città, come è successo a Venezia o a Firenze e in molte altre città. La coerenza di un linguaggio architettonico per costruire attraverso i secoli una città condivisa, in una specifica regione culturale e climatica, richiede un sistema simbolico esemplificazionale discreto. In qualche modo, le arti allografiche che hanno uno specifico sistema di notazione, possono adottare alcune modalità per articolare anche i sistemi densi e saturi. Ma lo stile architettonico moderno decostruttivista ha perseguito un genere di architettura autografica, come Gunther Benisch dichiara per i suoi edifici, dei quali è in grado di completare veramente il progetto definitivo solo in cantiere, con disegni e modelli sempre provvisori (Los 1997) [Fig. 8]. Come ho cercato di evidenziare, attraverso i sistemi simbolici densi e saturi, la regressione dell'architettura moderna ha indebolito il suo carattere cognitivo, condivisibile, insegnabile, civico dei sistemi esemplificazionali dell'architettura.
Se prendo i dipinti Boogie Woogie di Mondrian o la Grande Onda di Hokusai e li mostro a una persona competente, dopo avere un po' spostato alcune delle sue forme, credo che potrebbe riconoscerli, come succede con l'ortografia di una parola scritta a mano, contraddicendo la loro implicita densità sintattica [Fig. 9], Così come non credo che la minima differenza nelle dimensioni dei rettangoli in un quadro di Mondrian lo renderebbe un esemplare diverso, non credo quindi che il suo sistema sia sintatticamente denso. Il sistema formale De Stjil è stato ampiamente usato in architettura, applicando meglio alcune delle sue regole e peggio alcune altre, sempre mantenendo però la sua riconoscibilità. La possibilità di repliche richiede di segmentare e articolare il sistema simbolico architettonico, una caratteristica necessaria per ogni trattato, come Sebastiano Serlio ha osservato nell'introduzione dei suoi Sette Libri dell'Architettura.
11. Insegnabilità dei sistemi simbolici architettonici
Nel 1956, Carlo Scarpa è incaricato di progettare l’allestimento della Mostra di Mondrian a Roma, e ha bisogno di alcuni dipinti per verificare le sue idee circa il montaggio della mostra, ma i quadri non arrivano [Fig. 10]. Un giorno, non vedendo arrivare i quadri, egli decide di produrre alcuni falsi Mondrian. Quando Palma Bucarelli e Giulio Carlo Argan, responsabili della Galleria di Arte Moderna che la ospita, arrivano sul luogo della mostra, chiamano Scarpa per annunciare l'arrivo dei dipinti. Erano critici competenti di Mondrian e, naturalmente, non approfondiscono l’analisi dei dipinti che stanno aspettando, ma riconoscono quelli di Scarpa come appartenenti al suo ‘discorso figurativo’. La questione che pongo è se essi possano operare come esemplari di quel discorso. Per uno che vuole investire denari in un quadro di Mondrian la sua irriproducibilità è essenziale perché esso preservi il suo valore. Ma per comprendere le caratteristiche della pittura di Mondrian, il loro contenuto cognitivo e il loro modo di esemplificare – come se il proposito consistesse nell’insegnarne il linguaggio esemplificazionale ai componenti di una comunità simbolica che intende usarlo come sistema simbolico comunicativo – allora i falsi di Scarpa sarebbero molto efficaci. La nostra riproduzione dei suoni delle parole nell’ambito di una conversazione è sicuramente diversa da quella degli altri interlocutori, e se dovesse essere comprata, come una espressione irriproducibile per il suo valore esclusivo, gli altri suoni delle stesse parole apparirebbero evidentemente come dei falsi. In una conversazione però quelle riproduzioni sono sufficienti per farci comprendere e per discuterne i contenuti. La ridondanza rende possibile a tutti di parlare una lingua e di usarla nella vita della loro comunità simbolica. Questo fa comprendere l’effetto internazionalizzante, prodotto dall’estetica nell’ambito della iconoclastia voluta dalla Riforma, che ha reso tanto denso e saturo il linguaggio delle immagini per mercificarlo.
Più avanti partecipo, come assistente di Scarpa, a una lezione che egli tiene su Mondrian. Dotato di grande cultura figurativa, egli spiega presso la Facoltà di Architettura di Venezia i tratti distintivi del suo linguaggio compositivo. Fa comprendere molti aspetti interessanti del linguaggio figurativo di Mondrian e discute il carattere discreto del suo sistema, la scelta di tre soli colori, forme soltanto rettangolari e delimitate da spesse linee ortogonali, su un piano strettamente bidimensionale, ecc. Scarpa focalizza il problema del tracciare le linee nere senza rendere riconoscibile l'ultima linea tracciata, nessuna linea verticale o orizzontale deve apparire sovrapposta all'altra, per evitare ogni possibile effetto di bassorilievo tridimensionale.
Riflette su come, spostando un po’ troppo le dimensioni di quei rettangoli, raggiungeremmo una terra di nessuno delle forme, dove il tema figurativo andrebbe perduto, avvertiremmo una discontinuità che spingerebbe la forma lontano da questo ambito tematico, verso la ricerca di un altro equilibrio. Sarebbe impossibile ottenere altri Mondrian in continuità coi precedenti. Se dovessi disporre tali equilibri in un campo morfologico, troverei alcuni punti discreti (come nella semantica dei prototipi), e delle ‘terre di nessuno’, non un denso, continuo, omogeneo paesaggio mondrianiano.
Ho dovuto insistere spesso, per convincere i miei studenti, sulla difficoltà di elaborare trasformazioni parametriche e combinatorie, stirando, traslando, ruotando, scalando delle configurazioni (pattern) senza perdere il tema formale di una composizione, e nella progettazione architettonica questo accade di frequente. Procedendo oltre su tali trasformazioni, ulteriori variazioni dimensionali mostrano la necessità di discontinuità tematiche che ci spingono a trovare una nuova composizione, senza contare sulla capacità della configurazione iniziale di preservare il tema formale originale attraverso modificazioni continue.
Il sistema formale De Stijl è stato ampiamente sperimentato nella composizione architettonica e, seguendone le regole, sono stati conseguiti risultati interessanti. Per studiare le regole della composizione figurativa, usando linguaggi formali volti a ottenere esperimenti formali rigorosamente definiti, Lionel March e George Stiny hanno sviluppato a Cambridge UK un approccio basato su 'grammatiche formali' [Fig. 11]. Seguendo queste esperienze possiamo comprendere quanto sia necessaria un’articolazione delle configurazioni volta a renderne discreto il repertorio di elementi compositivi e sistematiche le regole compositive da condividere nel comporre a vari livelli proposizioni figurative sensate. Quando è in questione il riferimento, abbiamo bisogno del discreto, che emerge dalla notazione della composizione mediante il disegno, altrimenti non possiamo concordare alcun riconoscimento condiviso dei contenuti reciprocamente comunicati (Los 1998a, 1998b, 2013). Penso che spesso le esercitazioni delle avanguardie abbiano soprattutto a che fare con la distruzione della codificabilità delle opere figurative. Vorrei insistere, senza esemplari non possiamo perseguire alcuna esemplificazione. L'internazionalizzazione dell’estetica ha richiesto tali interventi, niente intese locali, nessun codice locale può essere sviluppato oltre l’attimo fuggente del singolo individuo, nessuna regola può essere replicata dopo la sua enunciazione.
Posso credere che i critici non raggiungano mai il consenso su ciò che esemplifica ‘La Mer’ di Debussy, ma, in quanto essa è una forma simbolica del sentimento, come accompagnamento in un film quella musica non potrebbe essere usata in qualsiasi situazione, mentre invece in alcune di esse potrebbe essere particolarmente rispondente. Vi è, credo, una specie di discretizzazione anche se sfocata, quando focalizziamo il contenuto di tale espressione musicale. Potremmo infatti parlare di ‘Pathosformeln’ per contraddistinguere le unità discrete nel campo delle possibilità comunicative di ogni sistema simbolico condiviso da una determinata comunità linguistica o simbolica.
12. Densità e saturazione del sistema simbolico
Con questo, non intendo affatto eludere le questioni di densità e saturazione. Ritengo che esse siano aperte a diversi livelli di possibile articolazione. Potrei spingere tale articolazione verso un elevato grado di densità e saturazione, consapevole di ridurre fortemente la condivisibilità dei sistemi simbolici all'interno delle correlate comunità. In qualche modo trovo che densità e saturazione siano inversamente proporzionali a un’intesa intersoggettiva, quindi al livello di potenziale convenzionalità del sistema. Più un sistema simbolico è denso e saturo, meno è condivisibile perché meno ridondante. Un sistema simbolico pittorico molto denso e saturo, per la irripetibilità di ogni opera, risulta poco insegnabile, condivisibile e convenzionabile, entro una comunità di artisti che lo usa. Contiene tanta informazione e poco significato, trasmette bene e comunica male: adeguato a un sistema militare, inadeguato a un sistema democratico.
Quindi ho scelto il livello di densità e saturazione che mi pare ragionevole all'interno di una determinata comunità che condivide tale pratica. Se considero alcuni edifici ben scelti di un determinato luogo, in quanto condividono alcune forme (tetti sporgenti, orientamento, finestre grigliate per ventilare, ecc.) e posso comprendere il proposito di queste forme, il loro senso (un luogo umido e piovoso), che consiste nel loro uso per lo svolgimento di determinate contenuti/funzioni, allora io considero questi edifici come esemplificanti le proprietà condivise e connesse a tali contenuti/funzioni. Ora posso definire un esemplare che istanzia le proprietà esemplificate e a esse si riferisce in due modi: direttamente, sia possedendo che mostrando tali proprietà, e indirettamente, facendo riferimento ad altre istanze di quell’esemplare di edificio, come membri dell’estensione di tali proprietà. L'esemplare, che esemplifica le proprietà comuni agli edifici selezionati come membri della sua estensione, tipizza tale estensione. Quelle caratteristiche non appartengono agli edifici/strumenti come se ne fossero le funzioni, ma al sistema, al concetto su cui si basa la loro costruzione intesa come conoscenza, al modo che uso nell’insegnare come costruirli e progettarli. Sono anzi le caratteristiche che voglio comunicare rendendole visibili nella esemplificazione.
L'approfondimento di questi studi può consentire di sviluppare un linguaggio esemplificazionale per quel posto. Gli esemplari sono simboli che vanno interpretati, ma dal momento che il riferimento dipende dal contesto (compresa la comunità di costruttori che condividono l'architettura di quel luogo), l'interpretazione è codificata rispetto al contesto. Gli esemplari caratterizzano l'estensione degli oggetti che condividono, all'interno di una data comunità di costruttori, le proprietà esemplificate (tetti, finestre, orientamento, ecc.) [Fig. 12].
Volendo rendere esplicito il linguaggio esemplificazionale di un luogo, caratterizzato da determinati cultura e clima, per insegnare come utilizzare quel linguaggio, ai costruttori che vivono in tale luogo, è impossibile distinguere un luogo mediante suddivisioni in parti sempre più piccole, per cercare in ogni piccola parte alcuni esemplari specifici. I luoghi saranno discreti e anche gli esemplari saranno discreti, dal momento che il linguaggio esemplificazionale deve essere condiviso e praticato all'interno della comunità di costruttori che vivono nel luogo indicato. Per me, una questione cruciale è, a che livello è conveniente impostare la densità e la saturazione appropriate a tale sistema simbolico, al fine di preservare la condivisibilità di tale linguaggio senza perdere la sua capacità di mappare un territorio al livello di risoluzione richiesto dalla complessità di una particolare regione culturale? Una mappa può avere vari livelli di risoluzione, la lunghezza di una costa che essa rappresenta, come ci insegnano i frattali, non può essere oggettiva, fattuale, essa dipende dal livello di risoluzione che intendiamo dare a tale mappa da usare in un progetto.
Bibliografia
- * Il sottotitolo in inglese si propone di aiutare la comprensione del senso intenzionato dal titolo italiano, sul duplice ruolo dell’architettura che è esemplificante nella costruzione ed esemplificata nei disegni di progetto e di rilievo. Esso proviene da un libro di Heinz Von Foerster, Observing Systems, che in inglese vuol dire sia ‘sistemi che osservano’, capaci di osservare, che sistemi sotto osservazione, ‘osservare i sistemi’. In questo testo sia ‘architettura che esemplifica’ che ‘l’esemplificare architettura’. Il testo nelle mie intenzioni intende evidenziare questa duplice valenza.
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English Abstract
The text is a reflection on the modern aestheticization of images and its consequences with respect to modern architectural culture, as well as on its contribution to the current problem of climate change. The naturalized internationality of architecture, which derives from the Enlightenment interpretation of images – an interpretation that escapes its symbolic communities – has very serious practical consequences that indicate certain political responsibilities. The distinction between “nomadic” and “settling” cultures concerns the role of architecture in the destruction of cities and highlights issues that have become increasingly crucial in our day. The text discusses ways of dealing with these issues. he feels himself much more committed to clarifying their complex implications than to suggesting easy solutions.
keywords | Climate change; Nomadic cultures; Settling cultures; Modern architectural culture.
Per citare questo articolo / To cite this article: S. Los, Architettura Esemplificatante (exemplifying architecture), “La rivista di Engramma” n. 150 vol. 2, ottobre 2017, pp. 101-140 | PDF