Immagini e parole
Tra esperienze vissute e percorsi ermeneutici
Giancarlo Magnano San Lio
English abstract
Da sempre parola ed immagine hanno costituito forme essenziali della capacità espressiva, ancor prima che comunicativa, propria dell’uomo, evidenziando costantemente ed in forme varie e complesse la loro importanza fondamentale nell’ambito della storia della cultura. Ciò ha sempre interessato, dunque in modo del tutto comprensibile e giustificato, ricercatori e studiosi che a vario titolo hanno indagato, classificato ed interpretato simboli e scritture nei modi più diversi ed a vario titolo significativi, innanzi tutto determinando l’ormai per lo più consueta (e forse, proprio alla luce dei più recenti studi sui rapporti tra immagine e parola come originarie manifestazioni dello spirito, in parte da rivedere) suddivisione tra preistoria e storia che in sede storiografica ne è in una certa misura scaturita. Non voglio però seguire né tantomeno argomentare, in questa sede, tale spunto ermeneutico, certamente rilevante e suggestivo, quanto, piuttosto, riportare brevemente l’attenzione, per il tramite del riferimento ad alcuni personaggi di rilievo della cultura contemporanea, sulla sostanziale derivazione ‘unitaria’ (e dunque sulla loro ineludibile ‘parentela’) delle diverse forme espressive, in particolare immagini e scrittura, che hanno preso corpo nell’articolato corso della Kulturgeschichte.
In particolare, prenderò a tema il concetto di ‘uomo intero’ elaborato da Wilhelm Dilthey a partire, in linea di massima, dall’ultimo trentennio del diciannovesimo secolo, mostrando come da lì scaturisca ogni necessità di guardare insieme quanto a vario titolo può essere ascritto alle capacità ed alle potenzialità espressive dell’uomo.
Non appare superfluo ricordare, innanzi tutto, come l’intero argomentare diltheyano (e non solo, ovviamente) si innesti su un’importante tradizione che ha inteso riflettere sul valore e l’articolazione dell’espressione umana nelle sue più diverse variabili, concentrando non pochi sforzi proprio sui rapporti tra modalità e forme di ‘oggettivazione culturale’, per così dire, dello spirito. Tra le tante possibili, sono ad esempio notorie e di particolare rilevanza le argomentazioni sviluppate nel campo della riflessione estetica, ora intesa, seppur a grandi linee, nel senso più ampio di disciplina, per così dire, di confine o, meglio, di intersezione tra (quanto meno) filosofia, arte e letteratura. Da questo punto di vista, infatti, dietro la complessa riflessione diltheyana occorre scorgere quanto meno (ma in realtà assai di più) il fecondo dibattito che su tali tematiche si è sviluppato a partire dal fondamentale tentativo di Kant di porre in una qualche armonia, specie nella terza Critica, le funzioni dell’uomo ‘teoretico’ e di quello ‘etico’ proprio attraverso la dimensione estetica, tesa a mostrare, per l’appunto, l’irriducibile complessità dell’uomo e delle funzioni che ne esprimono e ne esplicano le composite attitudini e necessità dello spirito. Nella Critica del Giudizio, come è noto, accanto alle più facilmente identificabili ed in una certa parte identificate facoltà che guidano il conoscere e l’agire egli ne pone, per così dire, una terza, più direttamente legata al sentimento (di piacere e dispiacere, in particolare) ed in grado di ricomprendere in una dimensione altra ed al di là da ogni sterile e rigida contrapposizione necessità e libertà, se si vuole natura e spirito. Proprio per il tramite del giudizio riflettente (estetico, più che teleologico) la libera armonia delle facoltà spirituali dell’essere umano ne restituisce ad un tempo grandezza ed unità. Sulla falsariga tracciata da Kant si sono poi avute le importanti elaborazioni dell’estetica idealistica (qui Schelling, più che Hegel), dove il progressivo propendere in favore del divenire necessario dello spirito doveva trovare presto un efficace e significativo contraltare nelle idee dei grandi ‘poeti’ romantici, a partire da Novalis, Schlegel, Schleiermacher, Goethe ed Hölderlin, per citarne soltanto alcuni tra i più rappresentativi (R. Haym 1870).
Esiti dell’idealismo filosofico ed idee estetico/poetiche di matrice romantica valgono, nel loro fecondo interagire dialettico, a dire proprio la complessiva difficoltà (qui da considerarsi, però, in senso pienamente ‘positivo’, cioè come cifra dell’irriducibile grandezza e articolazione dell’umano) di trovare un punto di equilibrio, seppur sempre provvisorio ed ogni volta da rinnovare, teso a riconoscere ad un tempo, all’interno di una totalità da concepirsi nel modo quanto mai ampio, specificità e complementarietà, per così dire, di razionalità teoretica, da un lato, e di intuizione sentimentale, dall’altro, se si vuole di espressività concettuale della parola e grandiosità rammemorante dell’immagine. In una tale prospettiva, non appare certo inutile né superfluo ricordare che Hölderlin, sicuro estimatore del mondo greco-classico, riteneva in qualche modo avveduto e necessario tanto procedere oltre il rassicurante, nostalgico richiamo/ritorno alla supposta perfezione dell’antico quanto, anche, resistere alla depauperante eventualità di abbandonarsi alla semplice accettazione dell’attuale, guardando invece (dato particolarmente significativo anche ai fini del discorso qui argomentato) al contrasto ed alla contraddizione come elementi ineludibili dell’umano e dunque, nel medesimo tempo, come uniche possibili ‘vie di salvezza’: nella poesia, in particolare, egli credeva di riscontrare la possibilità di comprendere l’infinita, irriducibile contraddittorietà del reale attraverso l’intuizione, il che rimaneva fondamentalmente altro rispetto ad ogni tentativo (perpetrato per lo più nella prospettiva, per dir così, dialettico-razionale) di mediare in una qualche forma sintetica i termini estremi del contrasto (nel caso specifico l’‘aorgico’, vale a dire il caos in qualche modo ascrivibile al dionisiaco, e l’‘organico’, in linea di massima identificabile cioè l’ordine e l’equilibrio dell’apollineo); piuttosto, doveva trattarsi della consapevole, sofferta accettazione del medesimo per il tramite dell’elemento tragico. Tutti temi, questi, che dovettero poi ampiamente percorrere ed animare quell’importante periodo storico-culturale, qui semplicemente assunto ad introduzione per certi versi paradigmatica rispetto ad una situazione dal punto di vista temporale e weltanschaulich certamente assai più ampia ed articolata. Dopo Dilthey, tra l’altro, le medesime argomentazioni, a testimonianza della loro complicata rilevanza, dovevano trovare ulteriori elementi di sviluppo nelle grandi riflessioni di diversi importanti interpreti del Novecento, per esempio Bloch, Lukács, Cassirer e Benjamin, per ricordarne soltanto alcuni tra i tanti possibili.
Venendo, ora, più direttamente al tema specifico, è noto che al centro della riflessione diltheyana intorno non solo alla fondazione delle Geisteswissenschaften ma anche alla relazione tra le diverse forme di espressione culturale rimane un concetto assolutamente essenziale come quello di ‘uomo intero’, vale a dire dell’individuo che mentre ‘rappresenta’ ad un tempo ‘sente’ e ‘vuole’ (Magnano San Lio 2000). Come dire che ogni esclusività o presunta ‘purezza’ del dato della rappresentazione teoretica viene lì ridotto a semplice astrazione, metodologicamente utile e rilevante quanto antropologicamente improbabile e talvolta persino fuorviante. Questo doveva significare, in altri termini, il rifiuto di ogni tentativo, pena il loro esiziale travisamento, di considerare le funzioni che contraddistinguono l’essere umano in modo rigidamente settoriale, men che meno, poi, di assolutizzare, a discapito delle altre, qualcuna di queste. L’esito ultimo, seppur anch’esso costantemente inteso e vissuto nella dimensione problematica piuttosto che come improbabile esito sistematico, è quello noto come Weltanschauungslehre, e non è certo casuale che le visioni del mondo, come Dilthey afferma ripetutamente e con assoluta convinzione, non mostrino affatto una natura esclusivamente teoretica ma coinvolgano, invece, ogni capacità funzionale dell’‘uomo intero’, e ciò proprio attraverso l’oggettivazione che egli fa di sé per il tramite delle diverse forme culturali; non a caso, ancora, l’esperienza artistica e la dimensione religiosa costituiscono (insieme alla filosofia) alcune tra le forme principali di Weltanschauung prodottesi nel lungo corso della Kulturgeschichte (Magnano San Lio 2005).
È utile ricordare, inoltre, che la Weltanschauungslehre rappresenta l’esito, appunto problematico piuttosto che sistematico, dell’intera parabola speculativa di Dilthey, il quale aveva inteso guardare alla fondazione delle scienze umane a partire dalla constatazione della loro assoluta peculiarità, dovuta, tra l’altro, al fatto di avere ad un tempo come soggetto ed oggetto l’uomo nella sua interezza e complessità, fisica come spirituale, il che doveva da una parte rimarcare la specificità irriducibile (tra l’altro contro ogni ipotesi scientista di matrice positivistica) di tali scienze e, nel medesimo tempo, aumentarne a dismisura le difficoltà metodologiche. Dopo il fondamentale tentativo di definizione e di articolazione di tale problema fondazionale nella celebre Einleitung in die Geisteswissenschaften dell’‘83 (Dilthey 1883), le cui difficoltà ed aporie sono attestate anche dal successivo tentativo di fondazione in chiave psicologica affidato, un decennio più tardi, alle Ideen über eine beschreibende und zergliedernde Psychologie (Dilthey 1994), Dilthey perviene alla fase conclusiva del proprio Denkweg, cioè per l’appunto quella relativa alla sopra ricordata Weltanschauungslehre. Ora (ma in verità non solo ora ) egli doveva insistere particolarmente su alcuni concetti fondamentali anche dal punto di vista che qui interessa più da vicino, vale a dire quello, quanto mai problematico, di Erlebnis e quelli in qualche modo ad esso legati di Verstehen e di Ausdruck: concetti assolutamente centrali nell’economia complessiva del problematico processo di fondazione delle scienze dello spirito, se è vero che uno dei nodi centrali sostanzialmente irrisolti doveva restare proprio quello legato al tentativo di ‘definire’, senza però disperderla in asfittiche formule teoretiche, l’‘esperienza vissuta’ come dimensione precipua dell’avvertire dell’uomo, per poi tentare di rintracciarne le manifestazioni più specifiche nelle diverse forme (simboli, figure, locuzioni etc.) attraverso le quali essa si è resa ogni volta attuale nell’ambito delle differenti espressioni storico-culturali, per poi cercare di determinare, infine, le modalità attraverso cui essa può e deve essere più ampiamente compresa, piuttosto che rigorosamente spiegata. Dunque, l’‘uomo intero’ vive ed in un certo senso è questo Erlebnis che si manifesta storicamente e sulle cui espressioni va poi a concentrarsi, per opera dell’interprete e dello storiografo, il processo ermeneutico. Il che significa, per quanto qui interessa più da vicino, che l’articolazione storica delle diverse espressioni non deve far mai perdere di vista il loro fondamentale nucleo originale, dal momento che esse non possono che essere comprese nella loro indistricabile connessione, sebbene sempre nel rispetto delle singole peculiarità. Un problema, come si vede, assai complesso e tra Otto e Novecento diffusamente avvertito: basti pensare, per esempio, alla filosofia delle forme simboliche di Cassirer (che, però, appare maggiormente segnata dal profilo fondazionale e certo più sistematico del neokantismo) o alle composite osservazioni kulturgeschichtlich di Warburg, senza andare troppo a ritroso fino a richiamare in causa Vico.
Ciò che qui va sottolineato è proprio il sempre più marcato riferimento dell’‘ultimo Dilthey’ all’Ausdruck come imprescindibile nesso capace di gettare in qualche modo un ponte tra Erlebnis e Verstehen, laddove il termine medio costituisce proprio l’evenire storico nella forma dell’oggettivazione, per quanto sempre parziale e multiforme, del complesso ed irriducibile Geist che è cifra specifica dell’essere umano. Il che, poi, costituisce anche il fulcro delle più convinte ipotesi diltheyane in ordine alla fondazione delle Geisteswissenschaften:
“Le scienze dello spirito poggiano sul rapporto di Erlebnis, espressione e intendere. Così il loro sviluppo dipende sia dall'approfondimento degli Erlebnisse che dalla crescente tendenza all'esaurimento del loro contenuto, ed è nel medesimo tempo condizionato dall'estensione dell'intendere all'intera oggettivazione dello spirito e dalla penetrazione sempre più compiuta e metodica del contenuto spirituale entro le diverse manifestazioni della vita” (Dilthey [1910] 1954, 214).
In questa prospettiva, poi le Weltanschauungen altro non sono che i tentativi storicamente orientati di mettere insieme le intuizioni e le riflessioni dell’uomo entro quadri di riferimento (non soltanto concettuali, si badi bene) più ampi che possano in qualche modo rendere all’uomo il conforto e la rassicurazione cui egli da sempre, per sua stessa costituzione, anela. Va sottolineato proprio il fatto che si tratta, qui, di una dimensione, questa della visione del mondo, assolutamente irriducibile ad ogni forma di conoscenza che voglia essere semplicemente, per così dire, logico-rappresentativa: “Ma sempre, nelle esperienze particolari come in quelle universali, i tipi di certezza e il carattere della formulazione delle medesime sono assolutamente diversi dalla validità universale di tipo scientifico. Il pensiero scientifico può controllare il metodo sul quale si basa la sua sicurezza, può formulare esattamente e fondare i suoi principi: il sorgere del nostro sapere dalla vita non può essere controllato nello stesso modo, e non possono essere elaborate formule sicure del medesimo” (Dilthey [1910] 1954, 175). Questo perché, fondamentalmente, le visioni del mondo sono costituite da un fascio ad un tempo unitario e caotico di disposizioni d’animo, sentimenti, convinzioni, oltre che da elementi più strettamente legati all’intelletto discorsivo e raziocinante; inoltre, esse hanno, accanto al valore precipuamente teoretico, anche quello di rendere all’uomo una qualche possibilità di orientarsi nel mondo e di procedere alla definizione di valori ed alla determinazione di scopi, tutte dimensioni riconducibili, come si vede, alla ineludibile complessità dell’‘uomo intero’, dunque mai esaustivamente rappresentate dalla sola sfera logico-dimostrativa. Si può dire, in altri termini, che le visioni del mondo sono “connessioni strutturali” che raccolgono l’articolarsi complessivo della vita psichica e, in questa prospettiva, l’intero atteggiarsi dell’uomo nei confronti della vita e del mondo (Dilthey [1911] 1998, 178-179).
In particolare, poi, quando parla di visione del mondo artistica Dilthey privilegia la poesia proprio perché essa, più di altre forme estetiche, sembra capace di tenere insieme parola e simbolo, dunque di rimandare all’originaria ed ineludibile unità dell’‘uomo intero’ ed alle funzioni che ne sono parti costituenti e strutturali: “Ma in tutto questo si esprime la relazione fondamentale sulla quale riposa la poesia: la vita è il suo punto di partenza; i rapporti vitali con gli uomini, le cose, la natura il suo nucleo; così, nel bisogno di riunire le esperienze scaturenti dai rapporti vitali sorgono le disposizioni vitali universali, e la connessione di ciò che viene esperito nei singoli rapporti vitali è la coscienza poetica del significato della vita. Tali disposizioni vitali universali sono alla base del libro di Giobbe e dei Salmi, dei cori della tragedia attica, dei sonetti di Dante e di Shakespeare, della grandiosa parte conclusiva della Divina Commedia, della grande lirica di Goethe, di Schiller e dei romantici e del Faust di Goethe, dei Nibelungen di Wagner e dell’Empedokles di Hölderlin” (Dilthey [1911] 1998, 189). Vista in una tale prospettiva, la poesia, e in genere l’opera d’arte, rappresenta proprio la capacità dell’individuo di esprimere una qualche comprensione, comunque parziale e storicamente determinata, della vita e del mondo: “La poesia, quindi, non vuole conoscere la realtà, come la scienza, ma vuole lasciar vedere la significatività dell'accadimento, degli uomini e delle cose che sta nei rapporti vitali; così qui l'enigma della vita si concentra in una connessione interna di questi rapporti vitali, la quale è intessuta di uomini, destini, circostanze di vita. In ogni grande epoca della poesia si compie di nuovo, in gradi regolari, il passaggio dalla fede e dai costumi che la riguardano, che si costituiscono a partire dall'esperienza universale della vita delle comunità, al compito di rendere nuovamente comprensibile la vita a partire da se stessa” (Dilthey [1911] 1998, 189). Dilthey riafferma continuamente e con rinnovata forza, perché ne è fermamente convinto, il senso autentico e profondo della poesia ed il suo valore fortemente simbolico e quanto mai importante nell’ambito dell’intera storia della cultura:
“Il sorgere della poesia dalla vita la porta direttamente ad esprimere, nell’accadimento, una visione della vita. Questa visione della vita sorge nel poeta dalla natura della vita, compresa a partire dalla sua propria disposizione vitale. Essa si sviluppa nella storia della poesia, nella quale si avvicina gradualmente al suo obiettivo di comprendere la vita a partire da se stessa, quando lascia agire su di sé, in piena libertà, le importanti impressioni della vita medesima. Allora la vita mostra, ora, alla poesia sempre nuovi aspetti. La poesia indica, ora, le sconfinate possibilità di vedere la vita, di valutarla e di dare ad essa, creando, una nuova forma. L’accadimento diviene così simbolo, ma non di un pensiero ma di una connessione osservata nella vita – osservata a partire dall'esperienza della vita del poeta” (Dilthey [1911] 1998, 189-190).
La poesia (e l’arte in genere) rappresenta, quindi, sebbene da una determinata prospettiva, la capacità di espressione dell’uomo: come in tutte le forme artistiche, parola e immagine qui si intrecciano e si completano in un gioco dialettico che non prevede sintesi ultime ma soltanto parziali ‘messe a fuoco’ specifiche, affidate, in modo particolare, alle grandi opere (ma non solo a queste: in realtà ogni espressione poetica rappresenta sempre e comunque una qualche sintesi di istanze vitali momentamente codificate) di cui è costellata la storia della cultura. Si è ben lontani, come si vede, dal privilegiare una particolare forma espressiva (e in particolare quella logico-deduttiva) a discapito di altre, dunque dall’enunciare e dal rimarcare (come spesso è stato fatto, invece, soprattutto nell’ambito della tradizione culturale occidentale) un eventuale quanto improbabile supremazia del concetto logico e della parola che per lo più lo esprime. D’altra parte, questa convinzione di fondo attraversa non solo l’intera speculazione teorica diltheyana, ma anche la sua ragguardevole produzione storiografica, tra l’altro direttamente ed indirettamente capace di entrare in continua relazione con personalità che questo medesimo ideale di umanità, individuale e collettiva, hanno in qualche modo saputo avvertire, condividere e rappresentare.
Tra queste ultime si deve certamente annoverare, per esempio, Wilhelm von Humboldt, dal quale Dilthey riprende, tra l’altro, proprio l’attenzione per il mondo dell’individulità e della storia, anche qui rifiutando decisamente l’idea di una qualche supremazia del dato logico-teoretico rispetto ad altri aspetti dell’espressività umana. A proposito di tale fondamentale tendenza di Humboldt in direzione di un radicale recupero dell’interiorità e, pù in genere, della costituzione indivisa ed indivisibile dell’umano, Rudolf Haym (tra l’altro anch’egli importante interlocutore di Dilthey) ha efficacemente scritto: “Proprio il tendere all’uomo interiore, il volgersi dall’esteriorità alle profondità della natura umana – egli condivide con Kant questa tendenza trascendentale. Kant dà seguito a tale tendenza in contrasto con le costruzioni sistematico-metafisiche dei suoi predecessori. Humboldt le dà seguito contro i pomposi sistemi governativi e legislativi del suo secolo. Vi è, in entrambi i casi, il medesimo soggettivismo. Entrambi cercano l’uomo che una speculazione ammanierata ha oscurato e nascosto allo stesso modo di uno stato artificioso. È l’antica tendenza protestante-germanica all’interiorità ed al sé, la rinnovata protesta della Riforma contro la mancanza di libertà e l’esteriorità ciò che nella miseria generale delle nostre condizioni vitali lì produce una dottrina filosofica astratta, qui un’esaltata teoria dei limiti dell’attività dello stato” (Haym 1856, 51). Il recupero dell’‘uomo intero’, in tutte le sue funzioni ed attività, era stato per Humboldt, d’altra parte, un elemento centrale e portante della sua intera concezione filosofica, in aperta antitesi con il coevo panlogismo hegeliano:
E proprio l’uomo – quest’idea si trovava già nel Versuch über die Grenzen der Staatswirksamkeit –, l’uomo presso i greci ci viene incontro dappertutto, durante l’epoca moderna l’attenzione si dirige più sulle cose che sull’uomo, più sulle masse di uomini che sugli individui. L’uomo individuale: perché tutto presso di loro sembra individualizzato, la loro lingua, la loro storia, la loro poesia e persino la loro filosofia. L’uomo individuale, e proprio perciò l’intero uomo, disposto alla totalità armonica (Haym 1856, 77).
Sono, come si vede, tutte argomentazioni ampiamente condivise da Dilthey e sostanzialmente volte al recupero del valore irrinunciabile dell’essere umano inteso come totalità complessa ed irriducibile, e dunque del significato autentico delle manifestazioni che, nella loro costitutiva interconnessione, ne rappresentano le diverse forme espressive (e tra queste una collocazione di primo rilievo assumono certamente immagini e parole). E non è certo un caso, d’altra parte, che Humboldt, nel suo continuo ed assolutamente fondamentale riferirsi a Kant, privilegi proprio la terza Critica, ritenuta fondamentale anche da Dilthey. E non è neppure un caso, ancora, il fatto che Humboldt guardi, in modo più specifico, all’ambito linguistico-espressivo ricollocandolo entro la più complessa capacità produttivo/espressiva dello spirito, invece di confinarlo alla semplice, per quanto certamente rilevante, funzione comunicativa (da questo punto di vista di certo più facilmente riconducibile ad una ‘quantificazione seriale’, e di conseguenza ad un’analisi da condursi secondo la prospettiva più strettamente naturwissenschaftlich), anche qui riportandone sempre lo studio entro la fondamentale dimensione storica che ne è, costitutivamente, alla base:
L’ambito delle lingue, secondo la sua visione ed in riferimento alla prospettiva della libertà e della storia, rimane aperto, e proprio questo è il punto in cui egli si vede spinto dalla scienza della lingua alla scienza della storia […] Anche in quest’ambito, infine, a guidarlo è l’idea di libertà, di progresso e di infinita perfettibilità, è la concezione kantiana della storia. Rispetto a quest’obiettivo della storia dell’uomo, la disposizione naturale dell’uomo si accorda, nonostante l’evidente contrasto, con le più alte leggi della sua essenza spirituale. Questo è il tema che Kant ha sviluppato nel suo bel saggio Über die Idee einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht e che costituisce la convinzione che Humboldt pone a capo delle sue ricerche linguistico-filosofiche generali e che si sente spinto a ripetere, all’inizio di una ricerca così particolare come quella sulle lingue dei mari del Sud […] (Haym 1856, 455-456).
Questo significa, in altri termini, che “la lingua, cioè, scaturisce dalla profondità dello spirito umano […] anche il linguista è uno storico e la lingua, nella sua manifestazione effettiva, è un vivente pezzo di storia […]” (Haym 1856, 465). In questo senso, si può certamente sostenere che Humboldt rimandi ogni discorso sulla lingua all’irriducibile costituzione storica dell’‘uomo intero’, dunque all’unità delle funzioni con cui questi dà continuamente vita ad espressioni e manifestazioni di sé che, comunque, non sono né possono mai considerarsi immutabili e definitive, ma che, nel continuo interagire delle funzioni, affondano le radici nel mutevole terreno della storia:
Come prodotto dell’istinto intellettuale della natura umana, essa è, come questa stessa, eternamente vivente […] Compresa nella sua essenza reale, essa è qualcosa di costante, che trascorre in ogni momento. Essa è, completamente, vita ed eterno presente. Persino la sua conservazione attraverso lo scritto è sempre soltanto una conservazione imperfetta, che ha bisogno del risveglio vitale […] E cioè, è l’uomo completo ed intero che sprigiona energia nella lingua (Haym 1856, 496).
Da qui, poi, con ogni prudenza, i suoi tentativi di procedere ad una qualche forma di mediazione tra la dimensione essenzialmente individuale della lingua e la sua non meno necessaria codificazione in schemi e regole il più possibile condivisi, sempre, però, nell’ottica della considerazione della centralità ineludibile della storicità di ogni elemento linguistico ed antropologico ogni volta preso in considerazione.
Appare del tutto evidente e ricorrente, dunque, il riferimento diltheyano al tema della storicità inesauribile e multiforme dello spirito così come intuita (ma non adeguatamente trattata, secondo il filosofo di renano) da Kant e successivamente sviluppata, tra gli altri, da Humboldt. Ma molti altri potrebbero essere gli autori di riferimento utili a chiarire ed a specificare ulteriormente la posizione diltheyana rispetto al tema specifico di cui qui si tratta, a partire, innanzi tutto, da Schleiermacher, non a caso da più parti considerato come l’autentico fondatore dell’ermeneutica contemporanea, oltre che anch’egli sostenitore di una linea speculativa fortemente alternativa (peraltro da diversi punti di vista, sui quali qui, però non posso indugiare punto) rispetto a quella tracciata dal coevo idealismo. D’altra parte, il filosofo romantico ha costituito, come è noto, uno dei temi di ricerca costantemente avvertiti e sviluppati da Dilthey (Magnano San Lio 2009), e questo certamente anche per la concezione della complessità irriducibile dell’essere umano e, di conseguenza, per l’interesse in direzione delle sue multiformi capacità espressive.
Come pure, il riferimento solo apparentemente singolare al filosofo scozzese Thomas Carlyle non è, in realtà, che l’ulteriore conferma (tra le tante possibili) di tale interesse diltheyano per la complessità dell’universo simbolico ed espressivo dell’uomo. Anche qui ritorna, come punto di partenza, la filosofia di Kant:
Per Carlyle, Fichte e Schelling si perdono nell’unità della filosofia trascendentale, e le loro dottrine specifiche, per lui, non sono importanti. La filosofia trascendentale di Kant è, per lui, la più grande conquista spirituale del secolo. Essa può essere paragonata soltanto alla Riforma. Il corso del pensiero procede, secondo Kant, non dall’esterno all’interno, ma dall’interno all’esterno. Kant trova il punto fermo, in questo interno, nella profondità della natura umana. Qui è dato il vero elemento originario. Esso non può essere dimostrato. La nostra natura più intima racchiude, in caratteri oscuri ma indelebili, come ciò che, soltanto, dà al mondo materiale stesso esistenza e significato, la natura spontaneo-creatrice dell’uomo, attraverso la quale egli oltrepassa i processi meccanici, quindi la sua moralità, legata in modo inseparabile, la coscienza di Dio così data (Dilthey [1891] 2006, 483).
Ancora una volta ritorna al centro, dunque, l’idea dell’irriducibile complessità dell’umano, dunque la convinzione del fondamentale interagire delle funzioni e, di conseguenza, del dinamico fluire delle espressioni nelle sue più diverse forme (per Carlyle, è noto, anche le vesti, come ha sostenuto ampiamente nella sua opera forse più celebre, vale a dire il Sartor Resartus, assumono una precisa e multiforme valenza espressiva):
L’idea di questa filosofia delle vesti gli era venuta, dapprima, durante una visita a sua madre, quando divenne consapevole, più che in altre situazioni, dell’accidentalità delle condizioni di vita e delle abitudini esteriori rispetto al nucleo spirituale, da esse completamente indipendente. Condizioni di vita, usanze, professioni di fede potevano sembrargli come le vesti mutevoli dietro le quali, nella casupola del contadino e nel salotto di Edimburgo, è nascosto il medesimo nucleo spirituale (I, 242) (Dilthey [1891] 2006, 486).
Non è un caso, poi, che egli abbia cercato di individuare una possibile forma di mediazione tra la filosofia trascendentale tedesca (che peraltro si era curato egli stesso di ‘importare’ nella cultura anglofona) e la Weltanschauung propria di alcune eminenti personalità del romanticismo, in primo luogo Novalis e Goethe.
Infine, un breve richiamo ad un altro aspetto sicuramente significativo nella parabola speculativa di Dilthey, vale a dire il giovanile (ma non solo) interesse per l’antropologia e, in genere, per le culture ‘altre’, e ciò proprio muovendo dalla considerazione circa l’importanza delle diverse forme di espressione e di connotazione culturale, se è vero, poi, che fin dall’antichità “l’interesse più primitivo, più prossimo all’uomo è quello di osservare con curiosità i costumi, il modo di pensare, la convivenza degli uomini presso popoli di altra lingua, colore, provenienza” (Dilthey [1868] 2015, 511). È questa una delle motivazioni fondamentali del suo interesse, per esempio, per alcuni pionieri della nuova antropologia culturale basata sulle ‘osservazioni sul campo’, primi tra tutti Adolf Bastian e Theodor Waitz, cui egli dedica, com’è noto, diverse pagine per molti versi significative. Tali studi si basano, in linea di massima, sull’idea di un originario nucleo spirituale sostanzialmente comune all’intera umanità che è poi venuto ad espressione per il tramite delle più diverse forme culturali, cosicché osservare ciò che a prima vista può sembrare infinitamente lontano o addirittura del tutto estraneo può essere utile a cogliere, utilizzando il metodo comparativo, ulteriori aspetti dell’essere umano. Anche qui si tratta di guardare, fondamentalmente, alle forme di espressione nel loro succedersi storico per rintracciare, sempre mantenendosi al di là da ogni ipotesi riduzionistica, alcune coordinate fondamentali ed in qualche modo comuni della spiritualità umana. Il che costituisce o dovrebbe costituire, poi, anche l’oggetto autentico della filosofia: “Il più raffinato oggetto della filosofia è lo spirito umano; la sua forma più viva e vivace, assolutamente prossima alle scienze concrete, è l’antropologia. In essa si riuniscono tutte le scienze della natura, geografia e storia, tutte le discipline filosofiche” (Dilthey 1863, 373).
Ma, al di là delle notazioni più specifiche, spesso assai interessanti ma sulle quali qui non posso indugiare oltre, ciò che più mi preme sottolineare, in questa sede, è l’idea, efficacemente argomentata e sostenuta da Dilthey, di potere contribuire allo studio dell’‘uomo intero’ anche grazie all’antropologia comparata così rinnovata e ora finalmente capace (almeno tendenzialmente) di mettere a confronto culture lontane e prima spesso ritenute reciprocamente estranee. Per questa via (che poi è la stessa che di lì a poco, con altri strumenti ed aspettative ulteriori, percorrerà anche Aby Warburg nei suoi reiterati tentativi di mostrare, attraverso lo studio delle immagini e dei simboli, la parentela tra le diverse culture, al di là di ogni loro più o meno ampia distanza spazio-temporale) Dilthey ritiene di potere trarre sicuro giovamento per l’analisi e la comprensione dell’‘uomo intero’, vale a dire di colui che è capace di manifestare se stesso attraverso le diverse forme espressive e culturali che, a vario titolo, ne rappresentano l’irrisolto evenire entro le complesse dinamiche della storia. Da questo punto di vista, per esempio, dovevano risultare di grande interesse i diari di viaggio ed i resoconti di esploratori a quel tempo spintisi in terre lontane, e ciò ben al di là della semplice curiosità per fatti e tradizioni remote (Dilthey 1859-1884).
Ma i riferimenti e le considerazioni in proposito potrebbero essere molteplici ed ulteriori: in realtà, in questa sede ho soltanto voluto fornire alcuni spunti di riflessione attraverso i quali è possibile mostrare l’interesse di Dilthey (e, per suo tramite, di altri esponenti della cultura contemporanea) per l’origine comune (e dunque per la stretta parentela) di forme espressive apparentemente differenti, quando non addirittura considerate del tutto eterogenee. In realtà, l’originario nucleo spirituale dell’uomo, comunque complesso e mai riconducibile entro sistematiche definitorie rigorosamente accertate e da ritenersi in un certo senso definitive, si esprime nella storia con modalità ed intensità molteplici, ed è proprio attraverso lo studio di queste che se ne possono almeno in certa misura rintracciare nuclei comuni e variazioni più o meno significative. È il percorso, altrimenti detto, che conduce a riscontrare, pur nelle loro specifiche precipuità e caratteristiche, il profondo legame che intercorre, tra l’altro, tra parole ed immagini, entrambe categorie espressive delle quali l’uomo si è costantemente servito, con accentazioni e modalità diverse, nel corso del divenire storico. È, ancora, il percorso seguito da diversi studiosi di differente estrazione e formazione, tra i quali è certamente da annoverare Dilthey, assolutamente convinti dell’inesauribile profondità e complessità dell’‘uomo intero’ e, conseguentemente, delle molteplici modalità con cui egli ogni volta è chiamato ad esprimersi entro le complicate dinamiche della storia.
Riferimenti bibliografici
- Dilthey 1859-1884
W. Dilthey, Gesammelte Schriften, vol. XV: Zur Geistesgeschichte des 19. Jahrhunderts. Portraits und biographische Skizzen. Quellenstudien und Literaturberichte zur Theologie und Philosophie im 19. Jahrhundert, a cura di U. Herrmann, Göttingen 19913; vol. XVI: Zur Geistesgeschichte des 19. Jahrhunderts Aufsätze und Rezensionen aus Zeitungen und Zeitschriften 1859–1874, a cura di U. Herrmann, Göttingen 19852; vol. XVII: Zur Geistesgeschichte des 19. Jahrhunderts Aus “Westermanns Monatsheften”: Literaturbriefe, Berichte zur Kunstgeschichte, Verstreute Rezensionen 1867–1884, a cura di U. Herrmann, Göttingen 19882. - Dilthey 1863
W. Dilthey, Die “Anthropologie” von Theodor Waitz, in Id., Gesammelte Schriften, vol. XVI: Zur Geistesgeschichte des 19. Jahrhunderts Aufsätze und Rezensionen aus Zeitungen und Zeitschriften 1859–1874, a cura di U. Herrmann, Göttingen 19852, 373-379. - Dilthey [1868] 2015
W. Dilthey, Adolf Bastian, ein Anthropolog und Ethnolog als Reisender, in Id., Gesammelte Schriften, vol. XI: Vom Aufgang des geschichtlichen Bewusstseins. Jugendaufsätze und Erinnerungen, a cura di E. Weniger, Stuttgart-Göttingen 19602, pp. 204-212 (trad. it., a cura di G. Magnano San Lio, Adolf Bastian, un antropologo ed etnologo viaggiatore, in Archivio di Storia della Cultura, 2015, XXVIII, 511-519). - Dilthey [1883] 1974
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G. Magnano San Lio Filosofia e storiografia. Fondamenti teorici e ricostruzione storica in Dilthey, Soveria Mannelli (Cz) 2000. - Magnano San Lio 2005
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G. Magnano San Lio, Biografia e storiografia: l’edizione italiana del Leben Schleiermachers di Wilhelm Dilthey, "Archivio di Storia della Cultura", 2009, XXII, 173-181.
English abstract
Through the important concept of ‘whole man’ developed by Wilhelm Dilthey in the second half of the nineteenth century, the essay schematically retraces some links between the history of philosophy and culture. It offers definition and discussion of the multiformity, and irreducible complexity, of human expression in its various forms and formulations.
keywords | Wilhelm Dilthey; Whole man; Human expression.
Per citare questo articolo / To cite this article: G. Magnano San Lio, Immagini e parole. Tra esperienze vissute e percorsi ermeneutici, “La rivista di Engramma” n. 150 vol. 2, ottobre 2017, pp. 141-155 | PDF