"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

150 | ottobre 2017

9788894840261

La Cosa di John Carpenter, ovvero il sex appeal del disorganico

Marina Pellanda

English abstract

È l'inverno del 1982 e, nella penisola Antartica, un gruppo di scienziati di una base americana scopre che alcuni loro colleghi norvegesi sono entrati in contatto con una creatura aliena – "la Cosa" – ibernata in quelle zone da oltre centomila anni. I norvegesi sono tutti morti e "la Cosa", capace di assumere qualsiasi sembianza vivente, si è ormai insediata anche tra gli americani, scatenando il terrore.

Quello della base USA in Antartide è un microcosmo eterogeneo di individui che, in un certo senso (nel gruppo non ci sono membri femminili) rispecchia un campione della popolazione mondiale – ovvero è il riflesso, per campionatura, di una società in cui la noia, l'apatia, il trascinarsi stancamente in azioni abituali caratterizza la nostra quotidianità.

Fin dall'inizio, dunque, e prima ancora che l'entità che dà il titolo alla pellicola di Carpenter si riveli pienamente – nell'incipit del film un cane corre sul bianco gelato del pack inseguito da un elicottero, ma in quelle prime sequenze non genera inquietudine – si mostra una condizione umana già contaminata ed è un'alterazione che l'avvento della "Cosa" renderà solo più esplicita.

Si tratta di un essere alieno, una cosa che potrebbe manifestarsi inaspettatamente, da un momento all'altro, saltando fuori dal corpo stesso di uno qualunque degli scienziati della base. La "Cosa" è infatti tutto e niente insieme – non sappiamo neanche se abbia una forma solo sua; l'idea che la "Cosa" non abbia una forma propria viene avvalorata nel finale del film quando la vediamo diventare

[...] una summa di tutte quelle forme di vita con cui nelle centinaia di migliaia di anni di presenza sulla Terra è venuta in contatto, dal tirannosauro all'uomo (Liberti 2003, 69).

L'entità è però identificata da un nome preciso – "Cosa" – un appellativo niente affatto generico, che designa una materia dotata di energia primaria, in grado di dar forza agli uomini e di impressionare i loro pensieri anche se, come vedremo, il suo statuto ha a che fare con il disorganico. Ed è proprio il disorganico, ovvero il fatto che la protagonista della pellicola viva un'organicità differente da quella organizzata che caratterizza la res così come comunemente la si intende, a renderla diversissima dalle "cose" così come sono ricordate e nostalgicamente restituite, dalla prospettiva della privazione, in Se questo è un uomo:

Immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede. Sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato in base a un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine 'campo di annientamento'. E sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo (Levi 1971, 21)

Non si tratta, dunque, di una di quelle "cose" che costituiscono l'habitat quotidiano, che rendono vero il paesaggio della nostra vita e che Primo Levi rievoca dall'abisso del 'campo' dove è annientata ogni forma di vita. E purtuttavia la "Cosa" di Carpenter si rivela capace di un'eccedenza che ha a che fare con la vita: essa vuole sopravvivere e, attraverso i propri cloni, moltiplicarsi su tutta la Terra. Ed è proprio per questa sua, vitale, intenzione espansiva che considera puro ostacolo il soggetto o i soggetti che con essa si relazionano. L'eccesso di potenza e di volontà di sopravvivenza che la "Cosa" porta con sé suscita, innnanzitutto, la passione della paura. E in ciò Carpenter segue la scia di Alfred Hitchcock "il più grande inventore di forme del XX secolo [...] forme che ci dicono alla fine ciò che c'è al fondo delle cose" (Godard 1988) il quale, proprio attraverso le 'cose' orrifiche che mette in scena riesce "ad avere il controllo dell'universo". Infatti, nota ancora Godard: 

Forse diecimila persone non hanno dimenticato la mela di Cézanne ma sono un miliardo gli spettatori che ricordano l'accendino dello sconosciuto del Nord Express (Godard 1988; sulla "mela di Cézanne" e l' "accendino di Hitchcok" rimando a Costa 2014).

La "Cosa" non produce, soltanto, l'effetto horror: così come accade per il protagonismo delle 'cose' nel cinema di Hitchcock, essa ritrova la propria, enigmatica, essenza, propriamente nell'essere rebus, fatta concretamente (oltre che etimologicamente) 'di cose'. Carpenter ricorre soprattutto alla tecnica della dissolvenza per fare in modo che sia lo schermo cinematografico a inghiottire e a codificare l'eccedenza del suo alieno; e tuttavia proprio perché l'immagine fuoriuscita dal fade non è diversa da oggetti ed esseri reali e tangibili – i quali occupano spazio aggrappandosi alla materia – ecco che questo ectoplasma senza contorni precisi, trasformando il proprio corpo in un effetto speciale, riorganizza l'organicità delle cose e la forma comune, 'famigliare', degli oggetti divertendosi a sovvertirne l'ordine degli oggetti e dei concetti, e restituendo infine una qualità nuova della materia.

La Cosa di Carpenter si può leggere dunque come il tentativo estremo di imprigionare il disorganico portando alla luce la sua forma instabile, che ontologicamente multiforme, vive l'apice della sua esistenza nel disfacimento, travalicando così i confini ordinati dell'apparenza. Si tratta di un disfacimento che può essere anche interpretato come invecchiamento, e, poiché l'entità carpenteriana ha il vantaggio e la particolarità di essere più vicina al nulla che a un qualsiasi concetto di corpo, la sua mutazione, il metamorfico effetto speciale che ne caratterizza l'essenza, non comporta più una esibizione costretta a iterarsi nel mostrare se stessa (come accadeva con Joe Dante o John Landis per l'uomo che diventava lupo). È piuttosto, quella di Carpenter, una maestria tendenzialmente anti-narrativa che all'horror o alla fantascienza teatral-baracconesca preferisce il gioco del fuoricampo. Se la metamorfosi vive nel fuoricampo, ecco dunque che il primo trucco di trasformazione che compare nel film risiede nella possibilità di leggere e l'opera stessa come il remake di La cosa di un altro mondo di Howard Hawks, del 1951 (com'è noto il film risulta diretto da Christian Nyby, ma la paternità sostanziale dell'opera è poi stata rivendicata dallo stesso Hawks: "La regia era di un mio montatore, ma ero sul set per la preparazione di tutte le scene importanti. Era un lavoro molto piacevole. [...] Il soggetto mi interessava perché pensavo che fosse una vicenda “adulta”" (Hawks in Lodato 2003, 151).

La Cosa di Carpenter si inserisce così nella dissolvenza temporale che separa il 1951 (data della pellicola di Hawks/Nyby) dal 1982 (data della 'ripresa' di Carpenter), e modula le sue tonalità espressive intorno al concetto di del disorganico: in questo senso è, innanzitutto, un'opera di trasformazione dell'invisibile. Il film di Hawks è infatti esplicitamente evocato nella pellicola di Carpenter, ma resta sulla soglia della percezione: ne vediamo alcuni spezzoni nel "diario filmato" della missione scientifica, già devastata dall'attacco dell'extraterrestre: come l'alieno carpenteriano, pur riconoscibile, il 'modello' fonda infatti la propria visibilità cancellandosi, ovvero occultando la propria natura.

Ecco dunque che nel 1982, mentre sugli schermi USA esce anche E.T., Carpenter risponde all'alieno antropomorfo di Spielberg con un'entità che si presenta battezzata con un nome che le conferisce una consistenza e una semplicità primaria, quasi infantile: le cose sono i coinquilini segreti della nostra vita; ma 'cosa' è anche il nome che dà il bambino a ogni cosa di cui non conosce il nome, prima di impararne la denominazione. Così Carpenter alza l'asticella della sfida e nel gioco filmico trascina lo spettatore fino ai limiti asfissianti dell'angoscia. Immediatamente La cosa, citando il precedente di Hawks, si rivela autonoma solo nel disorganico, solo quando non mette in scena un segno nuovo da seguire, sia esso il testo di partenza – Who Goes There? di Campbell –, il ripensamento dell'originale di Hawks, un uomo o un animale.

Il trucco carpenteriano, dunque, porta al centro della scena non tanto la res, la cosa – nel senso dell'oggetto immaginato come inerte, passivo, senza vita, sprovvisto di intelletto a tal punto che ci sentiamo autorizzati a investirli di significati creati da noi; protagonista in scena è la materia stessa. Ed è una materia che quando si mostra visivamente, nell'organico – soprattutto nella seconda parte del film – ci possiede. Quando, dal suo orrore schifoso di potenzialità disorganica, La cosa si mostra – e si dice mutando e imitando dall'interno la creatura con cui entra in contatto – essa cede come in dono il proprio marchio primordiale e, per giustificarsi pienamente nella sua perfezione, rinuncia alla dimensione del disorganico e prende vita, impersonando i vocabolari simbolici e convenzionali della res classica.

Nel film di Carpenter, la familiarità e la costanza del vedere, quell'attesa fantasticante che ci rende disponibili verso ogni successiva immagine, verso ogni variazione dello sguardo, si inceppa. E così, anche il palesarsi inatteso di un corpo conosciuto, anziché tranquillizzarci, si presenta come è un monito, il segnale che dobbiamo fare attenzione a non abbassare la guardia: se alla fine del film MacReady ritrova Childs, tuttavia, mentre i due si atteggiano a scherzare sulla sorte che li attende, il dubbio che La cosa si sia impadronita di uno di loro permane.

La paura che attanaglia MacReady e Childs non è l'orrore dell'informe attraverso cui di solito il cinema "costituisce il modo in cui l'horror diviene testo" (Esposito 2004, 18); è invece, ancora una volta, il fuoricampo, ovvero tutto ciò che lo sguardo non può cogliere per naturale limitazione dell'orizzonte – per metafora, il campo circoscritto che l'occhio della cinepresa non può raggiungere: l'ombra della paura è ben più spaventosa dell'irrompere del mostro, l'attesa è ben più terrificante della fuga, e tanto il bianco ghiaccio dell'Antartide quanto il chiarore del fuoco davanti a cui Childs e MacReady si scaldano, sono modalità di inversione di segno della luminosità: il modo in cui la luce muta la sua proprietà e anziché illuminare, impedisce di vedere, abbaglia. Anche la sequenza in cui MacReady costringe se stesso e i suoi compagni a sottoporsi all'esame del sangue si presenta come un'inversione del rapporto luce/buio: infatti, il tentativo più accurato messo in atto dai personaggi per risolvere il dubbio riguardo la loro effettiva identità, mette in scena l'insostenibile senza ricorrere agli stilemi tipici del genere horror: è pura, efficacissima, evocazione della paura come passione informe, invisibile e irrappresentabile. L'apparentemente neutrale – scientifico – esame del sangue – l'analisi della nostra carta d'identità biologica, un esperimento fatto sul liquido che scorre dentro il nostro corpo e che gli dà vita –sostituisce "l'horror che porta fuori tutto l'interno dei corpi" (Esposito 2004, 24) con la paura dell'inconscio, che è innanzitutto – insegna Edipo – paura di scoprire se stessi. Una paura che, come per Edipo, si presenta anche con il volto attraente del più profondo, e più intimo, desiderio. Anche in questo senso è particolarmente significativa la sequenza finale della pellicola, che vede Childs e MacReady mentre, mettendo a rischio innanzitutto la loro propria stabilità psichica, cercano di fare dell'ironia sulla sorte che li attende nella notte antartica. Si tratta di una scena che, ancora una volta (e come spesso accade nel film di Carpenter) spostandosi verso i fondali della psiche umana, riscatta l'opera dalla relegazione semplicistica nelle categorie dell'horror o della fantascienza, verso una forma filmica che non si lascia rubricare in nessun genere di repertorio.

Alla fine del film, per dirla con Gilles Deleuze, resta l'immagine-percezione (Deleuze [1983] 1984, 74-90) dell'alieno di Carpenter: la disorganicità della Cosa provoca l'interrogazione sul fenomeno del 'guardare'. L'horror, quindi, – o meglio la suspense – consiste nella sfida al vedere: l'occhio dello spettatore arriva quasi a percepire il disorganico, a misurare il gioco delle somiglianze e delle differenze, per concludere con una consapevolezza eccitata ed allertata a riconoscere che l'uomo è una quasi cosa, e la cosa un quasi-uomo. E se, fino alla fine del film, il confine tra la vita e la cosa sembra segnato dalla qualità dell'autopercezione, dopo la sequenza che conclude la pellicola qualsiasi definizione netta pare il frutto di un feroce, e inutile, riduzionismo – di fatto non ha più senso. Spezzando e disarticolando la nostra percezione La cosa ci lascia infine sospesi, vittime di una cecità indotta dal buio ma anche dall'eccesso di luce, che non ci consentendo più di posizionare lo sguardo alla giusta distanza. Lo stesso genere horror è solennemente sepolto nella risata inquietante di Childs e MacReady.

Bibliografia
  • Costa 2014
    A. Costa, La mela di Cézanne e l'accendino di Hitchcock, Torino 2014.
  • Deleuze [1983] 1984
    Deleuze, L'immagine-movimento, [ed. or. Paris 1983] Milano 1984.
  • Esposito 2004
    L. Esposito, Carpenter Romero Cronenberg. Discorso sulla cosa, Roma 2004.
  • Godard
    L. Godard, Histoire(s) du cinéma, Paris 1998.
  • Levi 1971
    P. Levi, Se questo è un uomo, Torino 1971.
  • Liberti 2003
    F. Liberti, John Carpenter, Milano 2003.
  • Lodato 2003
    N. Lodato, Howard Hawks, Milano 2003.
English Abstract

The “Thing” for John Carpenter, is an extra-terrestrial entity that can suddenly ‘be born’ of any of the scientists who live on the Antarctic base that is the main location of the film. This fact provides an interesting key to studies of the dynamic of reification and the distinction between an object and a thing. Despite the fact that the extra-terrestrial entity created by Carpenter does not have its own form, it is nonetheless able to modify experience of the world. The Thing created by the American director, is a concrete element that tries to make a deal with any form of life it runs into. Only in this moment is it a concrete object. The purpose of this essay is to exploit The Thing by Carpenter both as an indeterminate object and as heavy matter occupying space.

keywords | John Carpenter; The Thing; Film. 

Per citare questo articolo / To cite this article: M. Pellanda, La Cosa di John Carpenter, ovvero il sex appeal del disorganico, “La rivista di Engramma” n. 150 vol. 2, ottobre 2017, pp. 232-238 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2017.150.0066