Das Wort zum Bild. Propongo di dare la parola a questa immagine conservata presso la Bibliothèque Nationale de France. La stampa di 38,5 x 50 centimetri è stata realizzata come acquaforte, la tecnica più popolare tra gli artisti incisori su lastra (e non solo) di fine Settecento.
Pare evidente che l’opera risale al periodo della Rivoluzione francese ma, come vedremo, è interessante vagliare qualche differente ipotesi di datazione. Chi sia l’artista non è dato sapere: l’autore è non indentifié e l’editore risulta s.n. sulla scheda della stampa (Fonte 1). Chiaro appare, comunque, l’intento comunicativo dell’opera, e non solo perché la stessa tecnica della stampa facilita la riproduzione: simili stampe rivoluzionarie, scrive Susan Libby, “were produced in huge editions of several thousand and could be widely disseminated as publicly posted broadsides, sold by street vendors or exhibited in printers’ shops” (Libby 2014, 30). L’intento propagandistico e pedagogico emerge anche dal contenuto allegorico. L’autore, inoltre, per non lasciar margine ad equivoci riguardo ai concetti astratti che intendeva rendere visualmente comprensibili, ha steso (o fatto stendere) un testo in calce che identifica le figure e spiega le azioni che compiono.
Il titolo dell’opera indicato sulla scheda della Bibliothèque Nationale è lungo. Così recita la frase posizionata al centro della sezione scritta: Les Mortels sont égaux, ce n'est pas la naissance / C'est la seule vertu qui fait la différence. È la citazione di un distico caro a Voltaire che lo ha usato in almeno tre delle sue opere. La stampa Les Mortels sont égaux sembra pervenuta alla custodia della Bibliothèque Nationale grazie alla passione collezionista del barone belga Eugène de Vinck de deux Orp (1824-1889), uomo politico e consigliere di legazione presso le capitali francese e spagnola (Fonte 3); e grazie pure a quella, spinta forse più da interessi mercantili, del figlio Carl (1859-1931), anch’egli diplomatico belga a Parigi, oltre che uomo d’affari (Fonte 4). Un collaboratore ‘erudito’ di Carl de Vinck, Marcel Roux, insieme ad altri studiosi ha schedato le quattro mila opere collezionate da Eugène sulla rivoluzione francese e le tredicimila aggiunte da Carl sull’intero arco di storia francese dal 1770 al 1871 pubblicandone l’inventario in ben otto tomi (Note 1931, 294; Aubert, Roux 1921).
Natura divina, Ragione sacra: un ritratto della Storia
Come soggetto primario dell’immagine, la scheda-inventario indica la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 26 agosto 1789. In quel giorno, agendo su proposta dell'eroe dell'indipendenza americana, il generale Gilbert du Motier de La Fayette, e sulla falsariga della dichiarazione di indipendenza americana, l'Assemblea nazionale di Parigi vota la Déclaration des droits de l'homme et du citoyen. L’intento non è semplicemente quello di formulare una sorta di preambolo indelebile della futura costituzione francese. Si vuole anche vergare, con esso, un ‘catechismo’ valevole per tutti gli uomini di tutti i tempi e tutti i paesi poiché con la Rivoluzione del 1789 “the ‘Great Nation’ was supposed to deliver messages to the rest of the universe” (Frank 2002, 311).
Sulla stampa che celebra questo evento vediamo la scena illuminata dai raggi della stella ardente Sirio, simbolo – non solo massonico – di divinità, universo, conoscenza e potenza. Del triangolo attorniato dai raggi che contiene tre gigli, da leggere come segni di regalità, secondo Alfonso Prandi, “non si sa bene se sia una ripresa del simbolo cristiano della Trinità o voglia essere la tipica figura geometrica dei Massoni” (Prandi 1991, 431). Forse non giova neanche saperlo, ma piuttosto ricordare come nell’uno e nell’altro caso si tratti del simbolo di un principio di trascendenza universale. Nella tradizione massonica la geometria triangolare, infatti, simboleggia l’Ultima Causa che crea e contiene in uno il tutto. Vale la pena ricordare che esistono altre, coeve, rappresentazioni della Déclaration des droits in cui campeggiano simboli massonici ancora più espliciti. Il suo principale ispiratore, La Fayette, è ricordato nella memoria massonica americana come un fratello legato ad altri confratelli di alto rango, come George Washington e “that other great Mason, America's greatest diplomat, Benjamin Franklin, who was American Ambassador to the French king” (Hamilton 1921).
Ma posiamo pure lo sguardo sulla scena illuminata dai generosi raggi di Sirio. L’anonimo incisore (o un suo socio) la descrive con le parole che trascriviamo qui:
La raison caractérisée par une femme ayant sur la tète le feu sacré de l’amour de la patrie, met de niveau l’homme blanc et l’homme de couleur derrière lui est une corne d’abondance, un bananier et des campagnes fertiles ; il s’appuyé sur les Droit de l’Homme et tient de l’autre main le Décret du 15 mai concernant les gens de couleur. La raison est poussée par la nature qui est couronnée de fruits ayant 14 mamelles. Elle est montée sur un outre de peau du quel sortent le démon de l’aristocratie, l’égoïsme qui par son avarice veut tout avoir, l’injustice, le démon de la discorde ou de l’insurrection prêt a traverser la mer qui fait le fonds.
Prima di rivolgere la nostra attenzione alle due figure umane, l’homme blanc e l’homme de couleur, soffermiamoci sulla Ragione e sulla Natura. La Ragione è descritta come una donna che in cima al capo, sopra la chioma, fa risplendere la sacra fiamma dell’amor patrio. Il suo aspetto richiama rappresentazioni di antiche divinità, ad esempio di Atena, dea della saggezza e protettrice della polis capitale dell’Attica. La figura polimastide della Natura richiama l’Artemide di Efeso (modello ad esempio della cinquecentesca ‘Fontana della Dea Natura’, nel giardino della Villa d’Este a Tivoli).
Il linguaggio rivoluzionario che risuona nelle piazze di Parigi e nell’Assemblea Nazionale gronda sacralità, mitologia, scienza dell’assoluto. E a Natura e Ragione spetta un posto d’onore nell’economia delle legittimazioni trascendenti del nuovo ordine che sta per nascere. Se qualcosa è dichiarato ‘naturale’, ad esempio un diritto, è assoluto: ogni discussione ha da cessare, in quanto il sacro è inviolabile, indiscutibile, vero. L'allegoresi di concetti astratti o filosofici, così come l'allegoria di paesi, città, continenti, ha radici antiche, nell'iconografia classica, specie a partire dal periodo ellenistico. Vi è dunque un motivo profondo perché Natura e Ragione non vengano rappresentate in forma di orologio, salsiccia, carrozza, fiore o di altri oggetti qualsiasi, ma come due divinità. Al popolaccio illetterato viene intimato di evitare atteggiamenti insolenti e blasfemi verso questi prodotti delle fantasie delle più fini menti filosofiche dell'Umanesimo e dell'Illuminismo.
Ma la collocazione di due figure divinizzate al centro del nuovo, costituendo, immaginario collettivo è anche segno di altro: è una riprova del fatto che il cosiddetto 'processo di secolarizzazione' non comporta l'espulsione radicale del sacro e della trascendenza nella società; al contrario, sacro e trascendenza tornano, anche sotto forma di immagini, nel cuore del linguaggio, e dell’agone, della politica moderna. La filosofia di una Storia intesa come processo di redenzione esce così dalle mura dei luoghi di culto tradizionali per riversarsi in piazza, in mezzo alla società. La lettura della secolarizzazione come processo di affermazione di una visione escatologica e apocalittica della storia, così come ci viene proposta da Karl Löwith e, più recentemente, da John Gray, trova nella ‘nostra’ stampa rivoluzionaria un ulteriore, robusto, sostegno (Löwith 1949; Gray 2008).
Tornando all’immagine de Les Mortels sont égaux e alle sue descrizioni e spiegazioni riportate in calce, vediamo come il peso della Natura schiacci un vecchio sacco da cui escono gli spiriti maligni di un ordine sociale e morale obsoleto. Divenuti brutti e ‘anacronistici’ diavoletti, essi fuggono via dalla scena illuminata dal principio trascendente assoluto, a cui non possono opporre alcuna resistenza, verso l’Oltremare, forse per cercare rifugio laddove, secondo una visione antropologica tipicamente coloniale, ‘il tempo si è fermato’. Qui non vi è più spazio per l’aristocrazia e per gli iniqui privilegi che le consentivano di assegnare a ognuno un posto nella società secondo la nascita; ma non vi è neanche posto per il popolaccio ignorante che semina discordia predicando l’insurrezione.
Natura sprona Ragione ad usare il suo bastone come livello, per dimostrare che tutti gli uomini sono nati liberi ed uguali: uguali ‘per natura’, appunto. Questo vale persino per l’homme de couleur messo di fronte a l’homme blanc. Commenta Susan Libby: “The print thus brings the gens de couleur into the symbolic world of the Revolution, where they achieve equality and liberty by the agency of reason and nature” (Libby 2014, 32).
Come dimostra la mano ancora aperta e semistesa dell’homme blanc, che in un gesto di rispetto per l’uguaglianza si è pure tolto il cappello, è stato lui a trasmettere la 'buona novella', ovvero i 'Diritti dell’uomo e del cittadino' al selvaggio che ancora, con un’espressione seria – forse appagata ma al contempo leggermente incredula – afferra i documenti, come fossero una polizza sulla vita da riporre prudentemente in un cassetto ché non si sa mai. Hans-Jürgen Lüsebrink commenta così la scena:
Symétriquement opposé aux mauvais démons du passé, le côte droit du tableau, surplombé des symboles de la royauté et des lumières de la Philosophie contient des promesses d’un avenir utopique: corne d’abondance, champ de blé et bananiers sont ici les symboles d’un âge d’or à venir (Lüsebrink 1993, 211).
Può sembrare ovvio che la cornucopia simboleggi quella liberazione dal bisogno che finalmente potrà scaturire dall’affermazione dell'uguaglianza tra gli uomini. Ritengo tuttavia più probabile che lo stesso simbolo rimandi a una differenza tra gli uomini che è determinata dagli stadi dello sviluppo umano contemplati dalla filosofia della storia (che peraltro – ma sia detto solo a margine – difficilmente confonde la località di Cuccagna con quella di Utopia). Sul conto della cornucopia Libby fa presente che essa “can allude to the black figure’s African heritage, as cornucopias appear in Cesare Ripa’s Iconologia as symbols of the African continent” (Libby 2014, 33). Se la lettura è corretta (e il rimando al repertorio del Ripa è convincente), il livello che Ragione stende sopra la testa dei due uomini ‘nati uguali’ è al contempo una bilancia che ne soppesa la diversità. Dalla parte de l’homme de couleur pende il simbolo di una naturale abbondanza tropicale, abbondanza che – come interi stuoli di illuminati viaggiatori (talvolta veri viaggiatori, talaltra, e più spesso, solo immaginari, come Hume e Kant) hanno raccontato nelle loro opere di ‘geografia umana’ – rende i signori negri purtroppo indolenti, e impedisce loro di aguzzare adeguatamente l'ingegno e di alimentare il genio della ragione.
Ma dove finisce la corda appesa all’altro estremo della bilancia, quello che sovrasta la testa de l’homme blanc? Non si vede dove finisca il capo della corda ma si intuisce che si sia impigliata nelle pieghe del vestito della Ragione. O forse la corda è proprio, materialmente, fatta di un filo di quel tessuto? La ragione stessa pare essere la cornucopia dell’uomo bianco, e quindi personaggio che prende parte al gioco e al contempo supremo giudice di tutti i personaggi presenti in scena, compresa se stessa. Parrebbe dunque che, insieme all’uguaglianza e in nome dell’uguaglianza, Ragione stabilisca una certa gerarchia tra gli 'uguali'. E l’homme blanc è chiaramente un uguale più uguale rispetto all’homme de couleur. Nutritosi abbondantemente dalla cornucopia della ragione, è spronato dalla natura a prendersi la sua specifica responsabilità davanti a una Storia che a lui, europeo civilizzato, si è già in parte rivelata. A lui spetta portare la buona novella all’africano: “the colonized figure imitates but can never resemble or replace the colonizer” (Libby 2014, 34).
Notiamo inoltre come il messaggero della ‘buona novella’ non sia un uomo qualsiasi, non un artigiano né un mercante, un servo, un prete o altro, ma un signore in uniforme, per l’occasione senza cappello e disarmato (almeno a quanto appare: lo stiletto non è visibile), ma è pur sempre un uomo d’armi, del tipo di La Fayette. Quando Lüsebrink insinua che si tratti di un “ancien noble” (Lüsebrink 1993, 211), probabilmente sbaglia se pensa a una contrapposizione tra antico regime e nuova era, ma se il riferimento è alla funzione del messaggero in armi potrebbe anche aver ragione. Di antico lignaggio nobile, La Fayette prima ancora di diventare major general dell'Esercito continentale americano e poi capo della Guardia nazionale rivoluzionaria a Parigi, era pure stato un ufficiale delle guardie del re di Francia. Tuttavia, comparando l’uniforme francese pre- e post-rivoluzionaria con quella riportata nella nostra stampa, pare difficile assegnare alla figura dell’homme blanc una posizione precisa tra antico regime e novità rivoluzionaria. Per altro, a ben guardare il dipinto, opera di un artista poco noto, l’ufficiale che è agli ordini dello stesso La Fayette sta “proteggendo un carico di zucchero” dall'assalto della massa del popolo, durante i moti di Parigi del 1791 (Freund 2014, 93); ovverossia, sta respingendo “il demone della discordia e dell’insurrezione”.
Inoltre, confrontando l’uniforme dell’homme blanc con altre immagini, non è chiaro se si tratta di un ufficiale e non di un soldato semplice, o di un nobile, o di un borghese o di un uomo del popolo. Nell'economia della narrazione proposta dall’autore della stampa Les Mortels sont égaux le distinzioni di classe non contano poi tanto: l’importante è che si tratti di un francese, cittadino di una nazione che si ritiene – ben poco modestamente – all’avanguardia della storia umana, e che dopo il 1789 può esportare in tutto il mondo l’insegnamento dei diritti umani, in aggiunta agli altri frutti dell'Illuminismo profusi in dono all'Umanità, già da prima della Rivoluzione. E importante è inoltre che sia un uomo d’armi, essendo la Storia una guerra tra il bene e il male. Prendersi cura del buon Selvaggio e portarlo alla Ragione significa intervenire anche con la forza per proteggerlo, se necessario contro se stesso, ovviamente sempre per il suo proprio bene.
La stampa condensa, così, un bel numero di significati inerenti l'ideologia occidentale validi allora e tuttora attuali: il senso della missione civilizzatrice in uniforme in difesa dei concetti di ‘umanità’ e ‘diritto umano’, con annessa la ‘responsabilità di proteggere’; la promessa utopica di eguaglianza, giustizia, benessere; il senso della storia simboleggiato attraverso il dono che il soldato del Progresso fa al buon Selvaggio; gli anacronistici spiriti maligni dell’antico regime e della corruzione morale finalmente spazzati via; la cosiddetta secolarizzazione espressa tramite l'allegoresi divinizzante di Ragione e Natura, a riprova che la trascendenza escatologica si è ormai riversata nello spazio politico; la virtù e l'altruismo dell'‘uomo bianco’, nella rinnovata aspirazione all'erezione dell'Impero del Bene Universale. Non c'è, forse, un'altra immagine che meglio di questa offra una compiuta rappresentazione dell'apostolato che l'Occidente si auto-attribuisce, nel clima culturale di una, potentissima, filosofia escatologica della storia.
Perché il colore dell’uomo di colore è nero?
Dopo quanto abbiamo detto sul conto dell’homme blanc, può risultare persuasiva l'ipotesi che l’allegoria sarebbe stata personalmente “progettata da Lafayette per celebrare la dichiarazione dei diritti dell’uomo” (Prandi 1991, 431). Ovvero, lo stesso personaggio che proponeva la Dichiarazione ne avrebbe fornito anche un’illustrazione, in cui avrebbe fatto inserire – guarda caso al centro della scena, illuminato dagli astri – un figura assai assomigliante a se stesso.
Gilbert du Motier, marchese de La Fayette, dopo essere stato protagonista di spicco delle rivoluzioni in America e in Francia, avrebbe continuato ad essere, per estrazione sociale e vocazione personale, un personaggio importante durante tutte le varie stagioni politiche che si avvicendano fino alla sua morte, nel 1834. Quindi, in teoria, avrebbe potuto commissionare l’allegoria in qualunque momento successivo al 1788. Prandi suggerisce un intento commemorativo, mentre a noi l’allegoria sembra piuttosto motivata da intenti pedagogici e propagandistici, il che depone per una datazione più prossima agli eventi celebrati.
Il catalogo online della Bibliothèque Nationale, peraltro, indica tra i soggetti dell’immagine non solo la Déclaration des droits de l'homme et du citoyen (1789), ma anche il Décret de suppression de l'esclavage aux colonies (1794, 4 Février), e così commenta:
Les philosophes de la France des Lumières réprouvent en majorité l'esclavage, mais connaissent mal la situation des esclaves dans les îles lointaines même si certains auteurs, comme P. Poivre, administrateur de l'Île de France (Île Maurice), essaient de donner des informations concrètes et de rattacher la cause des Noirs aux aspirations de la bourgeoisie. C'est en Angleterre que le mouvement abolitionniste, d'inspiration plus religieuse, trouve un écho populaire, relayé par les économistes qui comme Adam Smith, dénoncent son manque de rentabilité. Sous la pression de la Société des Amis des Noirs, la Révolution française, qui a exclu les colonies de l'application de la Déclaration des droits de l'homme, abolit cependant l'esclavage en 1794 avant que Bonaparte ne le rétablisse en 1802 (Fonte 2).
L’homme de couleur sarebbe dunque uno schiavo appena liberato, grazie a un parlamento che dava virtuosamente seguito al motto Les Mortels sont égaux. Collima con questa ipotesi l’indicazione del 1794 come anno di edizione della stampa, nella scheda della Bibliothèque Nationale (Fonte 1); una datazione che auspichiamo si fondi su riscontri documentali indipendenti, poiché dedurla dal contenuto sarebbe alquanto arrischiato. Del decreto abolizionista del 4 febbraio 1794, infatti, nella stampa non vi è traccia: il documento che l’uomo dalla pelle scura tiene nella mano destra non reca il titolo “Décret du 4 février” né “Décret du 16 pluviôse an II”, bensì “Décret du 15 mai”. Lo stesso testo in calce, poi, dice che il riferimento non è al decreto sull’abolizione della schiavitù, bensì al decreto del 15 maggio 1791, che stabilisce come gli uomini ‘di colore’ nati da genitori liberi potessero acquisire alcuni diritti di partecipazione alla vita politica. Da notare che nel rotolo consegnato all’homme de couleur la data non è riportata nel formato del calendario rivoluzionario entrato in vigore nel novembre 1793 e che essa non reca alcuna indicazione di anno: due indizi che fanno pensare che almeno la matrice sia stata incisa nel corso dello stesso 1791 (la datazione è ritenuta plausibile anche da Libby 2014, 32).
Tuttavia, non solo la scheda della BnF, ma anche parte della letteratura storiografica (si veda per tutti Lüsebrink 1993) ha collocato il motto Les Mortels sont égaux all'interno del discorso sull’abolizione della schiavitù: si inserisce così nella narrazione un apparente nesso causale tra lo slogan di matrice filosofico-letteraria e l’azione politica che ne sarebbe conseguita. Il testo contenuto nella scheda della BnF, infatti, celebra il messaggio universale e liberatorio della Rivoluzione. Si tratta però di un patente equivoco, chiarito da tempo per esempio da François Renault e Serge Daget. Già nel 1985 i due studiosi rilevarono come la stampa Les Mortels sont égaux non facesse affatto riferimento al dibattito abolizionista, e come anzi i rivoluzionari francesi all’epoca tollerassero senz’altro anche la tratta degli schiavi:
Cela ne concerne donc ni la traite ni l’esclavage mais la population métissée ou les affranchis dont le droits politiques er représentatifs étaient contestés voire rejetés par le habitants colons-planteurs d’origine européenne. L’assemblée nationale, en 1791, ne délibère pas sur les esclaves, et encore moins sur la traite. Cette année là encore, 106 navires négriers quittent le seuls ports de France (Renault, Daget 1985, 125).
L’inserimento della stampa nel contesto del dibattito abolizionista è stato bensì favorito dal desiderio di sottolineare l’universalità delle istanze rivoluzionarie e, da un altro lato, risponde a una facile inserzione del termine ‘rivoluzione’ nell'ambito del dibattito sull'esclavage in atto nella seconda metà del Settecento. La figura degli schiavi da liberare da un dispotismo alieno stava infatti lentamente sovrapponendosi e identificandosi con gli stessi coloni bianchi e persino con i borghesi europei privati dei ‘naturali’ diritti di partecipazione politica. Così si poteva leggere che “la France était esclave de la royauté, de la noblesse, du clergé, de toutes les aristocrates” (Lüsebrink 1993, 207). La stessa Rivoluzione veniva dunque interpretata come liberazione della nazione schiava dai suoi tiranni. Questo tipo di retorica non era nuovo: anche i leader rivoluzionari americani – non pochi dei quali, come noto, erano grandi proprietari terrieri e ricchi schiavisti – avevano sottolineato come non potessero più sopportare di venir trattati come ‘schiavi’ dal re d'Inghilterra, e che anzi fosse un loro dovere etico sollevarsi contro l'oppressione dispotica della monarchia.
I fondamenti filosofici di tale ragionamento potevano rinvenirsi, ad esempio, negli scritti di John Locke, al tempo tenuti in grande considerazione (Locke [1690] 1764, 1). Questi aveva affermato:
Slavery is so vile and miserable an estate of man, and so directly opposite to the generous temper and courage of our nation; that it is hardly to be conceived, that an Englishman, much less a gentleman, should plead for it.
Ma più che contro l'istituto della schiavitù – ancora ben fiorente nelle colonie e all’epoca incardinato in un irrigidimento giuridico che lo rendeva sempre più avvilente e brutale – si trattava di un’argomentazione propria del partito Whig contro la monarchia assoluta: opporsi alla monarchia assoluta era un dovere morale, poiché ‘la natura’ proibiva all’uomo di darsi in schiavo al potere di un altro uomo. Lo schiavismo vero e proprio veniva legittimato, o diciamo così filosoficamente ‘spiegato’, come stato di guerra. “This is the perfect condition of slavery, which is nothing else, but the state of war continued”, scriveva Locke , mettendo in questo modo la schiavitù degli africani nelle piantagioni delle coste atlantiche in piena sintonia con la propria filosofia della libertà, a patto, però – come già aveva avuto modo di sottolineare nelle Fundamental Constitutions of Carolina del 1669 – che l'arbitrio discrezionale del proprietario su vita e corpo dello schiavo fosse totale e in nessuna maniera inficiato dalla legge (Locke [1690] 1764, 214).
"Les hommes naissent et demeurent libres et égaux en droits", recita l’articolo uno della Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 26 agosto 1789. Ma come simili enunciati profondamente sentiti anche dai Founding Fathers non scalfirono minimamente l'istituto della schiavitù negli Stati Uniti d’America, così neanche nella Francia rivoluzionaria si avviò un ripensamento sullo sfruttamento schiavista nelle colonie caraibiche, e neppure – come abbiamo visto - sulla tratta degli schiavi. Il ripensamento sarebbe giunto solo nel 1794 e sarebbe durato poco. Le colonie, però, prendendo alla lettera gli slogan di cui risuonavano le strade della metropoli, erano ormai in pieno fermento. Si produssero pertanto linee di conflitto talora complesse e divergenti di isola in isola tra latifondisti schiavisti, schiavi, gens de couleur presenti anche tra l’élite economica, e petits blancs non possidenti.
In quella situazione, la popolazione ‘mulatta’ e creola si chiedeva se almeno gli uomini nati liberi per certificato di nascita non dovessero finalmente avere diritti uguali agli altri cittadini, essendo per altro già perfettamente equiparati come contribuenti. Inizialmente, però, i partigiani di Liberté! Égalité! Fraternité! all’Assemblea nazionale si rifiutarono di concedere alcun diritto.
Despite lobbying by wealthy gens de couleur, metropolitan legislators feared that recognizing free-colored equality would undermine slavery and thus jeopardize the system of commodity production and overseas commerce which was so important to the French economy (Cormack 2011, 155).
Così, durante la Rivoluzione, le attività a favore dell’emancipazione nelle colonie “were diverted from advocating for abolition of the slave trade in favor of the struggle for rights for free people of color, or gens de couleur, in the colonies” (Libby 2014, 29). Ma siccome la ribellione montava:
On 15 May 1791 the deputies decreed that gens de couleur born of free fathers and free mothers be admitted to primary assemblies, but then reversed this decision on 24 September when they decreed that colonial assemblies could determine the political status of all men of color. It was not until March 1792 that the Legislative Assembly’s more radical decree, insisting that all free blacks and mulattos enjoy equal political rights, threatened the alliance between gens de couleur and planters in the Îles du Vent (Cormack 2011, 161).
Non è questo il luogo per approfondire gli interessanti sviluppi nei Caraibi che alla fine condurranno a una (transitoria) abolizione della schiavitù nel 1794, né che cosa questa abolizione in pratica significherà. Fatto sta che molti appartenenti a famiglie creole, libere da generazioni e alcune a loro volta ricche proprietarie di terra e schiavi, pur avendo una pelle piuttosto chiara, nei documenti notarili devono indicare ‘nero’ come colore di carnagione. “Consequently, in the colonies, race could be invisible, thus losing its most convenient determining factors – shape and color – but not its existence”. Per tale motivo, continua Susan Libby, la nostra stampa
[...] effectively ‘recolored’ the dark-skinned recipient of France’s virtue, fixing and regulating blackness as a means of stressing the significance of the colonial law admitting the gens de couleur into the realm of whiteness, with its privileges of citizenship and liberty (Libby 2014, 32-33).
Raffigurando l’homme de couleur nelle sembianze dello schiavo africano, l’ignoto artista rimarcava dunque una indelebile gerarchia tra gli ‘uguali’. Gerarchia, questa, che vedrà sempre l’uomo francese, e poi occidentale, nella posizione del tutore severo, del protettore altruistico, dell’insegnante benevolo; insomma dell’‘avan-guardiano’ del progresso civile e umano. Per non disturbare l’auto-compiacente visione occidentale della storia, è bene che la stampa Les Mortels sont égaux resti agli atti, anche contro l’evidenza, come riferita al contesto abolizionista. E anche la datazione del 1794 meglio consente di celebrare il messaggio universale della Rivoluzione francese.
I mortali sono uguali, ma…
Significativa, infine, è la scritta posta in calce sotto all’immagine, in posizione centrale: quella che nella scheda della BnF da il titolo all’immagine stessa. È tratta dalla poesia Le Lac Léman di Voltaire, che risale al 1755, ma troviamo lo stesso distico già proposto dal medesimo autore, in versione solo leggermente diversa, in Eriphile. Nell’atto secondo della tragedia leggiamo nella prima scena:
Les mortels sont égaux : ce n'est point la naissance,
C'est la seule vertu qui fait leur différence (Voltaire [1732] 1779, 19).
Per volere dell’autore, Eriphile non fu pubblicata finché era in vita, ma il distico venne immediatamente citato in una critica teatrale apparsa nello stesso mese della prima – marzo 1732 – sul “Mercure de France”. Pur non più originalissimo nel concepire la virtù come scelta e l’uguaglianza come dote ricevuta per nascita, il distico comunque al pubblico era piaciuto assai. Secondo quanto riferisce il recensore, il passo in cui compaiono i due versi “ont reçû tant d'applaudissemens et qui ne sont pas cependant les plus travaillez et les plus parfaits de la Piece [sic!]”. Non certo inediti sul piano filosofico o ideologico, sul piano politico i versi venivano evidentemente ancora percepiti come “maximes neuves et hardies” (L.D.M. 1732, 562, 570). E quel che piaceva al pubblico, compiacque senz’altro l’autore, tanto da fargli riusare il distico in almeno altre due opere: nella quarta scena dell’atto primo di Le fanatisme, ou Mahomet le Prophet del 1736 e, appunto, in una forma leggermente aggiornata – sostituendo point con pas e leur con la – nella poesia Le Lac Léman del 1755.
Nel corso degli anni e specialmente durante quelli della Rivoluzione, il distico è diventato molto popolare ed è diventato una sorta di proverbio. Lo si trova citato in vari dizionari e usato fuori dal contesto originario, in innumerevoli altre circostanze, tanto che forse non tutti coloro che lo usano conservano ancora la consapevolezza della sua origine letteraria (ringrazio Olivier Bivort per queste ed altre preziose indicazioni sugli scritti di Voltaire). Ad ogni modo, la centralità della posizione grafica di questa citazione nella nostra stampa corrobora l'ipotesi di considerare l'immagine un’allegoria dell’Occidente. Infatti, come si è visto, la stampa Les Mortels sont égaux prende spunto dal decreto sui diritti delle genti di colore per veicolare significanti più ampi e generali. Se volessimo adeguatamente approfondire il discorso, dovremmo occuparci della storia del concetto di uguaglianza e della ‘riscoperta’ della ‘virtù’ non solo in Voltaire, ma nella teorizzazione europea rinascimentale, umanista e illuminista in generale, senza dimenticare la tradizione cristiana che comunque rimane sempre sul fondo. Non essendo possibile, qui, fare questo, cerchiamo almeno di evincere alcuni elementi dai riusi del distico nelle opere di Voltaire.
Il distico compare in coda – un po’ distaccato dal resto – all’Ode al Lago di Ginevra, che è soprattutto un’ode alla libertà. Libertà anch’essa divinizzata come lo sono Natura e Ragione nella nostra stampa: “C'est sur ses bords heureux / Qu'habite des humains la déesse éternelle / [...] la liberté”; e si tratta, espressamente, di una dea congeniale all’Occidente: “Liberté ! Liberté ! […] Chez tous les Lévantins tu perdis ton chapeau” (Voltaire [1755] 1888, 25-26).
La poesia di Voltaire, da alcuni forse non a torto classificata come ‘romantica’, può essere abbastanza facilmente decostruita enucleandone i contenuti ideologici. Questi risuonano come un’amplificata eco settecentesca delle fantasie filosofiche seicentesche secondo cui lo Stato di Natura è “a state of perfect freedom”, ed è “a state also of equality” (Locke [1690] 1764: 195). Lo Stato di Natura si rivela, così, come nome secolarizzato del Giardino dell’Eden, che anticipa i tratti divini del Regno dei Cieli. Regno, questo, raggiungibile solo attraverso la Valle delle Lacrime – al secolo chiamata ‘Storia’. La storia della Sattelzeit, dei Lumi, della Rivoluzione viene investita in pieno da una finalità trascendente: la Storia altro non è che il movimento del progresso verso l’affermazione dei tratti ‘eterni’ dell’umanità, cui appunto appartengono Uguaglianza e Libertà. ‘Umanità’ si rivela, così, come un concetto che trascende l’atto presente, ma del presente rivela il significato, alla luce di un fine prefigurato; riassume, in altre parole, il telos storico trascendente, e non immanente, del genere umano.
Ma al di là (e prima) di queste considerazioni, sarà da chiedersi come, all'interno dell'opera di Voltaire, il distico possa inserirsi in contesti drammatici così differenti, come l'Eriphile o Le fanatisme, ou Mahomet le Prophet – nella risentita e appassionata arringa a favore della ‘meritocrazia’ declamata da Alcmeone, ma anche nella difesa ‘a spada tratta’ del Profeta come uomo virtuoso e piacente a Dio, da parte di Omar, il suo seguace. O forse il denominatore comune è il ‘fanatismo’ della virtù, che porta il figlio della regina di Argo al matricidio? In tal caso la virtù assume una connotazione più ambigua e certo non del tutto congruente con l'intenzione di chi sessant'anni dopo l'utilizzerà in calce a un’immagine politica mobilitante. D’altronde, la libertà condizionata dell’arbitrio umano non solo ammette la possibilità del male, dell’errore, del peccato e della redenzione mancata, ma conferisce anche, così, al mutamento storico di cui è protagonista una forma intrinsecamente dialettica.
Un’interessante variante sull’uguaglianza dei mortali ricorre nella poesia De l'égalité des comditions (1734), in cui leggiamo “Les mortels sont égaux ; leur masque est différent” (Voltaire [1734] 1888, 17). Pare, questa, una variazione sul tema della giustapposizione tra stato di natura e contratto sociale; per la precisione, restituisce l'immagine di una società-spettacolo che non può mettere in scena sempre e soltanto l’uguaglianza corale tra simili. Piuttosto, sul palcoscenico si manda la persona, ovvero la maschera che definisce la singolarità del personaggio, ‘libero’ nello spazio consentito dal ruolo assegnato a lui dall’estensore del copione. L’uomo uguale in quanto persona tra le altre personae e il drammaturgo, insieme, animano il personaggio.
L’ultima dimensione di “Les mortels sont égaux” a cui vorrei accennare non riguarda l’uguaglianza tra gli uomini, ma quella tra mortali e immortali. Potremo dire che essere uguali per nascita significa essere uguali per natura. Ma quel meccanismo azionato da una mano divina che monotono gira su sé stesso nell’eternità non può certo fare la differenza. “C'est la seule vertu qui fait la différence”, e la virtù non può che avere un’origine sovrannaturale – la stessa da cui discendono la capacità di giudizio razionale ed estetico e il libero arbitrio, nonché l’etica della responsabilità. Quindi è un’estrinsecazione dell‘anima’ tipicamente umana, e in quanto tale di ispirazione divina. In Eriphile, la frase che immediatamente segue il distico specifica, infatti, della virtù: “C'est elle qui met l'homme au rang des demi-Dieux” (Voltaire [1732] 1779, 19); mentre la frase che immediatamente segue il distico in Mahomet le prophète traduce, sul conto del profeta, lo stesso concetto in termini ‘monoteisticamente’ corretti: “Il est de ces esprits favorisés des cieux, / qui sont tout par eux-même, et rien par leurs ayeux” (Voltaire [1736] 1743, 16).
Vi era stato però, nell’ambiente dell’élite letteraria e filosofica frequentato dal giovane Voltaire, un precedente uso di “Les mortels sont égaux” che poneva la questione dell’uguaglianza tra mortali e immortali in termini apparentemente più radicali. In Voyage à Paphos, attribuito a Montesquieu, leggiamo che “Les Dieux viennent avec empressement sur la terre, pour goûter les plaisirs des Mortels, le changement les rend plus vifs que les plaisirs de l'Olimpe même”, per cui “Les Mortels sont égaux aux Dieux dans le Temple de l’Amour” (Voyage 1727, 2868, 2884).
Chi aveva viaggiato attraverso il mondo antico aveva scoperto nell’avventura, nell’incognita, nella libertà di errore una vita più degna di essere vissuta rispetto alla noia immortale di chi deve assistere a uno spettacolo il cui copione conosce già. Ma la fuga dall’apocalisse verso l’antropomorfismo degli antichi dei, da parte di intellettuali stanchi del fardello del peccato, si sarebbe rivelata, essa stessa, illusoria. Diremmo infatti che nel tempio dell’amore ‘les dieux ne sont pas égaux aux mortels’. Ovvero: gli dei non sanno nemmeno morire.
Un ultimo sguardo
Dirigiamo, allora, un ultimo sguardo alla nostra stampa rivoluzionaria del 1791-1794. L'illustrazione ci dice, in buona sostanza, che i fuggiaschi – nel loro tentativo di fuga 'liberale' (secondo l'accezione che questo termine ha nel primo Settecento) – sono stati ripresi e bene stretti nei ceppi della Ragione. L’immagine della Rivoluzione francese, che vuol annunciare un gioioso messaggio di uguaglianza e libertà a tutto l’universo, qui si fa biblica. Nel senso che nei volti solenni e anche un poco perplessi di Ragione, dell’homme blanc e dell’homme de couleur e nella smorfia leggermente spazientita di Natura, di tutta la vagheggiata gioia della libertà non vi è traccia. Sotto l’incombente sorveglianza dell’Ultima Causa persino il livello dell’uguaglianza appare per quello che è: un bastone che livella, ma nel contempo segnala gerarchie e differenze. I personaggi della scena sembrano ben consapevoli di essere stati gravati della responsabilità di trascinare avanti il fardello della Storia verso una meta ‘grandiosa’ – e infatti compiono il loro dovere, ma lo fanno un po’ malinconicamente. E anche da questa prospettiva l’immagine ci restituisce sempre una perfetta allegoria dell’Occidente.
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English abstract
The unsigned polychrome print Les mortels sont égaux, most probably engraved in 1791, may be considered one of the numerous pieces of visual and textual propaganda disseminated during the days of the French Revolution. This paper argues that the print nevertheless stands out for an unequaled capacity to condense the core meanings of secularized eschatology and the West’s self-attributed apostolate, in a single allegory. The iconological analysis provided in the paper focuses in particular on the divinized figures of Nature and Reason, and the attributes of the white man and the black man that the image contains. It then proceeds to discussion of what is likely the erroneous dating of the print, dating that inaccurately connects it to debates over the abolition of slavery and, in so doing, underlines the Revolution's universal message of liberation. In the last part of the paper, the author focuses on the analysis of the text placed under the image, in particular on Voltaire's distich, which gave the image its title. The distich places the human species within the dialectics of equality and virtue and can be interpreted as a reference to ‘Humanity’, that is, to the species’ transcendent purpose in the Western philosophy of history.
keywords | Les mortels sont égaux; Print; Allegory.
Per citare questo articolo / To cite this article: R. Petri, L’allegoria dell’Occidente, “La rivista di Engramma” n. 150 vol. 2, ottobre 2017, pp. 239-257 | PDF