Il linguaggio come virus
The Alphabet di David Lynch
Matteo Zadra
English abstract
1967, Pennsylvania Academy of the Fine Arts: un filo di vento entra nell’aula di pittura e gonfia la tela che lo studente David Lynch sta dipingendo. Per un attimo l’illusione del movimento si sovrappone alla fissità del quadro, rivelandogli le possibilità del cinema. Sull’onda di questa scoperta Lynch acquista una cinepresa 8mm e gira Six Figures getting sick, un cortometraggio pensato per essere proiettato su una scultura e ricreare così quell’illusione che l’aveva colto di sorpresa quel giorno nell’aula di pittura.
Grazie a un finanziamento dell’amico artista Barton Wasserman, che gli aveva chiesto un seguito di Six Figures getting sick, Lynch acquista una 16mm, ma terminate le riprese, di ritorno dal laboratorio di sviluppo, si accorge che a causa di un problema tecnico non è rimasto nulla di quanto aveva filmato. Inizia allora a girare un cortometraggio ispirato a un ricordo di Peggy Reavey, al tempo sua moglie: tornata a casa dei genitori per le vacanze di Natale, Peggy era stata svegliata in piena notte dalla piccola nipote che, intrappolata in un incubo, saltellava sul letto urlando le lettere dell’alfabeto: “A-B-C-D-E-F-G! A-B-C-D-E-F-G!”. Il racconto colpisce profondamente Lynch, che decide di trarne spunto per il suo primo vero cortometraggio: The Alphabet (1968).
Dopo aver fornito la materia per il soggetto, Peggy diventa anche interprete di The Alphabet: Lynch le chiede di truccarsi con un fondotinta bianco e per esasperare quel pallore dipinge di nero le pareti di una stanza al secondo piano della sua casa a Philadelphia, dove girerà il cortometraggio. Una prima versione di The Alphabet verrà inviata come materiale di ammissione all’American Film Institute. Dopo un iniziale rifiuto, il progetto sarà approvato e finanziato per volere del direttore George Stevens Jr.
Nei suoi 3’45’’ The Alphabet alterna scene filmate a sequenze animate. Si apre su una ragazza addormentata (Peggy) che veste una camicia da notte bianca come la sua pelle. Il letto è circondato da un indefinito spazio nero, mentre in sottofondo una cantilena infantile scandisce le prime tre lettere dell’alfabeto.
Dopo il primo piano di una donna che indossa ampi occhiali neri, vediamo la sequenza animata di un paesaggio semplificato, con un’asta che sorregge una bandiera che mostra al centro un cerchio giallo; una dopo l’altra le diverse lettere dell’alfabeto si dispongono sulle linee orizzontali, mentre sullo sfondo il cielo si riempie di una miriade di puntini colorati. Il paesaggio sembra diventare gradualmente un giardino in cui le lettere fioriscono e germogliano, a volte spuntando da cordoni neri, a volte disponendosi in filari.
Dopo il dettaglio di una bocca che si lecca i denti, una seconda scena animata ci mostra una lettera ‘A’ lampeggiante da cui fuoriesce un ectoplasma bianco che si espande fino a partorire due lettere ‘a’ minuscole e un rivolo di sangue.
Nella sequenza successiva la ‘a’ minuscola fuoriesce da un busto in giacca e cravatta e si trasforma, in rapida successione, in un viso, in una forma fallica irrorata di sangue e quindi nuovamente in un volto. Accanto a questa figura spunta rapidamente un cordone nero, alla cui estremità appare un cuore dal quale fuoriescono alcune lettere dell’alfabeto che finiscono nella testa adiacente. Poi il volto spalanca la bocca e lascia fuoriuscire un fiotto di sangue.
Di seguito vediamo il dettaglio di una bocca che scandisce le parole: “Please remember you are dealing with the human form”. Fatta eccezione per le cantilene infantili, si tratta dell’unica frase che viene pronunciata durante il cortometraggio. È un’immagine disorientante, perché nonostante sia possibile riconoscere la forma del mento e delle labbra, inquadrate dal basso verso l’alto, il naso appare invece come una protesi posticcia. La forma umana è riconoscibile, ma allo stesso tempo suscita una sensazione straniante. Appare quindi nuovamente la ragazza su cui si era aperto il cortometraggio, il lenzuolo che la avvolge e il suo volto si riempiono rapidamente di puntini.
Ora è la ragazza a pronunciare le lettere dell’alfabeto, che in successione si materializzano accanto a lei sul letto: sul suo volto si alternano espressioni giocose ad altre terrorizzate. L’ultima sequenza ci mostra la ragazza in preda a convulsioni mentre cerca invano di trattenere con la mano uno sbocco di sangue che si riversa sul lenzuolo. Nelle sequenze animate si può apprezzare l'importanza dell’influenza della pittura di Francis Bacon sul giovane Lynch. “Se Bacon avesse girato un film – si domanda Lynch intervistato da Chris Rodley – in che modo l’avrebbe fatto, in quale direzione sarebbe andato? E il linguaggio cinematografico come avrebbe tradotto quelle strutture e quegli spazi?” (Lynch [2005] 2016).
The Alphabet cerca di dare una risposta a questa domanda attraverso l’utilizzo di fondali completamente neri, strutture geometriche asettiche abitate da figure che la forma umana non riesce a contenere, il tutto in una gamma cromatica acida e cupa.
Parola e immagine si incrociano nel segno del perturbante e ciò che appare familiare si rovescia repentinamente nel suo opposto, rivelando il suo lato minaccioso e mortale. Siamo nei territori dell’inconscio, psichico e biologico, dove le immagini si susseguono associandosi in modo imprevedibile ma non privo di una propria logica oscura. Nero, bianco e rosso sono gli unici colori della paletta cromatica con cui Lynch evoca una dimensione orrorifica, in cui il mondo dell’infanzia e dell’apprendimento sono quanto mai prossimi all’incubo, alla malattia, alla morte.
Lynch ha descritto The Alphabet come “a little nightmare about the fear connected with learning”. L’alfabeto si insinua all’interno di un corpo come un virus che contamina progressivamente chi lo impara. Le lettere dell’alfabeto si presentano con un carattere infantile e giocoso (filastrocca, cantilena) ma, una volta penetrate nella mente di chi apprende, lo infettano dall’interno. La forma delle lettere si scontra con quella del corpo umano, che le incorpora senza assimilarle, fino al rigetto finale. L’apprendimento è un innesto dalle conseguenze fatali e l’atmosfera di terrore che lo accompagna diventa premonizione di questo trasferimento.
Questa prima incursione di Lynch regista nei territori del sogno segna l’inizio di un metodo narrativo onirico destinato a diventare la sua inconfondibile chiave di rilettura del racconto hollywoodiano, ma in The Alphabet si presenta ancora come un distillato di immagini e suoni terrificanti.
Riferimenti bibliografici
- I testi sono tratti da:
Linch [2005] 2016
David Lynch, Io vedo me stesso. La mia arte, il cinema, la vita [ed. or. Lynch on Lynch, Farrar Straus & Giroux, 2005], traduzione di Marco Borroni, Milano 2016 (https://www.youtube.com/watch?v=wOvsmAngDuM).
English abstract
"If Bacon had shot a movie, how would he have done it?” The Alphabet by David Lynch proposes an answer to this question in a disturbing, voiceless tale of childhood, socialization, and coercion. The subject stems from a nightmare in which the letters of the alphabet become the symbol of painful learning. What seems familiar turns suddenly into its opposite, revealing its threatening and deadly side, unpredictable but not without its own dark logic. The animated sequences intertwined with filming throughout the movie, show the influence of Francis Bacon's painting on the young Lynch and mark the beginning of his narrative method.
keywords | David Lynch; The Alphabet; Movie; Francis Bacon.
Per citare questo articolo / To cite this article: M. Zadra, Il linguaggio come virus. The Alphabet di David Lynch, “La rivista di Engramma” n. 150 vol. 2, ottobre 2017, pp. 507-510 | PDF