Ecco perché il mio tipo di rabbia non catalogabile si presenta in realtà come uno dei pochi casi di rabbia in Italia.
Vorrei aggiungere che per me l’arrabbiato ideale, il meraviglioso arrabbiato della tradizione storica è Socrate.
Credo che non ci sia caso di rabbia più sublime di questo, e tuttavia la società ateniese era a suo modo sublime.
C’erano comunque in questa società i Meleto che accusavano ingiustamente Socrate in nome del conformismo del tempo.
E Socrate ha risposto a tutto questo in quel modo che si sa, senza tuttavia essere un rivoluzionario,
ma restando semplicemente quello che oggi si chiama un arrabbiato.
Pier Paolo Pasolini
Un film diviso da un muro
Con le parole pronunciate da una voice over si apre uno dei quattro trailer de La rabbia (1963) di Pasolini e Guareschi, mentre sullo schermo i nomi dei due registi compaiono collocati l’uno a sinistra e l’altro a destra del muro di Berlino:
Unico inconfondibile film. La rabbia. La rabbia è il risultato della più accesa polemica fra due registi di opposte ideologie. Un muro li ha sempre divisi. Un muro non solo ideologico, ma anche reale. Così Pasolini ha lavorato senza essere a contatto con Guareschi e Guareschi ha potuto non incontrare Pasolini. Ed ora la parola a Pasolini, l’uomo di sinistra. […] E questo è Giovannino Guareschi, l’uomo di destra (Il trailer si può vedere fra i materiali extra pubblicati nel dvd Pasolini, Guareschi [1963] 2008).
Il lancio pubblicitario, che stigmatizza la contrapposizione dei due punti di vista, e la struttura in due parti hanno segnato profondamente la storia della ricezione di quest’opera e certamente non hanno giovato a una lettura attenta delle diverse soluzioni e dei diversi contributi apportati da ciascuno degli autori. Il film, infatti, proiettato in poche sale italiane nella primavera del ’63, presto ritirato dalla circolazione, viene subito giudicato negativamente e rimane per anni pressoché ignorato dalla critica. La storia della genesi di La rabbia costituisce dunque un caso originale e un esempio emblematico di quanto sia complessa la dialettica fra autori, lettori-spettatori e mercato, di quanto essa possa determinare le dinamiche che presiedono alla ricezione di un testo e, infine, di quanto labile e aleatoria sia da considerare la presunta forma di esso (Mancino 2008, 51-52).
Già a partire dalla presentazione del trailer è possibile cogliere l’ambiguità di fondo della scelta della coppia Pasolini-Guareschi. Le parole dello spot (“unico inconfondibile film”) sono immediatamente smentite dalla struttura duplice e dalla storia della sua costruzione. Se è vero che La rabbia costituisce un caso “unico” per l’originalità delle soluzioni formali e stilistiche (almeno per ciò che concerne la parte pasoliniana), non è per nulla un film “unico”: stando alla ricostruzione fatta da Tatti Sanguineti è possibile individuare almeno tre versioni (Sanguineti 2008).
“La rabbia 1” è una creazione tutta pasoliniana e nasce nell’estate del ’62 quando lo scrittore corsaro accetta la proposta di Gastone Ferranti di realizzare un film di montaggio dei materiali di repertorio del cinegiornale “Mondo libero”, da lui diretto per molti anni. Egli pensa inizialmente a un film a più mani su un marziano che arriva sulla Terra – Pianeta Marte non si entra è il titolo del primo soggetto ideato da Ferranti – una sorta di docu-fiction (Chiesi 2008, 45-46). Pasolini è il solo a lasciarsi coinvolgere e anzi convince il produttore ad affidare a lui tutto il progetto; così nell’autunno del 1962 passa in rassegna novantamila metri di pellicola e scopre, nella rappresentazione audiovisiva del qualunquismo più reazionario, immagini di una straziante bellezza, schegge di un ‘mondo in agonia’ di cui sceglie di raccontare la storia:
Ho visto questo materiale. Una visione tremenda, una serie di cose squallide, una sfilata deprimente del qualunquismo internazionale, il trionfo della reazione più banale. Però in mezzo a tutta questa banalità e squallore, ogni tanto saltavano fuori immagini bellissime: il sorriso di uno sconosciuto, due occhi con una espressione di gioia e di dolore e delle interessanti sequenze piene di significato storico. Un bianco e nero di solito molto affascinante visivamente (Pasolini [1963] 2001b, 3067).
Con l’intento di ripercorrere le tappe fondamentali del passato più recente del nostro paese, il regista seleziona alcune sequenze e le cuce insieme attraverso un commento metà in versi e metà in prosa, che nasce direttamente in moviola, da un dialogo serrato e intenso con le immagini. Il primo nucleo di questo progetto è quella che Tatti Sanguineti definisce “La rabbia 1” di cui rimane solo la sceneggiatura originale: da questa nel film del ’63 sono state espunte le prime sedici scene (Pasolini [1963] 2001 a, 352-404). La prima versione, montata probabilmente ancora senza il sonoro, deve essere apparsa forse un po’ troppo azzardata ideologicamente a Ferranti, che chiede a Pasolini di dimezzare il film, mentre propone a Giovannino Guareschi di realizzare un secondo tempo sul modello del format bipartisan collaudato sul “Candido”: “visto da destra e visto da sinistra”. Il regista di Accattone accetta con molte perplessità l’accostamento al padre di Don Camillo e Peppone, ma si presta comunque a un lancio pubblicitario tutto costruito sull’assoluta contrapposizione dei due punti di vista. In realtà il montaggio del film di Pasolini è già pronto nel momento in cui interviene Guareschi e il poeta è costretto a tagliare e ridurre il proprio film. Così nasce “La rabbia 2”, che esce nell’aprile del ’63 nelle sale di Roma e Milano, e in poche altre, e viene ritirato dopo un paio di giorni. Dopo la visione de La rabbia di Guareschi, Pasolini, indignato per le posizioni di un estremismo reazionario inaccettabile (Guareschi chiama “vendetta” il processo di Norimberga, e si schiera apertamente contro il processo di decolonizzazione, solo per fare qualche esempio), trovandosi di fronte a un’opera che sembra portare la firma di Eichmann redivivo, vorrebbe ritirare la sua:
Se Eichmann potesse risorgere dalla tomba e fare un film, farebbe un film del genere. Per interposta persona ha fatto questo film. Credevo di avere un interlocutore con cui fosse possibile almeno un dissenso, e non uno che è addirittura in fase prelogica (Pasolini [1963] 2001c, 3068).
Guareschi e Ferranti pensano invece addirittura ad una terza versione del film (“La rabbia 3”) che accentui la polemica contrapposizione fra i duellanti, ma poi non se ne fa niente. La pellicola sparisce dalla circolazione e la prima parte, quella pasoliniana, ricompare in sporadiche occasioni nei cinema d’essai, dove circola una copia della parte pasoliniana totalmente in bianco e nero mentre nel ’92 La rabbia viene trasmesso su Raitre. È interessante notare come in quella occasione Tullio Kezich, vedendo per la prima volta il film, attribuisca ad esso unicamente un valore di testimonianza storica. A pochi anni dalla caduta del Muro di Berlino, le due parti del film che esprimono la contrapposizione dei punti di vista di Pasolini e Guareschi appaiono come i relitti di una visione del mondo ormai superata e appartenente a un passato dolorosamente rimosso:
Se c’è qualcosa per cui questa pellicola resta un gran cimelio d’epoca, è proprio il marchingegno su cui è nata. […] “La rabbia” è la testimonianza di una società in cui si viveva ancora muro contro muro […]. Qui si tocca con mano l’incomunicabilità di una fase storica, quando il vecchio era ormai decrepito e il nuovo ancora pesantemente imbrigliato nelle ideologie e nei miti (Kezich 1992).
Il film pasoliniano ricompare, in una nuova forma, nel 2007 quando appunto la cineteca di Bologna ripropone la pellicola restaurata al festival del cinema di Roma e poi nel 2008 quando Giuseppe Bertolucci presenta a Venezia una Ipotesi di ricostruzione della versione originale della Rabbia di Pasolini, con una delle parti (la più consistente, i sedici minuti iniziali) tagliate da Pasolini per accogliere quella di Guareschi. Ecco, dunque, “La rabbia 4” o meglio la riapparizione di “La rabbia 1”. L’operazione di Bertolucci nella ricostruzione dei primi sedici minuti è fondata su precise notazioni presenti nella sceneggiatura pasoliniana, dove sono indicati i titoli delle sequenze dei cinegiornali e la trascrizione della voce dello speaker in esso contenuta. Resta il fatto che, come riconosce lo stesso Bertolucci, manca però quella “temperatura”, quella “febbre” che soltanto lo stesso Pasolini avrebbe potuto ridare a quelle sequenza perdute (Bertolucci 2008).
Al di là di ogni valutazione filologica sull’attendibilità dell’operazione, in ogni caso L’ipotesi di ricostruzione, proposta con molta discrezione da Giuseppe Bertolucci, vorrebbe liberare il film di Pasolini dall’ipoteca della ‘forma del duello’, giustapposta a quel “docu-poema” (Tassi 2008, 43) di straordinaria bellezza quasi a soffocarne la dirompente potenzialità espressiva, o quantomeno a mascherarne l’importanza all’interno della sperimentazione cinematografica dello scrittore, e vorrebbe soprattutto porre le basi per uno studio più attento dell’operazione pasoliniana, del suo valore e della sua originalità. Ma, in realtà, nel 1963 come nel 2008, l’attenzione è catturata quasi totalmente dalla doppia forma de La rabbia, e poi dall’esclusione della parte di Guareschi e dalle polemiche che ad essa seguono. Subito dopo l’uscita de La rabbia di Pasolini, infatti, e in risposta alle dichiarazioni di Bertolucci che riprendevano il giudizio pasoliniano della prospettiva biecamente razzista espressa da Guareschi nella sua parte, i figli dello scrittore hanno chiesto al regista di dimettersi dal Comitato delle celebrazioni guareschiane (Manin 2008). L’operazione di restauro e la rimessa in circolazione del film hanno però incoraggiato una revisione critica che ha dato contributi molto interessanti (Didi-Huberman 2013; Benedetti 2015), convergenti sostanzialmente sulla sottolineatura dell’importanza del film pasoliniano, considerato dai più come un esperimento minore, e concordi nel rilievo del carattere rappresentativo che esso assume nella prospettiva del ‘cinema di poesia’.
Ricominciare da dove non c’è certezza
Leggendo oggi le poche recensioni del ’63, accanto agli interventi di questi ultimi anni che hanno riportato l’attenzione su La rabbia dimenticata, ciò che stupisce maggiormente è infatti l’incapacità di coglierne la grandezza, la cecità di molti spettatori di fronte alla forza di una poesia che scaturisce dalle più trite immagini della cronaca, all’originalità di un cinema che costruisce la sua sintassi tutta sulle regole della retorica poetica. Anche un recensore d’eccezione come Moravia, per di più legato a Pasolini da lunga frequentazione artistica, culturale e umana, mostra di non intendere il senso dell’operazione e critica l’ingenuità dell’amico, non solo per l’accettazione dell’accostamento a Guareschi, ma anche per le scelte formali. Il commento sarebbe dovuto essere a suo parere “più semplice, più diretto, più razionale, meno letterario” e Pasolini avrebbe dovuto tener conto che il pubblico a cui era destinato era costituito da “spettatori” e non da “lettori” (Moravia 1963). Oltre a ciò Moravia conclude offrendo implicitamente una spiegazione del flop del film: “Pasolini piacerà senza dubbio ai suoi lettori che sono certo assai numerosi: ma riuscirà forse un po’ difficile e oscuro all’ancor più numerosa massa degli spettatori” (Moravia 1963). Su questa stessa linea che lamenta la mancanza di chiarezza delle tesi pasoliniane espresse nel film si pongono, salvo rare eccezioni (Argentieri 1991, 365-370; Joubert-Laurencin 2005, 137-143) molti altri spettatori (M.G. 1963, de Palma 1963).
A riflettere su queste vicende sembra proprio che le novità formali e stilistiche pasoliniane siano all’origine della pressoché unanime incomprensione del film e possono forse dare ragione del fatto che, oggi come allora, l’opera finisca per risultare sgradita sia a destra che a sinistra (Argentieri 1991, 367).
Per intendere le motivazioni che spingono Pasolini ad accettare la proposta di Ferranti, del resto, occorre ricordare che i primi anni Sessanta rappresentano per lo scrittore un momento di svolta nella sua esplorazione di generi e forme espressive; sono gli anni dell’esordio cinematografico con Accattone, ma anche quelli dell’inizio di quell’avventura giornalistica che nel ’60 inaugura la rubrica dei dialoghi con i lettori su “Vie nuove” e che prelude alla stagione corsara e luterana. Nel ’63, dopo La ricotta, Pasolini lavora a tre film cercando varie originali forme di contaminazione del linguaggio filmico e linguaggio giornalistico ed esplora il genere documentario con materiali di repertorio tratti dai cinegiornali (ne La rabbia); la forma dell’inchiesta (in Comizi d’amore) e lo stile del reportage (in Sopralluoghi in Palestina). È in questo contesto che si può comprendere l’intenzione di Pasolini di aprire la strada con la sua Rabbia a “un nuovo genere cinematografico”:
Attratto da queste immagini ho pensato di farne un film, a patto di poterlo commentare con dei versi. La mia ambizione è stata quella di inventare un nuovo genere cinematografico. Fare un saggio ideologico e poetico con delle sequenze nuove. E mi sembra di esserci riuscito soprattutto nell’episodio di Marilyn. Ho lavorato per settimane e mesi: è stato un lavoro massacrante perché la moviola è già di per sé un lavoro terribile (Pasolini [1963] 2001b, 3067).
L’attrazione dichiarata da Pasolini per le immagini dei cinegiornali, per quella “serie di cose squallide”, espressione della “reazione più banale”, fra le quali però ogni tanto intravede le tracce residue di una bellezza cancellata dalla storia (“il sorriso di uno sconosciuto, due occhi con una espressione di gioia e di dolore”), nasce dall’intuizione della possibilità di un riscatto prima di tutto estetico e al tempo stesso morale di quelle sequenze segnate da un “un bianco e nero […] molto affascinante visivamente” (Pasolini [1963] 2001b, 3067). Di fronte alla visione dei novantamila metri di pellicola del cinegiornale “Mondo libero” il regista comprende che quei materiali poveri, grezzi, sporchi, quelle immagini sgranate si offrono come oggetti da riplasmare per farne opera di poesia. O meglio intuisce che quelle sequenze possono essere denudate – come afferma giustamente Roberto Chiesi – “dalla spessa crosta di ipocrisia, retorica, banalità e qualunquismo” (Chiesi 2008, 7) e possono assumere un significato nuovo nell’accostamento ad altre immagini e a fotografie, selezionate nell’archivio Italia-URSS, nei rotocalchi (la foto di Marilyn), nei libri d’arte (i quadri di Guttuso, Pontormo, Grosz, Polloch, Fautrier). Corinne Pontillo ha chiarito come “l’inserimento di fotografie in un flusso di immagini in movimento” (Pontillo 2015, 71) generi quel cortocircuito antiideologico che Debord definisce détournement (Debord [1992] 2008, 174). In altri termini la staticità delle immagini fotografiche altera il ritmo della pellicola, determinando le condizioni di un’audience anticinematografica, o quantomeno estremamente originale.
Ma quel che appare più interessante è che Pasolini probabilmente vede in quel povero materiale visivo un’occasione per rimanere fedele alla propria aspirazione a una “verginità espressiva”, che in passato gli ha fatto scegliere le lingue dialettali delle ‘piccole patrie’ del Friuli o delle borgate romane, e che in futuro gli farà scegliere per le sue sperimentazioni grafiche “una materia difficile, impossibile” come la carta o il cellophane. E traggo non a caso il sintagma “verginità espressiva” dalla presentazione che il poeta scrive, proprio nel ’62 mentre lavora a La rabbia, per una cartella che contiene 20 disegni di Guttuso. Quello che Pasolini sostiene in riferimento al pittore, in questo saggio che significativamente alterna versi e prosa come il commento per il film, può senz’altro indicare una chiave di lettura per comprendere la complessità della sperimentazione che mette in atto in questo testo. L’espressionismo di Guttuso, che nasce dalla volontà di “proteggere” la sua “aprioristica e accanita verginità espressiva” si concretizza in precise opzioni tecniche per mezzi squallidi, nell’uso di pennini “da ragazzi alle prime armi”, o “di una matita che scorre troppo grigia”, oppure ancora nella scelta di una “carta brutta, giallastra, da pochi soldi” (Pasolini [1962] 1999, 2384). E tutto questo per salvare “la freschezza casuale e arbitraria di un atto espressivo che non si vuole esaurire”, e che induce il pittore ad usare il suo rosso, “un colore antico come tutti i colori del mondo”, non più nelle “macchine di bellezza sublime” delle tele e delle cornici, ma “appiccicato alla carta o al compensato” (Pasolini [1962] 1999, 2389-2390).
Non è un caso che Pasolini scelga proprio Guttuso come interprete per la voce in prosa, la “voce della rabbia e dell’invettiva” come la definisce Carlo di Carlo – assistente alla regia per questo e per altri film pasoliniani – in opposizione alla voce della poesia e della pacatezza affidata alla intonazione mite di Bassani. E non è un caso se nella sequenza che si svolge nella pinacoteca appaia una serie di quadri di Guttuso mentre la voce di Bassani, montata da Pasolini in modo da doppiare il cicerone, pronuncia queste parole:
Dovremmo ricominciare daccapo,
da dove non c’è certezza e il segno è disperato,
e il colore stridente, e le figure
si contorcono come i cremati di Buchenwald,
e una bandiera rossa ha il tremore
di una vittoria che non può essere mai l’ultima (Pasolini [1963] 2001, 387).
Mentre ascoltiamo queste parole-chiave vediamo scorrere sullo schermo le riproduzioni dei quadri di Guttuso (La crocifissione, Fucilazione di patrioti, Operai in riposo, Gott mit uns, Lotta di minatori francesi, Ragazzo che urla con bandiera rossa, Stromboli in eruzione e Le donne di Algeri), che rappresentano l’alternativa all’ingenuo realismo dell’arte sovietica e, al tempo stesso, al formalismo e all’astrattismo dell’arte borghese. Le immagini sgranate dei cinegiornali – proprio come “la carta brutta, giallastra, da pochi soldi” di Guttuso – si offrono come la materia difficile, povera e “senza certezza” che le mani del regista può riscattare e riplasmare attraverso l’arte della moviola.
Ma non si tratta ovviamente soltanto di un’operazione formale, Pasolini intuisce che nel montaggio realizzato attraverso la contaminazione visiva di altro materiale, ma soprattutto nell’innesto di una colonna sonora segnata dalla doppia voce di Guttuso e di Bassani, le sequenze di “Mondo libero” possono essere risemantizzate e liberate del loro proprio sostrato ideologico. Anzi, da questo punto di vista, il loro senso può essere totalmente riscritto attraverso la grammatica del cinema: Pasolini mostra chiaramente, attraverso la complessa dialettica messa in atto nella congiunzione delle sue parole con le immagini dei cinegiornali, di essere in grado di appropriarsi di un linguaggio di cui era vittima, da cui era stato offeso e perseguitato, per ribaltarne il senso. Implicitamente la sequenza “ricostruita” (e basterebbe solo questa a ritenere meritoria l’Ipotesi di ricostruzione) in cui sferra un feroce attacco alla televisione, “nuova arma” per “la diffusione dell’insincerità, della menzogna” – così dice la voce del commento – suona come un atto di condanna anche per tutti i mezzi di comunicazione di massa. È evidente allora l’azzardo dell’esperimento de La rabbia con cui Pasolini, anticipando le posizioni che assumerà col suo giornalismo corsaro, utilizza il linguaggio dei mass media per sferrare contro di essi (e contro la classe che su di essi fonda il proprio consenso) una critica feroce e radicale.
Carla Benedetti ha messo in evidenza le analogie delle tesi espresse da Pasolini ne La rabbia e da Debord nel suo film di montaggio La société du spectacle, sottolineando però che il punto di vista “tragico” del primo, rispetto a quello “apocalittico”, offre un atteggiamento di rifiuto e di resistenza rispetto alla forza omologante del mezzo televisivo, la cui vittoria incontrastabile viene invece stigmatizzata dal teorico della Società dello spettacolo. In altri termini, proprio in virtù delle scelte formali di Pasolini, che attraverso il suo commento si appropria dei materiali video che riusa e riadatta, operando una dislocazione del punto di vista rispetto a quello dei cinegiornali, La rabbia può essere vista come un’opera in opposizione alla forza omologante della cultura di massa e del qualunquismo della società dello spettacolo.
Poesia in forma di découpage
Tale appropriazione appare tanto più efficace proprio perché si consuma sotto il segno della sua totalizzante vocazione poetica, nel senso che sia sul piano verbale che su quello visivo la scrittura di Pasolini sembra scegliere con “disperata premeditazione di fare sempre poesia” (Pasolini [1962] 1999, 2380) – per dirla con le parole dello scrittore ancora riferite a Guttuso. La sintassi che lega immagini e parole, ma anche immagini e immagini, e parole e parole, è costantemente segnata dalla presenza di strategie retoriche tipiche del linguaggio poetico. Maurizio Liverani lo aveva già notato nel ’63 quando definiva La rabbia un “giornale cinematografico in rime” (Pasolini [1963] 2001b), ma è Georges Didi-Huberman in un contributo recente a sottolineare la forza l’originalità e la coerenza dell’esperimento. Se lo studioso francese pone l’accento sulla genealogia della rabbia pasoliniana e sui rimandi teorici alla riflessione sulla semiotica cinematografica di Empirismo eretico, quel che si vorrebbero far emergere sono invece alcuni stilemi della poetica cinematografica del montaggio di Pasolini. Qualche esempio è sufficiente a intuire l’assoluta novità del film di montaggio da lui creato, ma è l’intero testo che merita un’indagine più analitica della scrittura e del suo complesso e raffinato découpage. Roberto Chiesi (2008a, 48-50), per esempio, offre un contributo fondamentale in questa direzione. Qui ci si limiterà ad alcune notazioni particolarmente significative per un discorso complessivo.
La figura dell’anafora, presente spesso in molti segmenti della voce di poesia, per esempio si traduce nella riproposizione di identici sintagmi visivi e verbali all’interno di alcune sequenze oppure nel passaggio da una sequenza a un’altra. Nella “serie delle alluvioni” all’anaforica ripetizione del verso “Il male della vita è libero” (Pasolini [1963] 2001a, 362-363) corrisponde quasi sempre, a volte con una perfetta sincronia, altre volte con una lieve sfasatura asincronica, l’immagine delle acque straripanti. Lo stesso procedimento di ripetizione sincronizzata verbo-visiva si ritrova nella sequenza di Marilyn dove all’incipit, replicato con lievi varianti in ogni strofa, corrisponde il medesimo primo piano dell’attrice; l’explicit delle tre lasse centrali si traduce visivamente nella breve carrellata che percorre da destra a sinistra, dai piedi al capo, il corpo della “bianca colomba d’oro” (Pasolini [1963] 2001a, 399) distesa su un sofà [https://www.youtube.com/watch?v=HG6PhlZa5S4].
A volte la figura della ripetizione riguarda soltanto il segmento visivo e sembra sostituire la voce poetica laddove prevale quella in prosa e quella dello speaker, come nel montaggio delle sequenze XXV, XXVI e XXVII (si fa qui riferimento alla sceneggiatura: Pasolini [1963] 2001a, 376-378) dove i fotogrammi di scene che ritraggono i ballerini in una balera, la discesa di Ava Gardner da un aereo che l’ha portata in Italia e la visita di Sofia Loren agli allevatori di capitone del Polesine sono introdotti e legati insieme dalla riproposizione del fermo-immagine di un teschio estratto da una cassa contenente altre ossa, che sembra funzionare come la rima di un testo poetico (Chiesi 2008a, 49) .
Il capitolo dedicato a Marilyn presenta la maggior parte degli indizi del prevalente linguaggio poetico del découpage pasoliniano. La successione dei fotogrammi, quasi un saggio ante litteram di un montaggio che opera come la morte una sintesi complessiva e dà il senso a un’intera esistenza (Pasolini [1967] 1999, 1561), viene incorniciata da due sequenze di immagini, in apertura e in chiusura, che seguono e che rappresentano una catena di esplosioni [Figg.1-2].
Stando alle indicazioni della sceneggiatura, la sequenza dei funghi atomici doveva soltanto seguire la conclusione del requiem per Marilyn, che doveva invece essere preceduto da una serie di immagini di “campi di concentramento, di sterminio, impiccagioni, esecuzioni, mucchi di cadaveri a Buchenwald” che si sarebbe dovuta chiudere con la fotografia in primo piano della “faccia di un cadavere di donna” (Pasolini [1963] 2001a, 397), come logica ouverture al tema della morte dell’attrice. Nel film tale carrellata di immagini luttuose non c’è; ai fotogrammi dell’esplosione di una bomba, che disegna in cielo un grande alone bianco, Pasolini incolla il p.p. di Marilyn, in un quasi perfetto accostamento analogico e figurativo del profilo delle due silhouette, in cui il rapporto fra pieno e voto, bianco e nero sembra sovrapponibile [Figg. 3-4].
Attraverso una lettura attenta di questi meccanismi retorici e formali si potrebbero aggiungere molti altri esempi, ma ciò che pare più importante è verificare come essi costituiscono le tracce della realizzazione concreta e dell’incarnazione filmica del punto di vista del poeta. Se fosse lecito applicare all’analisi de La rabbia le teorie sul montaggio elaborate da Pasolini quattro anni dopo nelle Osservazioni sul piano sequenza (1967), se si potesse azzardare l’applicazione di tali teorie non solo alla vita di un singolo individuo ma anche a quella di un’intera civiltà, si potrebbe dire che il poeta si trova a operare la selezione e il montaggio dei frammenti “infiniti”, “instabili”, “incerti” dell’esistenza della civiltà post-resistenziale, e a decretare con la sua morte l’appartenenza a un “passato chiaro, stabile, certo” (Pasolini [1967] 1999, 1560). Il poeta, riuscendo a penetrare con lo sguardo oltre i confini dell’apparente e pacificante normalità e a cogliere i segni dell’ “agonia” di un intero mondo, può farsi “narratore” della fine della storia: “Quando il mondo classico sarà esaurito – quando saranno morti tutti i contadini e tutti gli artigiani – quando l’industria avrà reso inarrestabile il ciclo della produzione e del consumo – allora la nostra storia sarà finita” (Pasolini [1963] 2001a, 381-382) – annuncia la voce di Guttuso, anticipando l’avvento della Nuova Preistoria, che è il tema ossessivamente ricorrente in Poesia in forma di rosa.
La sequenza di Titov [Fig. 5], che chiude il film con le immagini delle prime esplorazioni cosmiche da parte dell’Unione sovietica, rappresenta probabilmente la sopravvivenza dell’idea originaria di Gastone Ferranti di fare un film su un marziano che scendeva sulla terra. L’astronauta russo è dunque l’ultimo portavoce del poeta, che accetta la ‘commissione morale’ di testimoniare la propria visione della storia, che nega il proprio assenso alla “normalità” e alla pace solo apparente che trionfa nelle immagini dell’opinione comune (Pasolini [1962] 2001, 407-411), che cerca ogni via estetica per esprimere la propria “rabbia non catalogabile” e il proprio rifiuto di ogni pacificante conformismo. La “voce di poesia” è non a caso ritenuta da Didi-Huberman come la scommessa più forte di questo film, in cui ancora una volta Pasolini sceglie di utilizzare “le forme del passato” per fare emergere la novità del suo messaggio. Come nei versi di chiusura del Glicine, l’ultima delle poesie incivili de La religione del mio tempo, l’invocazione di Pasolini di fronte alla fine della storia, ovvero di fronte alla morte dello spirito della Resistenza, suona sempre come un urlo di disperata vitalità che continua a sopprivere: "che abbia solo ferocia il mondo, la mia anima rabbia" (Pasolini [1961] 2003, 1059).
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P.P. Pasolini, Appendice a "La rabbia" [Il “trattamento”] [1962], a cura di S. De Laude, in Per il cinema, a cura di W. Siti, F. Zabagli, Milano 2001, 407-411. - Pasolini [1963] 2001a
P.P. Pasolini, La rabbia, a cura di S. De Laude, in Per il cinema, a cura di W. Siti, F. Zabagli, I, Milano 2001, 352-404 e 3066-3074. - Pasolini [1963] 2001b
P.P. Pasolini, intervista a cura di M. Liverani [1963], in Note e notizie sui testi, in Id., Per il cinema, a cura di W. Siti, F. Zabagli, Milano 2001, 3067. - Pasolini [1963] 2001c
P.P. Pasolini, Pasolini non vuole firmare “La rabbia”, intervista a cura di A. Barbato [1963], in Note e notizie sui testi, in Id., Per il cinema, a cura di W. Siti, F. Zabagli, Milano 2001, 3068. - Pasolini [1961] 2003
P.P. Pasolini, Il glicine, in La religione del mio tempo [1961], ora in Id., Tutte le poesie, a cura di W. Siti, Milano 2003, pp. 1054-1059. - Pasolini 2008
P.P. Pasolini, La rabbia, a cura di R. Chiesi, Bologna 2008. - Tassi 2008
F. Tassi, Socratici vs. rivoluzionari, “Cineforum” 478 (2008), 42-44.
Videografia
- Pasolini, Guareschi [1963] 2008
La rabbia, regia di P.P. Pasolini e G. Guareschi, a cura di T. Sanguineti, copia restaurata dalla cineteca di Bologna, Minerva Rarovideo, 2008. - Pasolini [1963] 2008
La rabbia di Pasolini, regia di P.P. Pasolini, ipotesi di ricostruzione della versione originale realizzata da G. Bertolucci, letture della parte ricostruita di V. Magrelli e G. Bertolucci, a cura di R. Chiesi, cineteca di Bologna, Minerva Rarovideo, 2008. - Sanguineti 2008
T. Sanguineti, La rabbia 1, 2, 3... L’arabia, documentario compreso negli extra del dvd La rabbia, regia di P.P. Pasolini e G. Guareschi, a cura di T. Sanguineti, copia restaurata dalla cineteca di Bologna, Minerva Rarovideo, 2008. - Bertolucci 2008
G. Bertolucci ricostruzione contenuta negli extra del dvd La rabbia di Pasolini, regia di P.P. Pasolini, ipotesi di ricostruzione della versione originale realizzata da G. Bertolucci, letture della parte ricostruita di V. Magrelli e G. Bertolucci, a cura di R. Chiesi, cineteca di Bologna, Minerva Rarovideo, 2008.
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English abstract
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In the artistic research of Pasolini, it is easy to recogninze a specific interest in the interplay between images and words. Pasolini’s experimental documentary La rabbia (“The anger”, 1963) develops a special method of refraction between images and sound commentary that still goes unnoticed by film scholars. This paper aims to invetistigate a serie of patterns of visual rhetoric such as examples of a so called 'poetical cut'.
keywords | Pasolini; La rabbia; The anger; Documentary; Film; Poetical cut.
Per citare questo articolo / To cite this article: M. Rizzarelli, Una rabbia “non catalogabile”. Pasolini e il montaggio di poesia, “La rivista di Engramma” n. 150 vol. 2, ottobre 2017, pp. 379-392 | PDF