Niobe in lutto: dipingere il silenzio
La fortuna iconografica della versione eschilea nella ceramica magnogreca di IV secolo
Andrea Tisano
English abstract
Nell’ambito degli studi sulle raffigurazioni vascolari del mito e sui loro rapporti con il teatro attico di V secolo, particolarmente interessanti – ma altrettanto sfuggenti – sono le considerazioni in merito alle iconografie che potrebbero essere ricondotte a scene di tragedie perdute, di cui il saggio di ricostruzione del Laocoonte perduto di Sofocle in Scene dal mito (Centanni et all. 2015) costituisce un valido esempio. È anche il caso del mito di Niobe.
Alla fine del V secolo la Niobe era una delle più celebri tragedie di Eschilo, e gli studiosi, pur con differenti approcci, sono concordi nel riconoscere che proprio in questo periodo e nei decenni seguenti l’iconografia di Niobe ha una relativa diffusione nella produzione di ceramiche magnogreca, e sembra risentire dell’impostazione drammaturgica eschilea (Rebaudo 2015, con bibliografia). Tuttavia in letteratura non si trova una giustificazione della cronologia di tale fortuna: la datazione della Niobe ha un terminus ante quem indiscutibile nel 458 a.C. (anno dell’Orestea e dell’ultimo allontanamento di Eschilo da Atene), laddove le prime attestazioni del suo influsso sulla produzione pittorica risalgono al più tardi all’inizio del IV secolo. L’interrogativo cui cerchiamo di rispondere è il motivo di tale ritardo: l’ipotesi di questo contributo è che l’opera di Eschilo si sia impressa nell’immaginario collettivo solo a seguito di una rimessa in scena postuma del dramma; la ragione che qui crediamo di poter rintracciare sta nel rapporto dell’opera con il pubblico, e nel diverso effetto che sul pubblico ebbe la ripresa tarda rispetto alla prima rappresentazione.
1. Niobe, le parole
La più recente e completa ricognizione dei frammenti e delle testimonianze della Niobe è frutto del lavoro di Antonella Pennesi (Pennesi 2008), che propone anche una ricostruzione degli elementi essenziali della drammaturgia. Niobe, entrata in scena, si siede sulla tomba dei figli e resta chiusa in un austero silenzio per più di metà della tragedia, nonostante le reiterate richieste di dialogo da parte del Coro e dei personaggi che si avvicendano sulla scena uno per volta (difficilmente gli attori saranno stati più di due, e l’interprete di Niobe sarà rimasto costantemente sulla scena), con una tecnica che Garzya ha definito degli “approcci reitrerati” (Garzya 1995, 55-56). Questi dati, insieme alla collocazione dell’intera azione a Tebe, sono gli unici certi. Sugli altri elementi la discussione rimane aperta. Ad esempio quale sia l’identità del coro (se fanciulle tebane o lidie) e degli altri personaggi che provano a interagire con Niobe: sicura è solo la presenza di Tantalo, mentre come personaggi secondari Pennesi propone anche la Nutrice (sulla base di una testimonianza di Plutarco, Quaest. Conv. 6.6.2, 691d: ὥσπερ ἡ τραγικὴ τροφὸς ἐκείνη τὰ τῆς Νιόβης τέκνα τιθηνεῖται; segue il fr. XVI della Niobe, di cui cfr. infra) e Hermes (che figura accanto a Zeus nell’angolo in alto a destra della loutrophos del Pittore di Varrese conservata a Napoli). Certo è che i deuteragonisti dovevano assolvere un’importante funzione di strategia informativa. Nella lunga sezione iniziale caratterizzata dal silenzio di Niobe, infatti, doveva essere il secondo attore a prendere la parola per rispondere alle domande del coro, le stesse che si poneva il pubblico: chi fosse il personaggio sulla scena, il motivo del suo silenzio, il resoconto dei fatti luttuosi appena accaduti. È sulla base di tali argomenti di carattere drammaturgico, più che dal riscontro nell’iconografia vascolare (oscillante a questo riguardo), che Pennesi imbastisce la sua ricostruzione: chi avrebbe potuto riferire l’antefatto, il passato di Niobe, le sue ragioni e i suoi sentimenti meglio della Nutrice che dalla Lidia l’aveva seguita al momento delle nozze con il re di Tebe? Chi meglio del messaggero degli dèi per riferire le cause di ordine cosmico della strage dei Niobidi, a giustificare la strage come punizione divina per un hamartēma di hybris compiuto dalla madre?
Tale ricostruzione può trovare solo un parziale riscontro nell’analisi dei frammenti superstiti del dramma, che proponiamo di seguito nell’edizione e con le traduzioni della stessa Pennesi.
1.1 Fr. I (= 154a R.)
TP.) ἡ δ’ο]ὐ̣δὲν εἰ μὴ πατέρ’ἀναστενά̣ζ̣ε̣[ται
τὸν] δόντα καὶ φύσαντα, Ταντάλου β[ίαν,
εἰς οἷ]ο̣ν ἐξώκειλεν ἀλ̣ίμενον γάμ̣ον•
παντ]ὸ̣ς κακοῦ γὰρ πνεῦ̣μα προσβ[άλλε]ι̣
δό[μοις.
ὑμεῖς] δ’ ὁρᾶτε τοὐπι[τ]έ̣ρ̣μιον γάμ̣ου• (5)
τριταῖ]ον ἦμαρ τόνδ’ ἐφημένη τάφον
τέκνοις⸥ ἐπώ<ι>ζε<ι> [ζῶσα] τοῖς τεθνηκόσιν,
θρηνο]ῦ̣σα τὴν τάλαιναν εὔμορφον φυήν•
βροτὸ]ς κακωθεὶς δ᾽οὐδὲν ἀλλ’ ε[ἰ] μὴ σκιά.
(XO.) μάτην] μὲν ἥξει δεῦρο Ταντάλου βία (10)
ἐπὶ τὰ] κόμιστρα τῆσδε καὶ πεφ[ασμένω]ν•
Φοῖβος] δὲ μῆνιν τίνα φέρων Ἀμφίονι
πρόρρι]ζ̣ον αἰκῶς ἐξεφύλλασεν γέν̣[ος;
(TP.) ἐγὼ πρ]ὸς ὑμᾶς—οὐ γάρ ἐ̣σ̣τε
δύσφρονε[ς—
λέξω•] θεὸς μὲν αἰτίαν φύει β⸤ροτοῖς, (15)
ὅταν κα⸥κῶσαι δῶμα παμπήδη⸤ν θέληι•
ἄλλως δ]ὲ θνητὸν ὄντα χρὴ τὸν ἔ̣[κ θεῶν
ὀλβὸν π]εριστέλλοντα μὴ θρασυστομ[εῖν.
ἀλλ’ οἱ μὲν] εὖ πράσσοντες οὔ ποτ’ ἤλ̣πισα[ν
σφαλέν]τες ἐκχεῖν ἣν ἔχουσ’[εὐπραξίαν. (20)
χαὕτη γ]ὰ̣ρ ἐξα̣ρθεῖσα [κ]αλλισ̣[τεύματι
παίδων⸥ [τε] ⸤πλήθει⸥ ......
(NU.) (E lei) non fa altro che piangere il padre, / (lui) che l’ha data in sposa e l’ha generata, Tantalo il forte; / a che razza di matrimonio senza porto egli l’ha fatta arenare! / Infatti, il soffio di (ogni) male (piomba sulla stirpe). / E (voi) guardate l’esito delle nozze: / da tre giorni siede su questa tomba / e cova, lei viva, i figli morti / (lamentando) l’infelice bellezza. / Un uomo quando è colpito dal male non è niente altro che ombra. / (CO.) (Invano) arriverà qua il forte Tantalo / (per ricondurre) questa e (i figli morti). / Ma quale ira nutrendo (Apollo) nei confronti di Anfione / ignobilmente distrusse l’intera stirpe (fin dalle radici)? (NU.) (Ve lo dirò), poiché non siete mal disposte. / Il dio genera all’uomo l’occasione, / quando vuole interamente distruggere una casa. / Bisogna che chi è mortale nascondendo / (la ricchezza che viene dagli dèi) non parli temerariamente. / (Ma quelli) che stanno bene non pensano mai di perdere, (caduti, la felicità) che hanno; / (anche lei,) inorgoglitasi per la bellezza / (e per il numero dei figli)
Il frammento, il più lungo conservato, proviene da un papiro di Ossirinco (PSI 11. 1208) in maiuscola rotonda risalente alla seconda metà del II sec. d.C., rinvenuto nel 1932. I bordi del papiro sono abrasi e, a causa dell’assenza di paragraphoi, restano in discussione l’identità dei parlanti e l’attribuzione delle battute. Il brano è in trimetri giambici, ed è parte di una rhesis in cui, plausibilmente dopo la parodo, il secondo attore descrive al Coro appena sopraggiunto lo stato di Niobe, e si accinge a spiegare la causa del suo dolore. Per Vitelli e Norsa – cui si deve la prima edizione del papiro ossirinchita – a parlare qui sarebbe la stessa Niobe; questa ipotesi porterebbe ad attribuire il frammento a una sezione già avanzata del dramma, in cui una rhesis esplicativa di questo tipo forse sarebbe ormai fuori luogo. Sono stati in seguito proposti come personaggi Latona (da Reinhardt), Antiope (Haupt), Eurianassa (Keuls) e la Nutrice dei Niobidi (Latte; Cfr. la rassegna bibliografica di Pennesi 2008, 28-31). Quest’ultima pare l’ipotesi più probabile, se si tengono in considerazione gli argomenti drammaturgici di cui sopra, la possibile influenza di questa scena sul prologo della Medea di Euripide, e soprattutto l’accordo con il fr. XVI in cui pure la persona loquens, stando alla testimonianza di Plutarco di cui sopra, sarebbe la Nutrice. Ai vv. 10-13 viene annunciato l’imminente arrivo di Tantalo; a meno di identificare il parlante del passo con una divinità prologante, bisognerà attribuire questi quattro versi al corifeo del corteo di donne che precede il padre di Niobe nel suo viaggio dalla Lidia, sul modello del coro di Supplici che scorta il re Danao.
1.2 Fr. II (= 155 R.)
Ἴστρος τοιαύτας παρθένους ἐξεύχεται
τρέφειν ὅ θ’ἁγνὸς Φᾶσις
L’Istro e il sacro Fasi si vantano / di allevare tali fanciulle
Si è voluto leggere in questo frammento, riportato da Efestione come esempio di abbreviamento in iato del dittongo οι in τοιαύτας, un riferimento all’origine orientale del Coro. Un argomento a favore di tale ipotesi sarebbe proprio l’uso del dimostrativo, riferito solitamente a persone presenti sulla scena. Il coro pertanto risulterebbe composto, come si era supposto per il fr. I, da fanciulle lidie: un corteo che precede l’arrivo di Tantalo, re della Lidia e padre di Niobe, ancora ignaro della sventura che si è abbattuta sulla casa di Anfione. Per la tesi contraria, che vorrebbe le donne del coro tebane, si veda il fr. III.
1.3 Fr. III (= 158 R.)
σπείρω δ’ἄρουραν δώδεχ’ἡμερῶν ὁδόν,
Βερέκυντα χῶρον, ἔνθ’Ἀδραστείας ἕδος
Ἴδη τε μυκηθμοῖσι καὶ βρυχήμασιν
βρέμουσι μήλων, πᾶν δ’ †ἐρεχθεῖ† πέδον
Semino una terra che si attraversa in dodici giorni / il paese dei Berecinti, ove Adrastea / e l’Ida risuonano dei muggiti / delle mandrie, tutta la terra
Trimetri giambici attribuiti da Strabone e Plutarco alla voce di Tantalo che, arrivato sulla scena, si presenterebbe enumerando i suoi vasti possedimenti in terra orientale (Strab. 12.8.21; Plut. De exil. 10, 603a; Plut. Maxime cum princ. phil. disserendum 3, 778b). Il problema qui sta nell’identificazione dell’interlocutore: sulla scena, infatti, oltre a lui potevano essere presenti soltanto Niobe e il Coro. Impossibile che Tantalo si presentasse davanti al proprio stesso corteo, mentre sarebbe stato naturale se arrivando in scena avesse trovato un coro di donne tebane (Reinhardt). Tuttavia c’è una possibile ricostruzione che permetterebbe di risolvere il problema mantenendo l’identità esotica del coro quale risulterebbe dal fr. II. È stato ipotizzato che Tantalo, giunto sul sito della tomba, non riconosca la figlia, chiusa nel silenzio e velata, e inizi a presentarsi. Si può immaginare allora il pathos che una simile strategia drammaturgica avrebbe suscitato nell’uditorio, alla vista del re orientale che, appena dopo essersi vantato del proprio olbos, apprende la dolorosa verità e precipita nella sventura. Sventura in cui precipita anche nel traslato poetico del discorso che segue (fr. IV).
1.4 Fr. IV (= 159 R.)
θυμός ποθ᾽ἁμὸς οὐρανῶι κυρῶν ἄνω
ἔραζε πίπτει καί με προσφωνεῖ τάδε•
‘γίγνωσκε τἀνθρώπεια μὴ σέβειν ἄγαν’
Il mio animo che talora si trova in alto in cielo / a terra cade e mi avverte: / “impara a non onorare troppo le cose umane”
Siamo al momento della rivelazione. Plutarco, nel De exilio, riporta questi trimetri pronunciati da Tantalo in coppia con quelli del fr. III, evidenziando come nella tragedia il lamento sulla caducità delle fortune umane segua di poco la descrizione dei dominî di Tantalo del fr. III.
1.5 Fr. V (= 160 R.)
x – μέλαθρα καὶ δόμους Ἀμφίονος
καταιθαλώσω πυρφόροισιν αἰετοῖς
I tetti e le case di Anfione / ridurrò in cenere con aquile portatrici di fuoco
I due versi, inseriti in un centone di citazioni tragiche negli Uccelli di Aristofane, attribuiti alla Niobe dagli scolî al passo (Av. 1247 s.), alludono a una minaccia di distruzione della casata di Anfione da parte di Zeus. Controverso è l’uso della prima persona singolare in καταιθαλώσω: pare difficile che fosse Zeus in persona a parlare, perciò potrebbe trattarsi di un discorso riportato da un personaggio come Hermes. In via alternativa, si potrebbe ipotizzare un adattamento operato da Aristofane su un verso che conteneva invece la terza persona singolare, e che pertanto sarebbe potuto essere pronunciato da chiunque altro (Niobe, il Coro, Tantalo, la Nutrice o un membro della casata tebana).
1.6 Fr. VI (= 161 R.)
μόνος θεῶν γὰρ Θάνατος οὐ δώρων ἐρᾶι•
οὐδ’ ἄν τι θύων οὐδ’ἐπισπένδων ἄνοις,
οὐδ᾽ἔστι βωμός οὐδὲ παιωνίζεται•
μόνου δὲ Πειθὼ δαιμόνων ἀποστατεῖ
Sola fra gli dèi, infatti, la Morte non ama doni: / né sacrificando, né facendo libagioni potresti ottenere qualcosa; / non ha un altare, non è onorata con il peana: / da questo solo dio (sic) Persuasione sta lontana
I versi, molto famosi nell’antichità (il primo è citato dall’Eschilo delle Rane) devono appartenere a un personaggio che tenti, con i topoi del genere consolatorio, di dissuadere Niobe dal suo ostinato attaccamento al tumulo dei figli. A partire da Hermann si ritiene che la persona loquens sia Tantalo, ed effettivamente la dizione alta, tendente al sublime per anafore, ritmo binario, parallelismo e chiasmo renderebbe invece questi trimetri inadatti all’ethos della Nutrice.
1.7 Fr. VII (= 162 R.)
οἱ θεῶν ἀγχίσποροι
<οἱ> Ζηνὸς ἐγγύς, ὧν κατ’ Ἰδαῖον πάγον
Διὸς πατρώιου βωμός ἐστ’ἐν αἰθέρι,
κοὔ πώ σφιν ἐξίτηλον αἷμα δαιμόνων
I parenti prossimi degli dèi, /
parenti stretti di Zeus, che hanno sul monte Ida / alto sopra le nubi un altare consacrato al padre loro, Zeus, / e ai quali ancora non viene meno il sangue divino
I parenti stretti di Zeus di cui si parla sarebbero Tantalo e la sua stirpe, stando a Strabone, che attribuisce i versi a Niobe. Il frammento è citato nella Repubblica di Platone (Rp. 391e-392a), e fa parte dei passi poetici di cui Socrate propone la censura per scrupolo morale. Si alluderebbe infatti a un altare consacrato sul monte Ida per espiare una colpa commessa dai parenti prossimi degli dèi; da cui la censura platonica, perché – argomenta Socrate – se perfino i consanguinei degli dèi commettono ingiustizie, i mortali se ne potrebbero avvalersene come scusa per giustificare la propria condotta immorale. A parlare potrebbe essere Niobe che, una volta rotto il silenzio, ripercorre nella memoria i luoghi dell’infanzia. Cfr. fr. VIII.
1.8 Fr. VIII (= 163 R.)
Σίπυλον Ἰδαίαν ἀνὰ
χθόνα
Sipilo nel paese dell’Ida
Pronunciata da Niobe, stando a Strabone, la locuzione farebbe parte del lamento di Niobe, di cui al fr. VII, forse come preludio alla partenza verso la terra patria con cui si suppone potesse chiudersi la tragedia.
1.9 Fr. XII (= 157a R.)
τὶ δὴ σὺ θάσσεις τάσδε τυμβήρεις ἕδρας
φάρει καλυπτός, ὦ ξένη;
Perché siedi su questo sepolcro, / coperta da un mantello, o straniera?
Corrispondenti ai vv. 889s delle Tesmoforiazuse di Aristofane, questi versi fanno parte di una sezione abbastanza lunga della commedia (vv. 850-928) consistente in un pastiche di citazioni e allusioni parodiche riferite a varie tragedie, soprattutto all’Elena di Euripide. In realtà è per l’appunto Euripide a essere oggetto di scherno in questo passo, tuttavia a partire da Mette 1963 si è ipotizzato qui un richiamo alla situazione scenica della Niobe, in cui Tantalo giunge a Tebe e interpella la figlia seduta avvolta da un velo sul tumulo dei Niobidi senza riconoscerla.
1.10 Fr. XIII (= 164 R.)
†σοφοῖς γάρ ἐστι πρὸς σοφοὺς ἐπιτήδεια†
C’è una familiarità (?) dei saggi fra di loro
Il frammento – un trimetro giambico dalla prosodia poco ortodossa – proviene da un passo della Vita di Apollonio di Filostrato, in cui lo spettro di Achille esorta Apollonio a occuparsi della tomba del defunto Palamede; l’attribuzione della massima ivi contenuta alla nostra Niobe sarebbe opera dell’editore rinascimentale di Filostrato, l’umanista fiammingo Christophe de Longueil (Longolius). Hermann considerava il verso proveniente da una sezione corale e riferibile alla familiarità di Tantalo con gli dèi. Tuttavia ogni ipotesi resta mera speculazione.
1.11 Fr. XVI (= Trag. adesp. fr. 7 Ka.-Sn.)
λεπτοσπαθήτων χλανιδίων ἐρειπίοις
θάλπουσα καὶ ψύχουσα καὶ πόνωι πόνον
ἐκ νυκτὸς ἀλλάσσουσα τὸν καθ’ἡμέραν
con brandelli di fasce finemente tessute / tenendo caldo e rinfrescando, e sofferenza con sofferenza / alternando, dopo quella della notte la sofferenza di ogni giorno
Plutarco attribuisce i versi alla Nutrice della Niobe in Quaest. Conv. 6.6.2, 691d; è possibile tra l’altro un confronto con la battuta della nutrice di Oreste in Coefore 743-763. Seguendo il parallelo, dunque, è possibile ipotizzare che qui la Nutrice lamentasse la morte dei Niobidi – probabilmente nella prima sezione del dramma – riportando alla memoria la fatica di allevarli. È questa la prova definitiva a sostegno dell’ipotesi per cui sarebbe la nutrice il terzo personaggio del dramma.
1.12 Altri frammenti
Fr. IX (= 164 R.)
αὐλῶνες
Canali
Fr. X (= 165 R.)
ἠμορίς
privata di
Fr. XI (= 166 R.)
κάκαλα
Mura
Fr. XIV (= 167 R.)
κραταίλεων
di roccia
Fr. XV (= 167a R.)
νοβακκίζειν
danzare schioccando le dita
2. Niobe, le immagini
Allo scopo di inferire un nesso causale tra rappresentazione teatrale e iconografia vascolare, il primo elemento di quella “costellazione di indizi” messa a punto in Scene dal mito dal Seminario Pots&Plays (Pots&Plays 2015) riguarda lo sviluppo diacronico dei soggetti iconografici: in un codice figurativo ben consolidato, un improvviso scarto può essere sintomo di un’influenza esercitata dalle innovazioni drammaturgiche dei miti tradizionali. Nel periodo di maggior prestigio del teatro attico, una rappresentazione drammatica di forte impatto sul pubblico – in cui fossero mutati gli equilibri interni di un racconto mitico (tra personaggi o momenti della trama) rispetto alla versione tradizionale – poteva avere una ricaduta sull’immaginario collettivo, e di conseguenza anche sull’immaginario dei ceramografi. Una dinamica, questa, che è possibile ipotizzare proprio alla luce degli indizi di rottura all’interno di una tradizione iconografica attestata. Un simile indizio lo troviamo nel caso oggetto della nostra ricerca: dopo il V secolo il modo di rappresentare la vicenda di Niobe appare mutato.
Ludovico Rebaudo, sulla scia degli studi relativi alla fortuna iconografica del mito di Niobe, registra uno spostamento nel focus del racconto (Rebaudo 2015): nel passaggio dalla ceramica attica di VI e V sec. a.C. alla produzione italiota (in particolare apula) di IV secolo il punto focale del mito si sposta dal momento della strage dei Niobidi [Figg. 1-2], per mano di Apollo e Artemide, a quello successivo del lutto di Niobe (figg. 3-9). In questo caso la donna è ritratta mesta o più apertamente disperata al centro della costruzione pittorica, spesso accompagnata da due anziani, un re orientale (il padre Tantalo) e una donna anziana. Questo schema sostanzialmente coincide con quanto si è potuto ricostruire della perduta Niobe di Eschilo, sulla sola base di frammenti e testimonianze. Dopo la parentesi del IV secolo, tuttavia, si assiste a un ritorno del filone iconografico principale della strage dei Niobidi (diffusissimo nei sarcofagi romani: un esempio in Fig. 10), a ulteriore sostegno della stretta dipendenza del tema di “Niobe in lutto” dalla tragedia eschilea e dalla sua fortuna (Cfr. Galasso 2015 per un esempio simile, relativo al caso di Medea, per la quale l’iconografia dell’infanticida costituisce solo una parentesi in età classica ed ellenistica rispetto alla tradizione che la rappresentava più semplicemente in veste di “maga”).
3. Dalle immagini al testo
Non sono mancati i tentativi di ricostruire, a partire dalle pitture vascolari, alcuni elementi drammaturgici dell’opera originale. Già Eva Keuls (Keuls 1978), prendendo atto dello scarto tra l’iconografia attica di V secolo e quella magnogreca di IV già registrato da illustri studiosi come Séchan, parlava di uno “specific Italiote approach to classical drama”, e ne forniva (a quanto mi risulta per la prima volta) un’interpretazione sociologica, riconducendo la fortuna del motivo di Niobe in lutto al messaggio soteriologico sotteso, che ben si adattava al ceto di donne facoltose cui questi vasi erano destinati nel contesto funerario magnogreco. Ma in merito all’influenza della tragedia di Eschilo su tale innovazione, Keuls non si discosta dall’approccio “ottimista” e “logocentrico” degli studi su teatro attico e iconografia vascolare: cita gli Études di Séchan, Trendall, Webster, usa frammenti e testimonianze della Niobe come fonti letterarie tout court delle scene vascolari, e conclude vagamente che il primo pittore a raffigurare il motivo di ‘Niobe in lutto’ “was inspired by the story as dramatized by Aeschylus”.
Per poter sostenere la derivazione dell’iconografia dal dramma eschileo, Keuls esclude innanzitutto che le rappresentazioni vascolari possano dipendere dalla Niobe di Sofocle, dramma nel quale – a quanto sappiamo dalle ricostruzioni di A. C. Pearson – la medesima storia subiva un trattamento drammaturgico completamente diverso. Già dai frammenti della tragedia si comprende che la strage dei Niobidi doveva essere portata da Sofocle sulla scena; gran parte del dramma era dunque occupato dall’evento luttuoso e dalle sue immediate conseguenze (i lamenti di Niobe, probabilmente il suicidio di Anfione; Pearson 1917, 96). Soltanto nel finale – come attestato dallo Schol. ad Hom. 24, 602 (= Eust. 1367.28) – Niobe tornava in Lidia, dove l’attendeva il padre: assente dunque in Sofocle la visita di Tantalo giunto in viaggio dall’oriente, ovvero la scena madre nell’iconografia magnogreca del mito.
Per quanto riguarda l’altro personaggio che, oltre a Tantalo, compare nei vasi accanto a Niobe – una donna identificata ora con la nutrice dei Niobidi, ora con la suocera Antiope (Fitton Brown 1954) – Keuls vuole vedervi la madre di Niobe, sulla base di un parallelismo col mito di Andromeda in un piatto rinvenuto a Canossa [Fig. 8]: il piatto presenta nel registro superiore Andromeda incatenata, affiancata sul lato destro da una donna che Keuls identifica con la madre Cassiopea; e poiché nel registro inferiore, accanto a Niobe l’anziana si trova nello stesso punto di Cassiopea, anch’essa rivestirebbe il ruolo di madre della protagonista. Keuls si spinge perfino ad assegnare alla madre di Niobe l’incerto nome di Eurianassa, usando come indizio il fr. 158 Nauck (fr. III di Pennesi) in cui Tantalo si vanta di dominare un vasto possedimento terriero.
Un approccio più ponderato e ragionato è invece nel recente saggio di Rebaudo (Rebaudo 2015), dove sono sottolineati innanzitutto gli elementi di continuità della produzione apula: il soggetto resta il tradizionale mito di Niobe già narrato da Omero (Il. XXIV, 602-617), così come tradizionali sono gli schemi iconografici usati per la rappresentazione del dolore, del lutto, della supplica, la cui origine è da ricondurre più alla pratica di bottega che non alla volontà di “illustrare” una specifica scena teatrale.
Tuttavia Rebaudo non esclude che il cambiamento del punto focale del mito – pur adottando schemi iconografici convenzionali per raffigurare il soggetto così strutturato – possa essere collegato alla fortuna della Niobe di Eschilo, ma non attribuisce lo scarto sic et simpliciter a una intenzione dei ceramografi di IV secolo di raffigurare la tragedia eschilea. Oggetto di rappresentazione resta il mito di Niobe: è dunque il mito stesso, nel modo in cui si connota nell’immaginario collettivo a questa altezza cronologica, ad essere influenzato dal dramma ateniese, che avrebbe conferito maggior efficacia comunicativa al momento che segue la strage che non alla strage in sé.
I criteri metodologici sottili e stringenti a cui si rifà Rebaudo sono ancora una volta quelli originati dal confronto tra Oliver Taplin e gli studiosi italiani del Seminario Pots&Plays, cui è dedicato il volume collettaneo a cura di Giulia Bordignon (Bordignon 2015), in cui lo stesso saggio di Rebaudo è contenuto. In base a tali criteri, non si può parlare di un intenzionale riferimento da parte di un pittore al teatro tragico se non in presenza di alcuni elementi come architetture scenografiche, personificazioni astratte, nomi scritti accanto alle figure, personaggi secondari tipici del dramma – ma fra tutti questi il più probante sarebbe il palcoscenico (Pots&Plays 2015, 33).
Pertanto, per tentare di identificare un collegamento tra testo scenico e rappresentazione vascolare, Rebaudo chiama in causa l’anfora pseudo-panatenaica del Pittore di Varrese [Fig. 9], che presenta un dettaglio apparentemente riferibile a una messa in scena teatrale: la tomba dei Niobidi su cui la donna è seduta pare sostenuta da un esile palchetto con fregio dorico retto da tre colonnine ioniche, comune raffigurazione dei palcoscenici in età ellenistica. Rebaudo inoltre sottolinea come l’anfora pseudo-panatenaica, nell’adottare per il lutto di Niobe lo schema del ‘culto al sepolcro’ – con la donna seduta in mesta riflessione sulla tomba – costituisca un unicum rispetto al comune tipo iconografico usato nel IV secolo per lo stesso soggetto, cioè la ‘statua del defunto’, che vede l’eroina in piedi su un podio nel momento in cui sta per tramutarsi in pietra.
Manca però in Rebaudo, a maggior sostegno della sua tesi, il fatto che il vaso del pittore di Varrese, rispetto al campionario di IV secolo preso in considerazione – e perfino rispetto alla loutrophos di Napoli [Fig. 5] attribuita alla stessa bottega del Pittore di Varrese – costituisca un’eccezione assoluta anche nel soggetto rappresentato, ed effettivamente rappresenti un momento ancora diverso del mito di Niobe, l’unico che possa essere stato scelto con un’intenzionale allusione alla tragedia eschilea.
Gli altri vasi apuli, infatti, raffigurano una scena che, seppur influenzata in qualche modo dall’enfasi che Eschilo aveva conferito al momento del lutto rispetto a quello della strage – relegata all’antefatto –, non poteva in alcun modo rientrare nella messa in scena eschilea, se non per allusione prolettica: la pietrificazione di Niobe a causa del troppo dolore, già culmine patetico del racconto in Omero. Sulla scena il silenzio di Niobe poteva forse essere connotato metaforicamente dal Coro o dagli altri personaggi come una pietrificazione, ma i mezzi del teatro antico non permettevano nulla di più. Bisogna pertanto tenere distinti, nell’iconografia della ‘Niobe in lutto’ i due diversi soggetti della ‘pietrificazione di Niobe’ (che può essere collegata al dramma eschileo solo indirettamente, senza alcun legame con la messa in scena), e del ‘silenzio di Niobe’, proprio del Pittore di Varrese (l’hydria da Avella, Londra BM F 93, è con maggior probabilità riferibile a una generica scena di culto al sepolcro). Quest’ultimo, all’interno della tradizione apula di IV secolo, innova adottando uno schema iconografico generico (culto al sepolcro, donna in lutto, ploranti ai lati) per rappresentare Niobe in un periodo in cui l’immagine più diffusa per il personaggio mitico era quella della metamorfosi in pietra, riadattata dal tipo della statua del defunto.
Volendo poi applicare i criteri interpretativi e metodologici proposti per il Seminario Pots&Plays da Alessandro Grilli (Grilli 2015), la scelta del Pittore di Varrese risulta fortemente controtendenza, e difficile da comprendere senza tenere in considerazione il dramma eschileo e la sua risonanza. Grilli sottolinea le profonde differenze strutturali che oppongono gli intenti e gli strumenti semantici propri dell’immagine a quelli della poesia tragica: se l’una mira a raffigurare nella massima concentrazione spaziale e sincronica l’evento apicale di un mythos per un’immediata decodificazione, l’altra quasi rifugge i pathe in sé – gli eventi – per dare voce piuttosto ai pathemata, cioè alle risonanze emotive e dialettiche che gli eventi provocano nei personaggi. In questo senso, i vasi apuli di IV secolo soddisfano l’intento proprio della semantica visiva tanto quanto i vasi attici di VI e V secolo; ciò che cambia è soltanto che per gli uni l’evento apicale del mito di Niobe è la metamorfosi in pietra, laddove per gli altri era stata la strage. Il Pittore di Varrese, unica eccezione, sembra invece voler raffigurare un non-evento: il silenzio di Niobe e i tentativi dei due personaggi vicini di spingerla a parlare. Insomma, quella che Grilli chiama “stasi dialogica” e che segnala come indizio di una possibile intenzione del pittore di rappresentare non tanto, come da prassi, il mythos diffuso nell’immaginario collettivo al culmine dell’azione, quanto piuttosto una scena di dialogo tragico (come nel caso dell’anagnorisis di Edipo nel frammento di Siracusa), in cui l’azione coincide non col gesto ma con il dialogo tra i personaggi – qui paradossalmente un dialogo mancato.
Fatte queste considerazioni, è opportuno interrogarsi sul limite di affidabilità delle immagini vascolari ai fini di una ricostruzione di un dramma. Ad ogni modo, che il soggetto dei vasi apuli sia il silenzio di Niobe o la sua più concreta manifestazione in una metamorfosi litica, è di certo ricorrente in tutta la produzione magnogreca una costruzione ‘drammaturgica’ della scena che avrà avuto almeno un punto di contatto con la tragedia che possiamo già ricostruire dai frammenti: il momento del ‘dialogo a una voce’ di Tantalo (che, come abbiamo visto, è identificativo della Niobe di Eschilo e la distingue dall’omonimo dramma sofocleo e dalla versione di Il. XXIV)".
Per quanto riguarda gli altri personaggi la situazione è più controversa. Ad esempio, degli dèi che compaiono nella fascia superiore della loutrohos di Napoli, è Hermes quello che poteva essere più funzionale alla trama, mentre gli altri (Zeus, Latona, Artemide, Apollo) potrebbero essere stati inseriti dal pittore come allusione alle potenze divine che hanno determinato lo sviluppo delle vicende relegate all’antefatto, o più semplicemente in funzione ornamentale (si veda ad esempio l’inserimento di Artemide nei vasi su Oreste a Delfi la cui iconografia è riferibile all’Orestea, in cui pure la dea era assente; cfr. Bordignon 2015b, 171). Per quanto riguarda il personaggio dell’anziana donna (che sia la nutrice, la madre, o la suocera di Niobe), nell’iconografia sempre in posizione speculare alla figura di Tantalo, è da escludersi la sua partecipazione all’azione in un dialogo a tre personaggi, data l’arcaicità della tragedia. Dunque la sua presenza potrebbe dipendere da una mera convenzione pittorica, o dall’intenzione dei pittori di condensare più scene del dramma in un quadro sintetico. In molti vasi la donna è collocata di lato, in silenzio, come se si fosse arresa dopo reiterati tentativi di persuadere Niobe a parlare, mentre Tantalo pare appena giunto sulla scena, sostenuto da un giovane paggio: se questa costruzione volesse suggerire – come ci appare – una successione di eventi, andrebbe a confermare quanto ricostruito dall’analisi dei frammenti, cioè che Tantalo sarebbe l’ultimo interlocutore di Niobe. Giunto a Tebe per caso, in un primo momento non riconoscerebbe neppure la figlia velata e come pietrificata dal dolore: solo dopo un riconoscimento colmo di pathos riuscirebbe a convincere Niobe a parlare e a tornare con lui in Lidia, luogo dove si sarebbe compiuta concretamente la metamorfosi in pietra (Fitton Brown 1954).
4. Dalle immagini al contesto
Ricapitolando, gli studi più recenti hanno messo in luce come le modifiche nella rappresentazione del mito di Niobe siano da considerarsi in parte interne alle logiche della techne pittorica, e non derivate da un fattore esterno a essa quale l’allusione intenzionale a uno specifico dramma. La pietrificazione di Niobe, nel tipo della donna in lutto caratterizzato dalla universale Pathosformel della mano poggiata sul mento, deriva quindi da una tradizione iconografica già ben consolidata. Tuttavia lo scarto nella raffigurazione di Niobe, l’adozione di un pur tradizionale tipo iconografico per un soggetto nuovo, innegabilmente esiste, ed è il caso di interrogarsi sul motivo.
Certo, uno dei fattori può essere individuato nella committenza: la rappresentazione di Niobe come mater dolorosa era perfetta per le attese per la destinazione funeraria di una facoltosa donna magnogreca più della scena della strage, in quanto maggiormente funzionale a scopi di autorappresentazione sociale (era già, pressappoco, la tesi di Keuls 1978 di cui sopra). Questo varrà sia per la rappresentazione del “silenzio di Niobe” (pittore di Varrese, Fig. 9), sia quella della “pietrificazione” [Figg. 3-8], che pure potrebbe essere connesso alla tragedia eschilea ma – come abbiamo detto – solo indirettamente. Certo non si può escludere che l’occasione per proporre questa nuova forma maggiormente adatta alle necessità della committenza scaturisca dalla tragedia, anch’essa elemento di un certo status symbol, e nello specifico da una tragedia che probabilmente, pochi decenni prima dello scarto iconografico registrato da Rebaudo, aveva destato grande scalpore presso il pubblico.
Ad ogni modo, se tra la Niobe eschilea e le Niobi apule di IV secolo è da istituire un rapporto di dipendenza, è necessario trovare anche un aggancio plausibile dal punto di vista cronologico.
Se infatti è stata la tragedia eschilea a segnare in modo indiretto la fortuna della pietrificazione di Niobe, e in modo probabilmente più diretto la scena del silenzio, questo non può essere avvenuto in seguito alla prima messa in scena. Eschilo chiude la sua carriera nel 458 a.C., ma ancora nel V secolo l’evento chiave del mito di Niobe è rappresentato dalla strage dei figli (si vedano il cratere del Pittore dei Niobidi, lo skyphos frammentario di Bonn, la coppa vulcense del Pittore della Phiale). La Niobe eschilea, pertanto, non sembra aver avuto un forte impatto sul pubblico ateniese in seguito alla sua prima messa in scena nella prima metà del V secolo.
Eppure nel 405, nelle Rane di Aristofane, si fa riferimento al carattere assolutamente atipico della tragedia, in cui il personaggio eschileo di Niobe (alla pari dell’Achille dei Mirmidoni e nei Frigi; cfr. Nauck, T.G.F., s.v. ΜΥΡΜΙΔΟΝΕΣ) è ricordato per il suo mutismo e la staticità. Citazioni della Niobe le troviamo anche nella Repubblica di Platone (Rp. II 380a; III 391e). Rane e Repubblica sono sotto questo rispetto accomunate da una serie di fattori da tenere in considerazione: Aristofane e Platone, nati rispettivamente nel 450 ca. e nel 428/7 a.C. non avevano certamente assistito ad alcuna messa in scena originale di tragedie eschilee. Eppure entrambi gli autori citano alcune di esse con una certa vividezza: Orestea, Persiani, Niobe, Mirmidoni e, con particolare predilezione, Sette contro Tebe (quest’ultima Platone la cita verbatim tre volte – in Rp. 361b, 362b, 550c – rendendola la tragedia più citata dell’intero suo corpus di scritti). Certo si può pensare a una conoscenza dei testi scritti che intellettuali come Aristofane e Platone avrebbero potuto reperire. Però tanto la parodia delle Rane quanto la polemica della Repubblica non avrebbero sortito alcun effetto se anche il pubblico non avesse avuto presente l’ipotesto di riferimento. Ipotesto che il pubblico avrebbe potuto conoscere direttamente solo se, come pare possibile ricostruire da fonti e scolii, le tragedie di Eschilo fossero state riportate in scena per decreto statale dopo la morte del tragediografo.
Dunque, è vero che il mutamento nell’iconografia di Niobe è legato all’omonimo dramma eschileo, ma non già alla ‘prima’ di quel dramma, quanto piuttosto a una sua ripresa. Quindi l’iconografia del ‘silenzio di Niobe’ potrebbe dipendere da una replica avvenuta negli ultimi decenni di V secolo. Ma perché la Niobe eschilea, nella sua prima messa in scena, non ebbe il medesimo impatto sull’immaginario collettivo? Potrebbe trattarsi di un caso. Ma un motivo plausibile potrà essere ravvisato nella mutata sensibilità del pubblico.
Lo stizzoso silenzio di Achille e Niobe, la loro arcana staticità, potrebbero non costituire un consapevole tratto stilistico dell’aulica drammaturgia eschilea, come apparirebbe da una prima lettura delle Rane, dove il personaggio di Euripide definisce questi suoi escamotages come un “imbroglio da ciarlatani” (ἀλαζὼν, v. 909 e ὑφ᾽ἀλαζονείας, v. 919). Probabilmente al pubblico della ‘prima’ invece il carattere di questi personaggi e il loro atteggiamento in scena non era apparso per nulla stigmatizzabile. Appartenenti a una cronologia alta della produzione drammaturgica di V secolo, i protagonisti di Eschilo avevano da poco fatto un passo fuori dal coro. Le difficili interazioni tra Coro, primo attore e secondo personaggio dialogante, che l’Euripide aristofaneo liquida come una voluta ‘furbizia’ di Eschilo, molto più probabilmente sono da attribuire a uno stadio embrionale di sviluppo del secondo attore. Se la tragedia nasce quando il conduttore del coro diventa solista, e replica ‘prosaicamente’ (in giambi) al canto corale, il passo successivo consiste nella trasformazione di questo primo attore in una sorta di ‘fantoccio’ (se è da tradurre così il πρόσχημα di Rane 913), e l’assegnazione della parte dialogata a un deuteragonista che tenta di convincere, in sinergia con il coro, il fantoccio protagonista a prendere vita.
È chiaro che questa dimensione embrionale, per non dire ancora inesistente, del dialogo tragico, calato nella realtà della fine del V secolo, dinanzi a un pubblico ormai abituato a dibattiti sofistici, e a sapientemente orchestrati dialoghi a tre, al mosso dinamismo delle tragedie ‘a intrigo’ dell’ultimo Euripide, avrà avuto un effetto di forte straniamento: gli Ateniesi avranno stentato a riconoscere come ‘azione drammatica‘ ciò che vedevano sulla scena. In questo senso a fare mito non è di per sé la Niobe di Eschilo, ma il suo ritorno sulla scena ateniese alla fine del V secolo: una Niobe così statica da diventare l’emblema di un dolore che pietrifica. E se la pietrificazione di Niobe (che a questo punto possiamo immaginare come proverbiale) si impone nel IV secolo come momento chiave del mito di Niobe non solo in seguito a, ma anche a causa di una replica eschilea, questo può essere testimoniato dal caso atipico del Pittore di Varrese, che avrà ritenuto sufficiente a raffigurare il dolore di Niobe il non-evento scenico del silenzio, preferendolo all’evento extrascenico e metaforico della pietrificazione.
Forse in questo senso la tragedia può essere veramente pensata, come vorrebbe Taplin, come ipotesto necessario ad ‘arricchire’ la fruizione e la comprensione della raffigurazione vascolare: era la staticità per antonomasia della tragedia eschilea a conferire all’immagine dell’anfora tarantina la potenza icastica che altrove poteva essere data solo l’immagine della pietrificazione. Ciò in virtù di una rappresentazione arcaica così radicalmente distante dal nuovo gusto del pubblico, da poter suggestionare anche l’arte coeva. In tal senso, non si sbagliava davvero il personaggio di Eschilo delle Rane quando asseriva che la sua poesia non era morta con lui. Non era morta, e continuava a fare un effetto – magari in senso negativo – sul pubblico. Continuava a ‘fare mito’.
Riferimenti bibliografici
- Bordignon 2015
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A.C. Pearson, The Fragments of Sophocles, Edited With Additional Notes From the Papers of Sir R.C. Jebb and W.G. Headlam, volume II, Cambridge [1917] 2009. - Keuls 1978
E. Keuls, Aeschylus’ Niobe and Apulian Funerary Symbolism, “Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik”, Bd. 30 (1978), 41-68. - Pennesi 2008
A. Pennesi, I frammenti della Niobe di Eschilo, Amsterdam 2008. - Pots&Plays 2015
Seminario Pots&Plays (a cura di), Pots&Plays. Teatro attico e iconografia vascolare: Appunti per un metodo di lettura e di interpretazione, in Scene dal mito. Iconologia del dramma antico, a cura di G. Bordignon, Rimini 2015. - Rebaudo 2015
L. Rebaudo, Il tema di ‘Niobe in lutto’, in Scene dal mito. Iconologia del dramma antico, a cura di G. Bordignon, Rimini 2015.
English abstract
Scholars have pointed out already that the iconography of Niobe’s grieving in Magnogrecian pottery seems to have been influenced by Aeschylus’s rendition of the myth. Such influence, though, occurs no earlier than the 4th century BC, decades after Aeschylus’s death, and therefore his plays’ first staging. The purpose of this paper is to investigate the reasons of such a delay on the cultural impact of Aeschylus’s Niobe, by surmising a transformation in its reception due to the change of the public’s aesthetic taste.
keywords | Niobe, mythology, Magnogrecian pottery, Aeschylus, iconography.
Per citare questo articolo/ To cite this article: A. Tisano, Niobe in lutto: dipingere il silenzio. La fortuna iconografica della versione eschilea nella ceramica magnogreca di IV secolo, “La Rivista di Engramma” n. 152, gennaio 2018, pp. 11-33 | PDF