Architetture dell’eco
Vincenzo Scamozzi e Athanasius Kircher, alle origini della scienza acustica
Elisa Bastianello
English abstract
Aristotele, Vitruvio e i fondamenti dell'acustica architettonica
Nel De architectura, l’unico trattato di architettura pervenutoci dall’antichità, Vitruvio parla in più occasioni delle qualità acustiche degli spazi. Sebbene, come vedremo, almeno alla metà del XVIII secolo l’acustica non esista ancora né come scienza né come definizione (e anche l’uso del termine in questo articolo è tecnicamente anacronistico), il problema della relazione fra spazi e suoni era ben chiaro nella mente del trattatista, ma era un tema attinente all’ambito degli studi musicali. Fra le conoscenze necessarie all’architetto che Vitruvio elenca nel libro I, quella della musica è raccomandata in quanto si applica a vari ambiti, dall’uso corretto delle proporzioni armoniche alla messa a punto delle macchine da guerra, fino all’intonazione dei vasi acustici nei teatri. Anche se nel testo del trattato latino non è possibile identificare un capitolo dedicato specificamente all’‘acustica’, quando sono richiamati i principi relativi alla trasmissione, propagazione e riflessione dei suoni (e rumori) nello spazio, essi sono identificati e applicati a fini squisitamente architettonici: si trovano soprattutto nel libro V dedicato agli edifici pubblici e in particolare ai teatri. Il trattato vitruviano fornisce informazioni sulla propagazione del suono nello spazio in forma sferica (De arch. V, 3), ma anche sulle diverse forme di interazione del suono con le pareti.
Peraltro, le proprietà riflessive delle superfici compatte e lisce o quelle assorbenti di materiali come lana e spugna non costituivano certo una novità; erano infatti già state evidenziate da Aristotele nel De Anima laddove, dedicando un intero capitolo all’acustica e all’eco, proponeva un parallelo con una palla che rimbalza o, metafora più convincente, con la luce che è sempre luce riflessa e che si definisce grazie alla sua ombra:
ὥσπερ δ' εἴπομεν, οὐ τῶν τυχόντων πληγὴ ὁ ψόφος· οὐθένα γὰρ ποιεῖ ψόφον ἔρια ἂν πληγῇ, ἀλλὰ χαλκὸς καὶ ὅσα λεῖα καὶ κοῖλα· [...] ἠχὼ δὲ γίνεται ὅταν, ἀέρος ἑνὸς γενομένου διὰ τὸ ἀγγεῖον τὸ διορίσαν καὶ κωλῦσαν θρυφθῆναι, πάλιν ὁ ἀὴρ ἀπωσθῇ, ὥσπερ σφαῖρα. ἔοικε δ' ἀεὶ γίνεσθαι ἠχώ, ἀλλ' οὐ σαφής, ἐπεὶ συμβαίνει γε ἐπὶ τοῦ ψόφου καθάπερ καὶ ἐπὶ τοῦ φωτός· καὶ γὰρ τὸ φῶς ἀεὶ ἀνακλᾶται (οὐδὲ γὰρ ἂν ἐγίνετο πάντῃ φῶς, ἀλλὰ σκότος ἔξω τοῦ ἡλιουμένου), ἀλλ' οὐχ οὕτως ἀνακλᾶται ὥσπερ ἀφ' ὕδατος ἢ χαλκοῦ ἢ καί τινος ἄλλου τῶν λείων, ὥστε σκιὰν ποιεῖν, ᾗ τὸ φῶς ὁρίζομεν.
Come abbiamo detto, non tutte le cose che vengono colpite emettono suono; ad es. la lana se viene battuta non produce alcun suono, come invece il bronzo e in generale tutte le cose che sono lisce e compatte [...]. L’eco si produce quando una massa d’aria viene fatta rimbalzare da altra aria che fa massa perché è all'interno di una cavità che la limita e ne impedisce la dispersione, come fosse una palla. A quanto pare l’eco si produce sempre, ma non sempre è udibile. Quello che accade al suono pare essere analogo a ciò che accade alla luce: la luce è sempre riflessa (altrimenti la luce non sarebbe diffusa ovunque, ma al di fuori di ciò che è illuminato dal sole ci sarebbe ombra); ma la luce non si riflette allo stesso modo in cui viene riflessa dall’acqua, dal bronzo e da altre superfici lisce; cosicché non sempre produce l’ombra, che è il segno che definisce la luce (Arist. De An. II, 8).
Invece, l’attenzione di Vitruvio non si limita alla speculazione teorica sulla generazione dei suoni, ma si concentra sulle applicazioni architettoniche di questi effetti. Parlando dei tribunali, per esempio, nel De architectura si cita esplicitamente la necessità di inserire a metà altezza delle pareti delle cornici, con lo scopo preciso di evitare che le voci delle persone che discutono si disperdano in alto, rendendo difficoltosa la comprensione fra i presenti (De arch. V, 2). Stessa funzione avranno anche i portici da realizzare in cima alle gradinate dei teatri (summa in cavea), che saranno indispensabili non solo per trattenere la musica presso gli spettatori, ma anche per rinforzarla come una cassa di risonanza. Secondo Vitruvio la stessa forma semicircolare della cavea è la migliore per accogliere il suono nella sua espansione sferica (De arch. V, 3).
La forma della propagazione del suono nello spazio, che viene introdotta con l’immagine delle onde create sulla superficie dell’acqua ferma di uno stagno da un sasso che vi viene gettato, ha anch’essa una tradizione molto più antica. Secondo i Placita philosophorum pseudo-plutarchei (una silloge che ebbe ampia diffusione nel Cinquecento, a partire dalla traduzione latina di Guillaume Budé del 1506), la metafora sarebbe stata coniata già nell’ambito della filosofia stoica, tra il III e il I secolo avanti Cristo (Ps. Plut. Plac. 4.19)
Vitruvio corregge la metafora precisando che “vox et in latitudine progreditur et in altitudinem gradatim scandit” (De arch. V, 3.7), ovvero la sua espansione avviene nelle tre dimensioni come in una sfera. Le stesse gradinate devono essere realizzate in modo che sia possibile tracciare una retta tangente a tutti gli spigoli, proprio per evitare che interrompano l’ascesa del suono verso l’alto e verso la porticus in summa cavea che raccoglie e rimanda verso gli spettatori quanto è arrivato dalla scena (De arch. V, 3.6).
Secondo l’architetto romano è possibile dividere in quattro categorie gli spazi, proprio a seconda del modo in cui influenzano i suoni: luoghi “dissonanti”, dove il suono riverberato dalle superfici vicine impedisce la comprensione; “circumsonanti”, dove la voce gira intorno fino a disperdersi prima di arrivare alle orecchie troncata; “risonanti”, cioè con eco che rimanda le ultime sillabe; e infine “consonanti”, nei quali il suono viene amplificato e giunge distintamente alle orecchie degli ascoltatori. Questi ultimi sono a suo avviso quelli da ricercare per la realizzazione degli spazi teatrali, dato che per loro natura sono in grado di amplificare i suoni e migliorare l'ascolto (De arch. V, 8).
I vasi acustici di Vitruvio
Un elemento caratteristico citato da Vitruvio per migliorare l’acustica dei teatri è costituito dall’uso dei ‘vasi echei’. L’amplificazione del suono nei teatri prevede l’uso dei vasi risuonatori, ἠχεῖα o echeia, gli speciali vasi in bronzo intonati, come potrebbero essere le campanelle in un carillon, in modo da risuonare e amplificare ciascuno una specifica frequenza armonica, alloggiati tra le gradinate in apposite nicchie (De arch. V, 5). Per questa ragione un intero capo del libro V del trattato vitruviano si può considerare una parafrasi di parte degli Ἀρμονικά (Elementi di armonia) di Aristosseno da Taranto, filosofo e compositore greco del IV secolo a.C.
I vasi risuonatori erano, già al tempo di Vitruvio, oggetti pressoché leggendari: nel trattato sono ricordati quelli portati da Lucio Mummio dopo la distruzione del teatro di Corinto, e si dà ragione della loro assenza all’interno dei teatri contemporanei per l’abbondanza dell’uso di legno impiegato nella tecnica costruttiva romana. Non si registra alcuna evidenza archeologica di vasi in bronzo nei teatri greci o romani, ma sono state individuate in alcuni di essi cavità in cui avrebbero dovuto essere alloggiati e almeno in un caso, a Gioiosa Ionica, sono stati trovati vasi di terracotta (Arns, Bret 1995, 188).
L’uso di vasi in bronzo o terracotta per migliorare l’acustica non è un espediente tecnico circoscritto ai teatri greci. In epoca medievale esistono numerosi casi di chiese dove sono stati ritrovati vasi fittili inseriti nelle pareti, in particolare nelle volte del coro, posti con l’imboccatura aperta verso lo spazio interno, evidentemente per migliorare l’acustica dell’edificio (cfr. Arns, Bret 1995). La loro introduzione, forse direttamente influenzata dal testo vitruviano, viene confermata da alcuni testi come, nel 1432, la famosa Chronique des Célestins de Metz. Secondo la cronaca, Ode le Roy “fit et ordonnoit de mettre les pots au cuer, portant qu’il avait vu altepart en aucune église et pensant qu’il y fesoit milleur chanter et que il ly resonneroit plus fort” (Metz, Bibl. Mun. Ms 833, c. 133, cit. in Valière, Palazzo-Bertholon, Polack, Carvalho 2013, 74) [Fig. 1].
La questione dei vasi risuonatori venne accolta con reazioni diverse dai teorici dell’architettura che si confrontarono con il testo vitruviano. Leon Battista Alberti, laddove, sulla scorta di Aristotele, confermava l’effetto di amplificazione ottenuto grazie a corpi cavi e l’importanza della loggia per non disperdere le voci all’interno della cavea, per quanto riguarda il dettaglio dell’intonazione armonica trattava la notizia vitruviana con sarcasmo:
In pariete aut circumvallationis quod columnis substitutus sit: quem eundem suggestum appellamus / adaperientur vada infimis itionibus in theatro ad perpendiculum respondentia: aptisque istiusmodi et parilibus locis formabuntur scafi: quibus si libeat ænea vasa inversa pendeant: ut eorum percussu vox cum eo appulerit reddatur sonorior. Hic illa Vitruvii non prosequar: quæ ex musicorum partionibus sumpta ad quorum rationes per theatrum disponi præcipiebat vasa / quæ principales et medias et superexcellentes voces atque consonantes referrent: dictu quidem res perfacilis: sed quam id assequire in promptu sit / novere experti. Illud tamen non aspernabimur: quod etiam Aristoteli persuadetur. Vasa quæ vis vacua etiam et puteos conferre ut resonet vox. Redeo ad porticum ipsam circumuallationis. Hæc quidem porticus parietem habent posticum integrum: quo quidem tota vallatio circumclauditur: nequid eo appulsæ voces effundantur (Alberti 1485, UIIIv, UIIIIr).
Ma nel muro della loggia di dentro che è sotto le colonne, il quale chiamano sponda si aprirranno certi vani, corrispondenti a punto a vani delle entrate di sotto nel Teatro, con i lor piombi, & in cosi fatti luoghi si faranno zane uguali & accommodate l’una a l’altra, nelle quali piacendoti collocherai volti con la boccha allo ingiù vasi di rame, accioche riverberando in essi le voci diventino piu sonore. Io non starò qui ad andar dietro a quelle cose di Vitruvio, le quali son cose che si cavano dalle divisioni, & da componimenti de Musici, secondo le regole de quali, ei voleva che ne Theatri si collocassino i prefati vasi a proportione che corrispondessino alle voci piu gravi, alle mezane, & alle piu acute; cose forse certo facili a dirle, ma in che modo si potesse fare una cosa simile lo sà chi ne hà fatta esperienza. Ma non mi dispiacerà gia, si come ancor’ pare ad Aristotile il credere che i vasi voti di che sorte tu ti voglia, & i pozi ancora giovano a risonarvi dentro le voci. Ma torniamo alla loggia di dentro del Theatro, questa loggia harà il suo muro di dietro intero per tutto, il quale fa attorno serraglio, accioché le voci arrivando quivi non si perdino (Alberti 1565, 301).
Note sull'acustica negli studi di Leonardo da Vinci
Tornando ai principi della propagazione e riflessione del suono nello spazio, le prime raffigurazioni grafiche dell'espansione sferica del suono e della riflessione sulle superfici sono in disegni di mano di Leonardo da Vinci. L’ipotesi prevalente è che si tratti di schizzi relativi a un trattato sulla musica mai completato, databili tra gli anni '80 e '90 del Quattrocento (v. Winternitz 1982; Solmi 1906). Fra gli schizzi, spiccano quelli per la realizzazione di spazi per l’ascolto, come nel codice B di Parigi che raffigura i “teatri per uldire messa” (Paris, Institut de France, in seguito IdF, Cod. B (ms. 2173) fol. 55r [Fig. 2]), una curiosa commistione tra una chiesa a croce greca e tre gradinate semicircolari; e i “teatri da predicare” (IdF, Cod. B (ms. 2173) fol. 52r [Fig. 3]), o, infine il “locho dove si predicha” (IdF, Ashburnham B, ms. 2184 f. 5r [Fig. 4]). Altri esempi sono quelli nel Codice Atlantico, dove Leonardo studia la “voce dell’echo” e richiama il parallelo fra la riflessione del suono e quella della luce introdotta da Aristotele, ampliandolo con il confronto con la diffusione degli odori e del magnetismo (Biblioteca Ambrosiana, Codice Atlantico, c. 347r [Fig. 5]).
Ma ancora più interessante è lo schizzo raffigurante un suonatore di corno (IdF, Cod. B (ms 2173) fol. 90v [Fig. 6]) tra due pareti costruite per ripetere e moltiplicare l’eco prodotta dal suono dello strumento:
Come si debe fare la voce d’eco, che per ogni cosa, che tu dirai, ti sarà molte voci risposto. Braccia 150 da l’uno all’altro muro: la voce ch’esce del corno si forma ne la contrapposta parete, e di lì, risalta alla seconda, e dalla seconda alla prima, come una bal[l]a, che balza fra due muri, che diminuisce i balzi, e così diminuissce la voce. La voce, partita da l’omo e ripercossa ne la pariete, fuggirà di sopra, se arà ritenaculo di sopra a essa pariete con angolo retto; la faccia di sopra, rimanderà la voce inver la sua cagione.
Dall’armonia dei suoni all’armonia degli spazi: il “Memoriale” di Francesco Zorzi
I riferimenti all’armonia musicale evocati per i “vasi echei” si arricchiscono nel Cinquecento di una valenza ulteriore: si ritiene infatti che possano essere usati anche per il proporzionamento degli edifici. Così, se guardiamo al testo del Memoriale scritto da Francesco Zorzi nel 1535 a proposito del progetto di Jacopo Sansovino per la chiesa di San Francesco della Vigna a Venezia (Tessier 1886; Wittkower [1949] 1964, 102-106; Foscari, Tafuri 1983, Magagnato 1985), ogni rapporto tra le parti viene denominato con il termine che indica la corrispondente proporzione armonica:
Né giudico ispediente, che la sii di quella medema larghezza, ch’è il corpo, il qual non degge passar (siccome habbiamo detto) il 27; ma che la sii di 6 passa, come un capo aggionto sopra il corpo proportionato con la larghezza della Chiesa di una sesqualtera, che rende il diapente una delle celebrate harmonie. Et perché communemente gli Architetti luodano la simetria della Capella col corpo, in rispetto alla larghezza, è una proportione quadrupla che fa un bisdiapason, harmonia consonantissinia. Dalla quale simetria non si partirà il choro: il qual sarà in lunghezza di altri 9 passa, et arriverà. alla proportione quinclupa io rispetto alla larghezza, che ne fa la bellissima harmonia di bisdiapason et diapente. La larghezza veramente delle Capelle sarà di 3 passa, in proportione tripla col corpo della Chiesa, et rende un diapason et diapente, et colla larghezza della Capella grande sarà dupla, che da il diapason. Ne mancherà di proportione con le altre Capelle, che saranno appresso la Capella grande con li suoi scontri. che soranno di 4 passa. In proportione sesquiterza. che rende il diatessaron. proportione celebrata. Per muodo che tutte le misure del piano, si in lunghezza, come in larghezza saranno consonantissime; et per forza daranno diletto a chi le veggiara, salvo se li loro occhi non fosseno oblichi, et disproportionati (Tessier 1886, 74-75. Si è preferita questa trascrizione alle successive in quanto l’unica basata su copia manoscritta dell’originale perduto).
Lo Zorzi accenna anche ai diversi tipi di copertura e alle conseguenze che hanno sui suoni, in particolare alla differenza tra volte, travatura lignea (contignatione) e cassettoni (sfondri):
Il volto luodo che si facci in tutte le Capelle et nel choro: imperocché il dir, o cantar dell'ufficio. meglio rimbomba nel volto che nella travadura. Ma nel corpo della Chiesa, ove si ha a predicare (conciosiiché le prediche non riescino, né s’intendino nelli volti) luodo la contignatione. Ben lo vorrei in quadri sfondrati al più che si può, con le suo misure et proportioni pero [...]. Et questi sfondri li luodo, fra le altre ragioni. per esser molto convenevoli al predicare; il che sanno li periti dell’Arte, et l’esperienza il comprobarà (Tessier 1886, 75).
Il Memoriale venne sottoscritto oltre che dal Sansovino, che si impegnava a rispettarlo nella continuazione del cantiere, anche da Sebastiano Serlio e da Tiziano Vecellio, diventando una specie di manifesto della buona architettura, come rileva e sottolinea in particolare Manfredo Tafuri nella sua analisi della chiesa di San Francesco (Foscari, Tafuri 1983).
L’utilizzo di proporzioni armoniche nella progettazione degli edifici fece scuola in modo particolare nell’architetto chiamato a completare la facciata di San Francesco della Vigna, Andrea Palladio (Howard, Longair 1982). L’idea è condensata nel prologo al IV libro del suo trattato, I quattro libri dell’architettura, dove afferma
Siamo tenuti a fare in loro tutti quelli ornamenti che per noi siano possibili & in modo e con tal proportione edificarli che tutte le parti insieme una soave armonia apportino agli occhi de riguardanti & ciascuna da per sé all’uso al quale sarà destinata convenevolmente serva (Palladio 1570, IV, 3).
Purtroppo Andrea Palladio non pubblicò mai la parte del suo trattato relativa ai teatri che aveva promesso nell’introduzione (Palladio 1570, I, 6): ancora nel 1743 Francesco Muttoni scriveva nel libro IV dell’Architettura di Andrea Palladio che “la raccolta delli teatri [...] è arrivata fortunatamente fra le mie mani, sarà la materia del tomo undicesimo” (Muttoni 1743, VII; la pubblicazione si fermò all'ottavo, mentre il nono uscì postumo). Non abbiamo quindi sufficienti notizie relative alle sue conoscenze di acustica. Sicuramente egli aveva compiuto studi approfonditi sul Teatro Berga di Vicenza [Fig. 7], che menziona in più passaggi nei Quattro libri, ma che compare anche nel commento al testo vitruviano scritto da Daniele Barbaro (Barbaro 1567, 259). Allo stesso Barbaro dobbiamo uno dei commenti più accurati sull’applicazione armonica dei vasi risuonatori, grazie anche alle approfondite conoscenze musicali del commentatore veneziano (sul pensiero scientifico di Barbaro, v. Sanvito 2012, Id. 2016, 245-308). Fra le notazioni interessanti si veda la seguente:
Quelli vasi adunque non solo facevano la voce più chiara, ma rendevano anche consonanza, & melodia. Ma bisogna bene considerare come erano tocche accioché suonassero: io non so come la voce de recitanti potesse fare quello effetto: & se pure ella lo facesse, come que’ vasi rispondessero, se forse finché la voce fusse in consonanza con que’ vasi, come suole una corda di uno liuto moversi quando un'altra corda d'un' altro liuto è tocca, & è della medesma consonanza (Barbaro 1567, 245).
Tornando a Palladio, le sue capacità di creare spazi dalle grandi qualità acustiche sono confermate dal Teatro Olimpico di Vicenza, ma anche dall’acustica delle sue chiese veneziane (Baumann 2006; Bonsi 2006; Callegaro 2006). Tuttavia, non è possibile affermare che le sue conoscenze avessero altra base teorica al di là delle nozioni tratte da Vitruvio: infatti, l’unica occasione in cui parla esplicitamente della relazione tra architettura e suono è il passo dei Quattro Libri dove riporta il consiglio di Vitruvio di utilizzare le cornici per rimandare il suono verso il basso (Palladio 1570, 31-32).
Vincenzo Scamozzi e L’idea dell’architettura universale
Possediamo invece molte più informazioni sul pensiero teorico dell’architetto chiamato a completare lo stesso Teatro Olimpico, Vincenzo Scamozzi. L’architetto vicentino, che intende “trattare dell’Architettura scientia” (Scamozzi 1615, I, 2 [20]), inizia il suo trattato L’idea dell’architettura universale elencando, al pari di Vitruvio, le varie scienze, in modo da far capire al lettore che tipo di scienza sia l’architettura. Le altre scienze, dunque, e la musica in particolare, non vengono convocate soltanto come conoscenze tecniche necessarie all’architetto per svolgere il suo lavoro, ma per dimostrare che l’architettura è “fra le scientie ... degnissima” (Scamozzi 1615, I, 5 [30]) in quanto le altre discipline “la subalternano”: il rimando diretto è all’affermazione di Vitruvio nel primo libro del suo trattato, secondo cui l’architettura è una scienza ornata da molteplici discipline (De arch. I, 1). I primi due capitoli del primo libro vengono interamente dedicati a una digressione teorica volta a dimostrare proprio la scientificità dell’architettura e la sua preminenza sugli altri saperi.
Ma l’importanza della conoscenza della musica ritorna poche pagine più avanti nel capo VII, quando Scamozzi parla effettivamente “delle erudizioni e delle discipline necessarie all’architetto” proprio nei termini della valutazione degli aspetti di acustica ambientale:
E finalmente la Musica, ci da le ragioni delle consonanze; e disonanze delle voci, e di suoni, e di conoscer i luoghi naturali, & artificiali, peccanti, fuori delle consonanze: onde con questa conoscenza, molte volte l’Architetto può ovviare l’imperfettione ne’ Theatri, e nelle Basiliche, e luoghi, da dispute, & anco ne’ tempi, & altre molte cose che non raccontiamo (Scamozzi 1615 I, 23).
Ma anche se la prossimità con Vitruvio è certa, Scamozzi non indugia sulla disposizione dei vasi echei dei teatri, né del temperamento delle baliste o della costruzione degli organi idraulici. Per Scamozzi la musica è la scienza grazie alla quale l’architetto può “ovviare l’imperfettione” degli ambienti in cui è importante che si possa sentire bene. Il ragionamento, pertanto, non si limita ai teatri o ai luoghi per la musica, ma a tutti gli edifici in cui è importante poter sentire con chiarezza (ed è un pensiero già condiviso da Vitruvio). Nella lista vengono inclusi i templi, le basiliche, e i luoghi per le dispute (tribunali e sedi di consigli); mentre però i “luoghi per le dispute” sono spazi in cui non si dovrà udire altro che parole, nel caso degli edifici sacri in elenco si tratta di veri e propri ambienti musicali: nella seconda metà del Cinquecento, infatti, buona parte dei riti religiosi erano cantati o salmodiati.
Ma anche sul piano metaforico, per Vincenzo Scamozzi la musica fornisce un buon parallelo per descrivere l'armonia che deve esistere tra le parti:
Nella proportione delle parti fà bisogno, ch’elle siano convenevoli, e corrispondenti al tutto, e che possano servire al bisogno; si che elleno disposte sian bene a’ luoghi loro; & in modo che facciano bella armonia [...]: & in guisa tale, che dal concerto, che fanno le parti, con tutto il corpo, come le voci nella musica, ne risulta poi la venustà, e leggiadria; la quale apporta la somma lode di tutta l’opera (Scamozzi 1615, I, 78).
È bene osservare che l’autore non parla affatto di applicare le proporzioni armoniche agli edifici, ma solo di cercare fra le parti che lo compongono, l’ordine e l’ornamento, una disposizione “conveniente” e appropriata, curando di trovare il giusto equilibrio tra la qualità dei materiali e delle lavorazioni e un “decente prezzo”.
Un’altra osservazione relativa al suono si può ritrovare nel libro II quando, parlando della qualità dell’aria, Scamozzi appunta una sua nota molto fine:
Sentiamo all’orecchio s’egli (l’aria) si move, e và à questa parte, ò à quell’altra, per mezzo dell’armonie, e voci. E del moto de’ stromenti bellici, e delle campane: i quali si sentono meglio orizontalmente, che ad'altro modo; se però l’aere non è alterato dai venti; come si pruova anco ne’ luoghi, che fanno l’Echo (Scamozzi 1615, I, 134).
Gli esempi portati dall’autore sembrano essere in relazione con gli scritti di Leonardo da Vinci dove, fra le altre annotazioni, esistono studi specifici sui suoni dei colpi di bombarda o delle campane. Anche se i testi di Leonardo non vennero stampati, sappiamo che Scamozzi possedeva almeno “un libretto [...] scritto alla mancina” di cui parla in una annotazione delle Vite del Vasari (Collavo 2005, n. 190, cit. in Isard 2014, 51), il che rende plausibile che lo Scamozzi per queste sue note prendesse spunto dal pensiero leonardesco.
Alla fine del primo volume del trattato, un intero capitolo viene dedicato allo studio dell’eco e degli spazi particolarmente interessati dal fenomeno (Scamozzi 1615, I, 328-330: “De’ portici, gallerie, luoghi da passeggi, Ventidoti, & altri luoghi per delitie, e de quelli, che rendono l’Eccho”). Troviamo qui un sommario elenco delle antiche teorie filosofiche sulla natura dell’eco, dando credito ad Aristotele, con un riferimento anche a Plinio, secondo cui essa è semplicemente “una ripercussione fatta dall’aere e manifesta al senso, ò di suono, ò di voce" causata dagli ostacoli che in natura o in particolari edifici “rompono l’Aria”.
Da notare che, in questo tipo di valutazione, l’eco non è un fenomeno negativo, ma un effetto curioso e interessante: vari esempi tratti da testi degli storici dell’antichità, relativi a sistemi difensivi e torrioni che potevano comunicare rapidamente fra loro grazie alla riflessione dei messaggi da una postazione all’altra, o quelli di echi multipli ben distinti in alcuni luoghi della Grecia (da Plinio Nat. Hist. 36.23) e contro le superfici delle piramidi (da Ps. Plut. Plac. 4.20), sono affiancati a esempi verificabili dal lettore, alcuni legati a edifici romani come il “Circo di Caracalla” (il nome del circo di Massenzio in epoca tardo medievale) o la Tomba di Cecilia Metella a Roma. Non mancano citazioni relative a edifici contemporanei: nei casi di Palazzo Te a Mantova e del Tempietto rotondo di Villa Barbaro a Maser, Scamozzi non parla più di eco in senso proprio, ma di qualità diversa dell'ascolto in punti diversi dello stesso luogo. In questi luoghi, a detta dell’autore, la possibilità di sentire distintamente in lontananza un oratore che non si può percepire da vicino è la dimostrazione palese del fatto “che la voce sia portata da’ giri dell’Aria”, associata alle caratteristiche fisiche di questi ambienti, “perche le mura, e la volta, sono schitte, e senza cavi, e sfondri, & a fenestre chiuse, con vetri, dove l’Aria non può uscire”.
Il concetto di eco è per lo Scamozzi, come per altri trattatisti del suo tempo, molto ampio e comprensivo: per dimostrare che l’effetto-eco è influenzato dalla direzione del vento, prende il caso del Campanile di San Marco, le cui campane risuonerebbero – con un “Echo molto chiaro e sonoro” – al suono della Torre dell’Orologio, quando il vento soffia da tramontana, quando cioè il vento va proprio dalla Torre in direzione del Campanile. E l’esempio del Campanile di San Marco, che Scamozzi afferma di aver verificato di persona, gli serve come spiegazione anche del funzionamento dei “vasi echei” che, secondo la testimonianza di Vitruvio, erano in uso nei teatri greci. Un fenomeno in questo caso più legato alla vibrazione per simpatia tipico della risonanza che alla riflessione del suono propria dell’eco, come già aveva scritto il Barbaro. Poco oltre, Scamozzi prosegue sottolineando come per avere eco la fonte debba trovarsi più in basso dell’edificio che dà eco, “perché l’aere per sua natura ascende”: ancora il richiamo a uno dei concetti espressi da Vitruvio nel quinto libro, senza citazione esplicita della fonte.
Come notavamo più sopra, in questi esempi l’eco è presentato come una caratteristica positiva degli edifici: Scamozzi fa cenno delle sue fabbriche della Rocca Pisani, ma soprattutto a Villa Bardellini a Monfumo [Fig. 8], dove l'eco desta “grandissima ammiratione de chi ascolta”. Si tratta dunque del rilievo di particolari giochi di eco, più o meno intenzionali (l’autore non si sbilancia sull’argomento), che aggiungono all’edificio un maggiore interesse, agli albori di un gusto per il meraviglioso che verrà pienamente sviluppato negli anni successivi, come vedremo ampiamente descritto nei testi di Athanasius Kircher (Kircher 1650; Id. 1673).
Se la prima parte del trattato scamozziano si occupa essenzialmente dei fondamenti teorico-scientifici dell’architettura, il secondo volume sviluppa le soluzioni pratiche. Nel libro ottavo, per esempio, trattando delle volte in mattoni, Scamozzi si preoccupa di segnalare nuovamente il loro effetto acustico già accennato nei passi citati sopra:
Oltre à tutte queste cose è da avvertire, ch’alcune forme di volte risuonano; di maniera che rendono spiacere gradissimo ad udire in esse i cori delle voci, & i concerti de' suoni; come interviene in molte chiese delle principali d’Italia, per la poca intelligenza di quelli, che le ordinarono: e quindi è, che molti à primo tratto sbandiscono le volte; in tanto ch’essi non vorrebono, che si facessero, e specialmente nelle fabbriche private: di maniera che à fatica habbiamo potuto rimuoverli di cotal parere: mostrando che tutto ciò procede quando il luogo è molto continovato, e senza interrompimento d’apriture, e lumi, ò di cornici, & imposte; e parimente la Volta senza cavi, e sfondri, e faccie di rilievo, e simiglianti cose, e molto più fanno le cupole; le quali lievano il rimbombo, e risonar della voce (Scamozzi 1615, II, 326).
In questo caso il ragionamento dell’architetto parte da una considerazione di fatto, che abbiamo già visto richiamata dallo Zorzi, ovvero la capacità di alcune volte in mattoni di ‘risuonare’: con questo termine dovremmo intendere però l’effetto più propriamente detto di rimbombo, per il quale il suono riflesso dalla volta ritorna all’orecchio dell’ascoltatore leggermente in ritardo rispetto a quello che va direttamente dalla fonte all’ascoltatore. La causa dell’effetto è legata, come si legge, alla continuità tra pareti e volta, e infatti, subito dopo questo passo, Scamozzi ricorda il suggerimento di Vitruvio sull’uso delle cornici all’interno degli spazi pubblici, presente nel secondo capitolo del quinto libro, immediatamente prima della trattazione sui teatri. L’uso delle cupole, invece, è giustificato con una serie di esempi (in particolare si veda il caso di Santa Giustina di Padova, alla cui realizzazione egli aveva contribuito) e che confronta, per la loro efficacia, con le Chiese del Redentore e di San Giorgio Maggiore del Palladio.
E perciò Vitruvio insegna [libro 5 cap. 2. a margine], che nelle curie, e simili luoghi si facessero le cornici all’intorno di esse in duoi ordini, cioè l’una à mezo, e l'altra ad alto per interrompere l’aria; in modo che non risuonasse la voce là dentro; e perciò furono moltro prudenti in questa parte gli Architetti di que’ tempi; perché fecero la chiesa di San Pietro di Roma con tanti pilastri, cornici, risalti, lumi, e la volta della nave di mezo compartita di sfondri, e con le cupole molto traforate: e vedesi quanto beneficio habbia portato il levare per consiglio nostro le volte à catino, e lasciare aperte le sei cupole della chiesa di Santa Giustina in Padova, e la Chiesa di San Marco quì in Venetia per le sei cupole, ne San Salvatore non risuonano; come fà il Redentore, San Giorgio Maggiore, e tante altre (Scamozzi 1615, II, 326).
Alle cornici è attribuita la funzione di interrompere l'aria: il richiamo è forse, ancora una volta, al concetto espresso da Aristotele nel De Anima secondo cui l’eco, ovvero il suono riflesso, esiste sempre dovunque esistano pareti lisce, mentre le superfici irregolari tendono a dissipare i suoni, scomponendo il fronte della massa d’aria che porta il suono.
Che la questione delle volte fosse spinosa ce lo ricorda una famosa lettera del Cardinal Farnese al Vignola, in cui il dibattito si gioca fra la richiesta di una copertura a volta, voluta dal Farnese, e un soffitto piano, richiesto dai Gesuiti per evitare che l'eco disturbasse durante la predicazione (Richardson 1992, 188-189).
Come abbiamo visto Leonardo, riprendendo Aristotele, spiegava la dinamica dell’eco mediante un parallelismo con la riflessione della luce: è allora forse possibile tracciare una relazione anche tra la cura che lo Scamozzi riserva alla luce negli ambienti e la sua attenzione ai fenomeni relativi alle qualità sonore (Davis 2003). Luce e suono: interessi incrociati, complementari per l’architetto, come abbiamo visto messi a frutto a Santa Giustina a Padova (Bulgarelli 2016) – fondamentali negli anni in cui è impegnato nel completamento del Teatro Olimpico di Vicenza e la progettazione e realizzazione del Teatro di Sabbioneta.
I capitoli del trattato di Scamozzi su Teatri e Anfiteatri
Sappiamo che, come accadde per Palladio, non tutto il materiale predisposto da Vincenzo Scamozzi per il suo trattato venne pubblicato: infatti, dei dieci libri previsti, quattro non furono mai dati alle stampe (Temanza 1770, XL e, in dettaglio, Lippmann 2003b). In particolare non vennero pubblicati due capitoli che avrebbero dovuto entrare nel libro IV sulle antichità romane relativi ai teatri e agli anfiteatri (v. Id. 2003a). Il manoscritto originale, ora perduto, venne però copiato nel XIX secolo dall’abate Antonio Magrini, probabilmente nel corso delle sue ricerche per la redazione delle biografie degli artisti vicentini, ed è conservato presso la Biblioteca Civica Bertoliana di Vicenza (BCB, Ms 3314.16 ex Gonzati 26.4.7.(2)).Come è già stato posto in evidenza (Lippmann 2003a, 480), i frammenti del testo scamozziano sui teatri collegano la figura dell'architetto vicentino a quella del concittadino Onorio Belli, per la ripetuta citazione dei “teatri di Candia”: il Belli, medico e botanico, era arrivato a Creta nel 1583 al seguito del Provveditore veneto Alvise Antonio Grimani.
Dilettante di archeologia, aveva rilevato i teatri dell’isola, scrivendo anche un trattato, mai pubblicato al tempo e purtroppo perduto, di cui si conservano parte dei testi e dei disegni in alcune lettere conservate alla Biblioteca Ambrosiana di Milano (Magrini 1847, 7-41; Falkner 1854; Puppi 1973, 87-95; Beschi 1999). Dalle ricerche fra i resti archeologici dei teatri dell’isola, era emersa l’esistenza dei vasi risuonatori, o almeno dei loro alloggiamenti, come riferisce lo stesso Belli nelle lettere pubblicate dall’abate Magrini:
La pianta del Teatro della città di Litto è un poco oscura rispetto alla scena [...]. Questo Theatro è stato il maggiore che sia stato in questo regno; havea tre ordini di vasi di rame per moltiplicar le voci, et ancora si vedono quasi tutte le celle dove stavano (Magrini 1847, 21).
L’altro Theatro è il grande di Gierapetra il quale anco lui era cavato nel monte; avea se non un ordine di vasi di rame, come si vede ancora per le celle, le quali sono le più intiere che habbia vedute. Queste genti di qua che non sanno che cosa sia un teatro, nè celle dicono che sono forni et subito gli hanno accomodato la sua favola da far ridere la malinconia (11 ottobre 1586 stil vecchio) (Magrini 1847, 23).
La conferma dell'esistenza dei vasi risuonatori viene puntualmente ripresa dallo Scamozzi, che scrive:
A maggior chiarezza di quello che dice Vitruvio, nell’Isola di Candia non mancano le vestiggie di molti theatri di grandezza e forma nobilissima, alcuni de’ quali hanno i portici con archi e pilastri, alcuni poi con colonne alla parte di fuori e con le vie interne o semplici o doppie, e che conducono nell’orchestra e fra essa ed il proscenio alcuni archi che danno le entrate liberamente in essa la qual è molto più di mezzo cerchio che è qual tanto che occupano tali archi. I loro prosceni non sono molto larghi secondo l’uso de’ Greci. Ancora per la maggior parte questi theatri hanno i luoghi o celle nelle cinte di mezo fra i gradi, affine di collocare i vasi per mantenere le voci e la consonanza delle parole de’ recitanti in scena. Alcuni di que’ theatri havevano anco i portici con colonne tutto intorno nella parte superiore de’ gradi, in modo che si verifica quello che dice Vitruvio anzi possiamo affermare che da essi egli prendesse la forma di tutte le cose non essendosi altrove esempio di esse, et tanto basti per hora (BCB, Ms 3314.16, cc. 23-24).
La scoperta del Belli si proponeva come una vera e propria novità rispetto allo stato delle conoscenze. Soltanto pochi anni prima, infatti, il Barbaro, nel suo commento a Vitruvio del 1567, scriveva ancora che non erano noti esempi reali di uso di questi vasi nei teatri antichi, rimandando alla nota dell’Alberti:
Perchè noi non havemo né essempio né altra memoria altrove è necessario che crediamo Vitru. però di questo non ne diremo più oltre perché (come dice Leon Batista) questa cosa è facile da dire, ma quanto facilmente ella si possa eseguire con l’opra, lo sanno gli esperti. Si vede, che i Romani non usavano questi vasi (Barbaro 1567, 145).
Interessante notare che nel suo testo lo Scamozzi, nel ribadire l’importanza della geometria, in particolare del rapporto tra la propagazione del suono e la presenza di ostacoli, dopo aver parafrasato Vitruvio, ricorda i “segni ne theatri di Candia”, ovvero rimanda alla fonte delle informazioni tratte dal Belli:
Tirata una linea dal più basso grado sino al più alto (però tra cinta e cinta) è che tutte le loro sommità ed angoli toccassero egualmente essa linea, perché a questo modo la voce non rimaneva impedita né debilitata. Oltre ciò per darle forza e mantenerla Vitruvio dispose per queste graduationi alcune celle o cave qual uno overo tre ordini di vasi di rame di grandezza proporzionata a suoni armonici, de’ quali, come mostreremo altrove, sino oggidì apparono segni ne theatri di Candia (BCB, Ms 3314.16, c. 22).
Verso l’acustica come scienza: Athanasius Kircher
Rispetto ai suo predecessori e contemporanei, Vincenzo Scamozzi sembra portare avanti, nell’ambito degli studi sull’acustica degli spazi architettonici, un pensiero improntato all'applicazione pratica di una norma scientifica, con la ricerca consapevole e volontaria delle norme necessarie a qualificare in modo ottimale gli spazi anche dal punto di vista sonoro. Certo manca, nel trattato a stampa e nella copia dei frammenti perduti, una chiara intenzione di organizzare la trattazione del tema in modo strutturato, ma la quantità di annotazioni e riferimenti presenti in questi testi (e nelle sue postille a quelli da lui posseduti) rivelano un interesse che precorre lo sviluppo della scienza acustica, e dello stesso metodo scientifico che verrà messo a punto negli anni immediatamente successivi.
Il primo problema da affrontare era proprio quello di dare un nome a questa scienza, dato che fino al tempo di Scamozzi era semplicemente una applicazione pratica, in ambito architettonico, della musica. Fra i primi ad avventurarsi nel tentativo di denominare la scienza che studiava i suoni nello spazio fu certamente il padre gesuita Athanasius Kircher, nelle cui opere compaiono una serie di neolatinismi: “magia phonocamptica” e “magia echotectonica” nella Musurgia Universalis (Kircher 1650, t. II, 237-359); “phonurgia” e “phonosophia anacamptica” nella Phonurgia Nova (Kircher 1673, 1-5). Sebbene questi termini abbiano avuto scarso successo nella nascente comunità scientifica, bisogna sottolineare che nelle due opere citate si trovano sia alcune descrizioni tecniche per la realizzazione di spazi con particolari caratteristiche acustiche, sia la descrizione di alcune “meraviglie” dell'acustica note al tempo. Si ritrova inoltre una dettagliata analisi del passo di Vitruvio relativo agli echeia del teatro greco, al loro uso e alla loro realizzazione, partendo dal commento al passo di Cesare Cesariano che viene sottoposto a critica da Kircher.
Il primo dei due testi, la Musurgia Universalis, usciva nel 1650, anno giubilare. Un ampio capitolo, la quarta parte del IX libro, è dedicato, appunto, alla “magia phonocamptica” (Kircher 1650, II, 247-308). Nella temperie culturale di quegli anni, non suona strano trovare in un libro che nella sinossi iniziale viene definito “magicus” – e che in effetti è dedicato agli aspetti magici della musica – un'analisi teorica e sperimentale dei fenomeni di riflessione dei suoni. Il termine “phonocamptica” è uno dei numerosi neologismi introdotti da Kircher (per un’accesa contestazione dell’abuso di nuovi termini, v. Meibom 1652, Prefatio), una spiegazione del quale sta già nell’aggiunta che troviamo nel sommario “sive de Echo”. La sezione così intitolata inizia con una trattazione relativa alle regole della riflessione del suono (la natura del suono era già stata definita nel primo libro) e le spiegazioni sono corredate da numerose illustrazioni. Come Kircher spiega in più passaggi, la maggior parte delle regole di riflessione del suono e delle figure che hanno particolari capacità di riflessione (pareti semisferiche, ellittiche o paraboliche) ricalcano le leggi dell'ottica esposte nel saggio Ars Magnæ Lucis & Vmbræ, il suo trattato di ottica pubblicato nel 1645. A seguire, un intero capitolo è dedicato alla “magia echotectonica”, che come già indica il lemma indaga l’eco nelle architetture. Dopo aver descritto e richiamato alcuni casi noti, tra cui la funzione dei vasi risuonatori di Vitruvio (Kircher 1650, II 283-285) [Fig. 10], l’autore illustra alcune particolari architetture in cui enormi coni acustici permetterebbero di convogliare il suono in luoghi diversi. L’applicazione architettonica delle sue nozioni, in particolare ai corni da inserire negli edifici come strumenti di amplificazione, in molti casi è semplicemente assurda: il volume di questi apparecchi occupa infatti gran parte degli edifici che li contengono [Fig. 11]; si tratterebbe insomma di mettere in opera dei giganteschi cornetti acustici. Ma ciò che risulta interessante è lo studio applicato alle forme delle volte e delle pareti degli edifici, laddove Kircher applica al suono le regole della riflessione ottica descritte negli altri testi [Fig. 12-13]. L’importanza di questi schemi si può intuire dal modo in cui Marin Mersenne, poco più tardi, riprenderà alcuni di questi schemi (citando la fonte) nella seconda edizione dell’Harmonicorum Libri XII che esce a Parigi solo due anni dopo. Le regole descritte da Kircher sono relativamente semplici:
§ L'angolo con cui un suono viene riflesso da un oggetto è uguale a quello incidente;
§ Se un suono incontra un oggetto (obiecto phonocamptico) in modo perpendicolare esso viene riverberato verso la sua fonte (centrum phonicum);
§ Un suono che incide su un oggetto in maniera obliqua non può essere riflesso verso la fonte, ma solo nella direzione opposta.
Le proposizioni successive non sono altro che conseguenza di questi principi, in quanto tendono a dimostrare come la voce che viene diretta verso l’interno di un angolo retto formato da due muri, o verso una parete concava, viene amplificata dal concentrarsi dei suoni riflessi.
Una nozione fondamentale per Kircher è quella di “phonismus”, termine con il quale egli indica la forma con cui i suoni si diffondono a partire dalla fonte, che può essere cilindrica o conica, e il modo in cui esso viene riflesso dagli oggetti.
Kircher si sofferma a spiegare le ragioni per cui i corpi cavi amplificano i suoni, determinando l’intensità dell’aumento del volume sonoro sulla base del numero dei lati dell’oggetto. In particolare sono analizzati solidi con un numero sempre maggiore di lati, partendo da un prisma a base triangolare, sino ad arrivare al cilindro e al cono: non si tratta solo di muovere alla ricerca della quantificazione della intensità del suono riflesso, ma anche del punto in cui la riflessione si concentra.
Numerose pagine del trattato sono dedicate all’eco vera e propria, nel tentativo di stabilire le distanze minime dall’oggetto riflettente per percepire in modo distinto un determinato numero di sillabe, o di come sia possibile creare artificiosamente echi multipli (“echo poliphona”: v. Fig. 14). Anche in questa sezione, ci imbattiamo in affermazioni poco plausibili, in particolare sulla possibilità (davvero magica!) di avere un eco che, anziché ripetere, risponde (ma Kircher, parlando di eco, potrebbe avere in mente forme di vituosismo retorico-poetica come quelle adottato da Poliziano nel rispetto “Eco e Pan” (v. Centanni 2016, 523), o nella tradizione del melodramma barocco a partire dall’Orfeo di Monteverdi). Non solo: secondo Kircher esisterebbero casi in cui l'eco risponde a una frase in un'altra lingua.
Il capo III è dedicato alle istruzioni pratiche per la realizzazione di “instrumentorum acusticorum”. Kircher introduce l'aggettivo “acustico”, reintroducendo l'analogia con gli strumenti ottici: questi ultimi permettono agli occhi di vedere le cose più grandi o più vicine, i primi di amplificare i suoni deboli o farli sentire in lontananza. Non si tratta solo di oggetti di piccole dimensioni, come cornetti per persone deboli di udito o megafoni, ma di vere e proprie costruzioni architettoniche. Molti sono gli esempi di strumenti di amplificazione o concentrazione del suono, di comunicazione a distanza o comunque tra ambienti distinti. Per analizzare l'effetto del suono in un lungo tubo, Kircher porta l'esempio degli acquedotti romani, dove, dato che il suono incanalato nell'architettura non può disperdersi, è possibile sentirlo riprodotto anche a grandi distanze (ma perché ciò avvenga il canale deve essere “tersum politumque”). Viene sfatata altresì la tradizione che vorrebbe che all'interno di un lungo canale chiuso il suono potrebbe restare “imprigionato”, dato che senza moto dell'aria non potrebbe esserci suono.
Tutti gli esperimenti richiamati nel trattato tendono comunque a enfatizzare le proprietà delle superfici circolari e curve. Come preparazione alle realizzazioni architettoniche che presenta nei capi successivi, Kircher illustra alcuni metodi pratici per realizzare ellissi e solidi ellittici (“ellipsioplastes”), parabole, iperboli e cupole paraboliche o iperboliche. Come si accennava più sopra, non si tratta soltanto di piccoli strumenti a uso pratico: interi edifici vengono definiti “acustici”. Il primo e capitale esempio è proprio quello del teatro greco e dei suoi vasi risuonatori citati da Vitruvio. Riprendendo la spiegazione teorica sull'accordatura dei vasi, ampiamente criticata da Marcus Meibom (Meibom 1652, Prefatio), la soluzione proposta da Kircher è che si tratterebbe, più che di vasi, di campane.
Resta da chiedersi come avrebbe potuto il pubblico apprezzare questa forma di amplificazione, dato che l’Iconismo XVI che la raffigura non lascia spazio per le gradinate del pubblico e, per poter ospitare le celle, racchiude lo spazio centrale tra alte mura che sembrano rimandare il suono al massimo verso gli attori. Anche a una prima e sommaria analisi, la “vera ricostruzione del teatro greco” proposta da Kircher sembra di scarsa utilità, in quanto non si capisce dove dovrebbero trovarsi gli spettatori destinatari degli effetti dei vasi risuonatori. Kircher sembra molto più interessato all’effetto dell’eco e alle sue applicazioni, piuttosto che alla effettiva costruzione di uno spazio per l'ascolto della musica.
Gli altri esempi che l’autore cita riguardano particolari forme di eco, come il caso di Villa Simonetta a Milano [Fig. 10], l’orecchio di Dionisio a Siracusa e due aule, una a Mantova e l’altra nel palazzo dei duchi Farnese a Caprarola. L’interesse di Kircher pare per lo più incentrato sulla realizzazione di “meraviglie” architettoniche: luoghi in cui chi parla a bassa voce viene perfettamente udito da lontano, o stanze in cui si possa ascoltare ciò che si dice altrove, o nelle quali la voce risulti moltiplicata, magari con ‘magici’ effetti di (apparente) risposta. I principi che lo studioso suggerisce sono per lo più direttamente derivati da quanto esposto in precedenza: la capacità dei canali di portare il suono in lontananza, che diviene maggiore se il tubo è inglobato nella muratura anziché libero nell'aria; le proprietà delle superfici paraboliche ed ellittiche, sfruttando la capacità delle prime di rimandare i suoni in linea parallela e delle seconde di riflettere i suoni emessi da un fuoco simultaneamente sull'altro. Infatti, dato che i triangoli che uniscono i due fuochi con un punto qualsiasi del perimetro dell'ellisse hanno la medesima somma dei lati, ergo tutti i suoni riflessi percorrono lo stesso spazio e impiegano quindi lo stesso tempo. Per questa costruzione, che egli schematizza in forma di sezione di auditorium o teatro, Kircher consiglia la costruzione di una volta in gesso.
Nel 1673 Kircher ripubblicò i suoi studi sull’eco in un nuovo trattato, intitolato Phonurgia Nova, che è di fatto il primo libro dedicato interamente all'acustica, o meglio, per l’appunto, alla phonurgia, termine che sta a indicare, come egli spiega nella prefazione, la “soni practica scientia” (Kircher 1673, Prefatio). Rispetto al IX libro del Musurgia l’ordine delle parti cambia: in particolare il primo libro, “Phonosophia anacamptica”, si occupa dell'effetto del suono nello spazio, con poche correzioni rispetto a quanto scritto nella Musurgia, fra le quali spicca la rimozione della parte relativa ai vasi acustici vitruviani, che era stata demolita dall’analisi del Meibom.
L'acustica, da magia a scienza
Se Kircher ha il merito di aver usato per primo l’aggettivo “acustico”, è un altro gesuita ad avere usato per primo il termine “acustica” per indicare la scienza dei fenomeni relativi all’udito. Nel 1657 infatti Kaspar Schott pubblica il secondo volume della sua Magiae universalis naturae et artis intitolandolo proprio Acustica, in VII libros digesta: quibus ea, quae ad auditum, & auditus obiectum spectant, methodice, ac summa varietate pertractantur (Schott 1657). Il legame di Schott con Kircher appare evidente, oltre che per le continue citazioni, per il riuso di buona parte delle illustrazioni.
Paradossalmente, nella storia degli studi l’introduzione del termine ‘Acustica’ in riferimento alla scienza dei suoni, non viene attribuito né a Kircher né a Schott. La vulgata critica vuole infatti che solo nel 1700 la disciplina dell’“Acustica” venga introdotta all'interno dell'Académie de France nel 1700 da Joseph Sauveur, durante le discussioni che portarono alla redazione del suo studio sulla “scienza che riguarda il senso dell’udito”. In quell’anno negli atti dell’Académie compare la nuova sezione “Acoustique” spiegata con questi termini:
La science qui regarde le sens de l’ouie, n’a peut-être pas moins d'étendue, que celle qui a la vûe pour objet, mais elle a été jusqu’ici moins approfondie. Le besoin que les philosophes ont eu des télescopes et des microscopes, les a obligés à étudier avec une extrême application les différens accidens de la lumiere ; mais comme ils n’ont pas eu le même besoin de connoître exactement tout ce qui appartient aux sons, et qu’ils ont le plus souvent traité la musique comme une chose de goût, dont on ne devoit pas trop aller chercher les regles dans le fond de la philosophie, ils n’ont pas tant tourné leurs spéculations de ce coté-là. Aussi M. Sauveur a-t-il pensé que c’étoit-là un pays encore peu connu. Il a trouvé cette science plus vaste, à mesure qu’il y fasoit plus de progrès, il a cru qu’elle méritoit, aussi-bien que l’optique, un nom particulier, et l’a appellée Acoustique (Acoustique 1700, 134).
Sauver pubblicherà il suo studio nelle Memoires dell'anno successivo, imponenendo il suggello della sua paternità per il nome della nuova scienza:
L’occasion dans laquelle je me suis trouvé d'expliquer la theorie de la Musique à des princes fort éclairés, & à des personnes d’un esprit profond, m’a donné lieu de remarquer que ceux qui se sont attachés à la Musique spéculative, n’ont eu en vûe que quelques propriétés des sons, & sur-tout la pratique du chant qui étoit en usage de leur tems […]. J’ai donc crû qu'il y avoit une science supérieure à la Musique, que j’ai appellée Acoustique, qui a pour objet le son en general, au lieu que la Musique a pour objet le son en tant qu’il est agréable à l’ouie (Sauveur 1701, 299).
Una paternità quantomeno condivisa, dato che, anche tenendo conto della mancata pubblicazione dei testi dove Vincenzo Scamozzi riconosceva nelle nuove scoperte archeologiche del Belli una prova dell’esistenza degli echeia nell'architettura dei teatri antichi, certamente Athanasius Kircher aveva preceduto Sauveur almeno di mezzo secolo nel porsi il problema della denominazione e della definizione sperimentale e ‘scientifica’ dell’acustica.
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P. Sanvito, Il ruolo dei diagrammata e schemata nelle edizioni di Vitruvio a cura di Barbaro: di nuovo sull’architettura come scientia, in Teoria e prassi nell'esegesi vitruviana tra XV e XIX secolo, a cura di E. Granuzzo, C. Occhipinti, numero monografico di “Horti Hesperidum. Studi di storia del collezionismo e della storiografia artistica” II, 2 (2012), 13-37. - Sanvito 2016
P. Sanvito, Daniele Barbaro alla riscoperta dell'antico inedito. La fondazione dell'architettura scientifica moderna tra Cinquecento e Seicento, Roma 2016. - Sauveur 1701
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V. Scamozzi, L’idea della architettura universale, Venezia 1615, ristampa anastatica con prefazione di Fr. Barbieri, testo di W. Oechslin, Verona 1997. - Schott 1657
K. Schott, Acustica, in VII libros digesta: quibus ea, quae ad auditum, & auditus obiectum spectant, methodice, ac summa varietate pertractantur, in P. Gasparis Schotti [...] Magiae universalis naturae et artis, pars II, Francofurtens: excudebat Iobus Hertz typographus Herbipolensis, 1657 (Herbipoli : excudebat Iobus Hertz typographus Herbipolensis, 1657). - Solmi 1906
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R. Wittkower, Principi architettonici nell’età dell’Umanesimo [1949], Torino 1964.
English abstract
Even if the main concepts described by the acoustics science can be tracked back to Aristotle and his De Anima, the word itself is commonly attributed to French scientist Joseph Sauver in 1700. But, looking more close to the studies on Vitruvius’ De Architectura, we can recognize a continous effort of the architects and architecture theorists, starting from Leon Battista Alberti and Leonardo da Vinci, to study the best ways to achieve a perfect hearing inside buildings. Among those studies, it is Vincenzo Scamozzi with his “science of Architecture” that enhance the studies on architectural acoustics, especially after the arrival of letters from ‘Candia’ (Crete) that prove the existance of the locations where the almost mythological “acoustics vases” described by Vitruvius inside the theatres in Candia could have been placed. Thus, despite Sauver claims of being the first scientist interested in this new science and the one who created the name, there are at least two Jesuits who tried to describe this new science and give it a name earlier, Athanasius Kircher in his Musurgia Universalis of 1650 and Phonurgia Nova of 1673, and Gaspar Schott in his Magiae universalis naturae et artis of 1658. Kircher is the first to use the adjective acoustic for a device that enhance hearing, and Schott is the first one that use the latin word acustica in order to describe the science, both about 50 years earlier than Sauver.
keywords | acoustic, Joseph Sauver, architecture, Vincenzo Scamozzi, Candia.
Per citare questo articolo/ To cite this article: E. Bastianello, Architetture dell’eco. Vincenzo Scamozzi e Athanasius Kircher, alle originio della scienza acustica, “La Rivista di Engramma” n. 154, marzo 2018, pp. 49-78 | PDF