Vuoto per pieno*
Alberto Ferlenga
La locuzione ‘vuoto per pieno’ viene usata in edilizia per indicare una modalità di stima dei costi di un’opera in rapporto a volumi e superfici. Più nello specifico, indica una valutazione approssimativa su cui basare le scelte progettuali successive. Quando abbiamo iniziato a pensare ad un convegno che mettesse in evidenza la straordinaria particolarità di una città che si svuota nel momento stesso del suo massimo riempimento, mi è rimasta in testa questa definizione che in seguito abbiamo sostituito con un più corretto vuoto/pieno. In effetti, anche nel nostro caso, si è trattato di una prima valutazione basata sulle informazioni che abbiamo oggi a disposizione, ma utile ad orientare azioni future.
Venezia si svuota in molti ambiti e abbiamo voluto affrontarne alcuni a partire da ricerche già avviate ma anche evocarne altri in cui il fenomeno è meno quantificabile ma non meno preoccupante in quanto a conseguenze. Su di un argomento di interesse comune – il modificarsi della città – si sono confrontati studiosi di diverse provenienze disciplinari convinti che solo in tal modo la complessità di un luogo come Venezia potesse essere affrontata con la speranza di fare uscire dall’analisi indicazioni utili alla salvaguardia della sua vitalità. In realtà, il metodo della collaborazione tra discipline diverse, che può apparire scontato, non è così praticato nelle aule universitarie dove a prevalere sono ancora visioni parziali e anche a questo si deve il ritardo nella comprensione dei fenomeni urbani più recenti. Quella che abbiamo voluto sperimentare, quindi, è anche la possibilità di attivare percorsi di indagine in cui il reciproco scambio possa ampliare le capacità analitiche dei diversi punti di vista.
Ma vuoto/pieno è stato fin dall’inizio concepito anche come un percorso in cui coinvolgere progressivamente tutti coloro che, in quanto utenti, referenti, ricercatori, fanno parte, a diverso titolo, della vita della città. Insieme ad essi, si è esplorato un tema, quello del centro storico, che pur costituendo forse l’espressione più alta della bellezza urbana italiana – e tanto più in una città-simbolo come Venezia – ci è poco noto per quanto riguarda il suo stato attuale. Se infatti cerchiamo nella storia recente un’attenzione concentrata su questa parte fondamentale delle città, dobbiamo risalire nel tempo almeno alla fine degli anni ’60 del novecento, quando in Italia si svolsero gli ultimi dibattiti e convegni sull’argomento. Da allora, mentre le pratiche della conservazione si estendevano mettendo in sicurezza la parte materiale del nostro patrimonio storico, ha preso sempre più corpo la pericolosa idea che se l’effigie dei nostri centri non aveva subito negli anni grossi cambiamenti questo dovesse significare che nulla di sostanziale era cambiato anche per quanto riguardava gli altri aspetti. E invece molto, nel frattempo, era cambiato! Nella loro natura, nel loro rapporto con le altre parti urbane, nel loro uso, nella composizione sociale e anagrafica dei loro abitanti. D’altra parte, non poteva che essere così, considerando come la pressione del turismo abbia raggiunto nel nostro paese livelli mai conosciuti prima, i legami con i territori circostanti si siano progressivamente esauriti e l’economia sia profondamente cambiata.
I dati numerici ci danno alcune indicazioni sugli effetti del cambiamento anche se non sono sufficienti a spiegarci una complessità di tipo nuovo. Ci aiutano, però, a smontare alcuni luoghi comuni come quelli relativi all’ineluttabile spopolamento su cui per anni sono state conformate le politiche di intervento. Oggi, oltre all’evidenza, anche i dati ci dicono che in molti centri storici sono in atto fenomeni interessanti di ripopolamento, certo, i protagonisti di questo ‘ritorno’ sono soggetti diversi dagli originari e attività di tipo nuovo. Questo cambia il quadro d’insieme e nello stesso tempo anche il modo in cui immaginare gli interventi possibili. Ma i cambiamenti riguardano anche il corpo fisico delle città. Per anni la cura dei conservatori si è concentrata su facciate, muri, e superfici disinteressandosi del fatto che, dietro le cortine, le tipologie delle case stavano mutando radicalmente, magari per rispondere alle esigenze di soggetti nuovi e insidiosi come Airbnb la cui influenza sui centri storici è ormai più determinante di qualunque politica pubblica. Da questo punto di vista, si può dire che le politiche di recupero abbiano avuto un duplice aspetto, da un lato sono riuscite a preservare contenitori preziosi come chiese o palazzi, dall’altro, hanno dimostrato una minor capacità nell’individuare usi compatibili con la propria natura e che non fossero esclusivamente riferibili alla funzione museale. In luoghi che basano la loro particolare bellezza sul rapporto tra componenti diverse non è tanto la salvaguardia materiale dei beni a costituire l’azione più importante.
Chi visita i centri storici italiani non è attratto solo dai monumenti ma piuttosto da quell’insieme di relazioni non definibili esattamente, ma ben percepibili, che può essere riassunto nel particolare benessere restituito dalla visita e che riguarda il rapporto tra l’architettura, lo spazio pubblico, il paesaggio, gli abitanti. Le relazioni, si sa, sono più difficili da proteggere e restaurare che non gli edifici, e anche il loro logoramento è più difficile da individuare. In paesi come l’Italia, dove la storia è il collante più importante dei diversi aspetti di un centro, questo aspetto ha una particolare rilevanza. Alla storia e alle relazioni che instaura con uomini e cose si deve quella particolare profondità che permea ogni luogo e che fa di una cattedrale non solo un ammasso di opere lapidee edificate con maestria eccezionale ma un coacervo di destini, poteri, desideri, espresso sia dall’insieme che dalle singole opere contenute nei grandi spazi, a loro volta legate tra loro da trame di significati. Se la possibilità di conoscere questo intrico di preziose relazioni viene meno, magari per la necessità di presentare ai turisti spiegazioni veloci e parziali, l’insieme della città, o del monumento, perde parti essenziali di sé. Si svuota di senso, magari nel momento di maggior fortuna in quanto a visitatori.
Ed è così per Venezia, la più famosa delle città d’arte italiane. Venezia che perde abitanti e ospita sempre più turisti, che respinge studenti stanziali a favore di visitatori ‘mordi e fuggi’, che trasforma chiese e palazzi in gallerie e alberghi. Di fronte a questo, come si diceva, i numeri non restituiscono del tutto la situazione. Se le case si svuotano bisogna comprendere le dinamiche che ciò comporta, se i significati si perdono bisogna verificarne le ragioni ma anche rinnovare la conoscenza dei luoghi e i modi con cui essa viene comunicata. Occuparsi di questi temi è stato importante per due motivi: il primo è che la nostra Università è in prima linea nell’azione di mantenimento in vita del centro storico di Venezia, gestendo le sue sedi come presìdi di uso pubblico o contribuendo alla rigenerazione di intere zone come Santa Marta-San Basilio. Il secondo è che solo mettendo in campo un intreccio di saperi come quello che Iuav ospita è possibile intervenire su di un nodo così complesso come quello della parte storica di una città d’arte.
La conoscenza che può derivare da questo tipo di azioni è fondamentale per ogni politica. Senza conoscenza, infatti, non può esserci trasformazione positiva. Ma lo è non solo per opporsi ai fenomeni di degrado, ma anche per rilanciare modelli generali di insediamento e di vita che assumono particolare valore in tempi in cui le città esplodono e i modelli a disposizione per controllarle sono sempre più rari. Il nesso Heritage-identità è sempre più, in molti paesi, fonte particolare di attenzione. Lo è in Cina, che per anni ha dimenticato il suo passato e oggi torna a considerarlo essenziale, o in Siria che solo su questo può pensare di basare le sue speranze di una rinascita che speriamo prossima.
C’è stato un tempo in cui la cultura italiana ha fortemente riflettuto su queste questioni. La stessa ricostruzione post-bellica, tracimata direttamente nel primo vero sviluppo conosciuto dal paese, ne ha fatto oggetto di studi ancora oggi fondamentali considerando come la natura profonda dei luoghi cambi meno velocemente del loro aspetto. Oggi le letture superstiti sembrano tornare a percorrere sentieri culturalmente separati. Lo si vede, ad esempio, nelle risposte ai fenomeni distruttivi, sempre più frequenti, che affliggono il nostro paese e, in particolare, i suoi centri storici che, se un tempo generavano dibattiti e ipotesi di ricostruzione ad ampio raggio, oggi sembrano limitarsi a soluzioni tecniche poco più che emergenziali. Ma cosa si può salvare in una città o in un territorio se non si mette in campo, preventivamente, una riflessione che riguardi sia lo stato attuale che il destino futuro? Il rischio è quello di mettere in sicurezza edifici vuoti, creare infrastrutture in paesaggi abbandonati, praticare una conservazione che non si preoccupi dei nessi tra edifici e contesti ma aggiunga l’ennesimo museo in un paese che ha bisogno di forzare il blocco delle reciproche estraneità tra le sue parti e di attivare nuovi movimenti tra storia e attualità.
Vuoto/pieno ha voluto iniziare una riflessione su questo, ampliando il campo del confronto a tutte le componenti, intrecciando punti di vista, fondando scientificamente le osservazioni. E riprendendo una tradizione di studio sulle città che ha costituito fino a non troppi anni fa, la caratteristica più evidente dell’Università Iuav di Venezia.
*Prolusione del Rettore Iuav, in apertura del convegno Vuoto/pieno. I caratteri della Venezia che cambia (Venezia, Aula Magna, 17/18 gennaio 2018).
Per citare questo articolo/ To cite this article: A.Ferlenga, Vuoto per pieno, ”La rivista di Engramma” n.155, aprile 2018, pp. 17-21 | PDF