"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

160 | novembre 2018

9788894840551

Sull’ingresso a Siena di Carlo V (1536) e altre questioni

Stefano Mazzoni

English abstract

A Massimiliano Puppi

Parmigianino, Ritratto allegorico dell’imperatore Carlo V, 1529-1530, olio su tela, New York, Rosenberg & Stiebel Gallery.

1.

Ho già avuto modo di sottolineare più volte che nei tempi lunghi della storia dell’Europa moderna gli spazi e le forme dello spettacolo vivono nei paesaggi delle città: urbs e civitas, le pietre e i cittadini. Di più: i cittadini e gli stranieri. Città, culture, committenti, realizzatori e fruitori, idee di teatro e drammaturgie dello spazio, tecnologie e ricadute tecnologiche, forme dello spettacolo e della ricezione sono inscindibili negli orizzonti della nostra disciplina, la storia dello spettacolo. Conta, storicizzando, l’accertamento delle discontinuità, delle differenze e delle analogie caratterizzanti, nella architettura del tempo e nei diversi milieux, sistemi di relazioni che hanno generato specifici contesti e spazi, processi ed eventi. Officine delle modalità di percezione e rappresentazione di sé e dell’altro, serbatoi di sapienze performative e artigianali, specchi (fedeli o deformanti) di mentalità e di orizzonti d’attesa, di miti, esperienze e idee, di simboli e valori. Costellazioni problematizzanti di un universo ‘altro’, ludico e metaforico, da sottoporre al vaglio dell’interpretazione rapportandole ai processi di trasmissione memoriale, alle fenomenologie del potere e della cultura, alla scena urbana e al fluire in essa della vita. Tant’è che lo storico dello spettacolo può ben dirsi, anzitutto, uno storico delle culture urbane. Si pensi alla basilare lezione di metodo di Ludovico Zorzi (Mazzoni 2014) o, su un altro versante disciplinare, a quella fecondissima di Lionello Puppi (Mazzoni 2018b). Mi preoccupa l’attuale perdita del sentimento della storia e il prevalere nella nostra società del punto di vista degli economisti con conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. Perdita, dicevo, che da qualche anno ha innescato un dibattito vivace tra gli studiosi (Armitage, Guldi 2014).

Per parte mia, come storico dello spettacolo, sono sempre più convinto che senza una solida conoscenza storica del teatro antico e di quello di Antico Regime, nei loro plurisecolari diversi intrecci e nelle loro multiformi ricezioni, sia più difficile interpretare anche una parte non secondaria del teatro europeo del Novecento e del nostro presente. Ogni epoca, per dirla col Warburg della conferenza su Rembrandt, “ha la rinascita dell’antichità che si merita” (Gombrich [1970] 1983, 206). Il titolo delle nostre giornate di studio “Città come teatro” è allora un ‘seme’ metodologico a fronte di un diffuso 'presentismo' aliasprovincialismo’ che, “svuotando la nostra memoria culturale, ci toglie di mano la conoscenza storica da cui potremmo trarre saggezza e argomenti” (Settis 2017, 98). Ha osservato Andrea Carandini (e non si può che concordare):

Siamo ormai sempre più impantanati nel presentismo eclettico e nell’uniformità per i quali il futuro, più che essere preparato armonizzandolo con il passato, semplicemente accade in un grande disordine (Carandini 2017, 56-57).

Ancora. La storia del teatro, o piuttosto dello spettacolo, non è una disciplina gerarchica fatta solo di monumenti testuali o architettonici. È, invece, storia a-centrica e plurale. Storia di relazioni, di processi e di pratiche fondata sull’interrogatorio incrociato di fonti, testi e documenti diversi; sulla reinvenzione costante dei campi d’indagine e sulla conoscenza affilata della storiografia. Storia di contesti olistici. Di donne, uomini, gruppi sociali. Storia di persone. Diffidiamo dalle griglie metodologiche ‘universali’, valide a tutte le latitudini e per tutte le epoche. Privilegiamo invece il dato storico concreto collegato a specifici casi e problemi. Nella convinzione che anche per disegnare i concetti generali e aprirsi alla comparazione storica per ‘far mondo’ occorra prender le mosse da specifici ambienti e vivi contesti. Non solo. Quando della storia del teatro non si abbia una visione letteraria ‘alta’ e dicotomica, ma trasversale laica e meticciata, la drammaturgia si rivela spesso, nelle sue diverse declinazioni nei tempi lunghi della storia, creazione a più mani, fluida, in divenire che elabora molteplici linguaggi artistici ed è collegata ai processi produttivi e ricettivi, alle istanze dei committenti, allo spazio scenico, agli attori e agli spettatori e alla relazione emozionale che si instaura tra costoro. Ne deriva una storia del teatro capace di non cristallizzarsi in sé stessa; di far leva su differenti punti di forza per giungere all’essenza di un fenomeno; di elaborare senza sofismi il lutto della perdita dell’oggetto ermeneutico superando così le iterate “retoriche dell’arte fuggitiva” (Guarino 2005, 5); di annullare problematiche fasulle quali il falso problema 'testo sì', 'testo no', o quello altrettanto falso della fedeltà al testo; di illuminare di nuova luce i propri densi contesti svelando le interazioni dialettiche tra urbs, civitas e spettacolo; di abbattere gli steccati disciplinari perseguendo metodi via via diversi dettati dai differenti terreni da dissodare; e, infine, questione decisiva, d’inventare, di volta in volta, le proprie fonti in modo originale facendo ricorso anche, in alcuni casi soprattutto, a documenti analogici, insospettabili ai più, messi a illuminante confronto con le fonti dirette (Mazzoni 2014, 91 e passim).

2.

Nei secoli della nascita del teatro moderno nell’Italia delle città la spettacolarità promossa dalle corti, dalle accademie e dalle compagnie nobiliari esprimeva in molti casi un progetto culturale di largo respiro che investiva un’ampia gamma di forme spettacolari scandite dal tempo della festa e della cerimonia e specchio di un ambizioso modello sociale. Lo testimoniano anche le fonti letterarie da incrociare con altre tipologie documentarie. Totalizzante, alta e classicista, quella progettualità mirava a ridisegnare le trame della realtà urbana trasfigurandole in chiave eroica e sublime, anche con eclatanti episodi di metamorfismo, per rendere la città consona alle istanze e alle ideologie dei committenti, al tempo stesso attori e spettatori partecipi del disegno celebrativo. Città e festa, teatro e spettacolo furono la scena sfolgorante delle corti e di alcune delle più importanti e aristocratiche accademie, come quelle degli Intronati di Siena e degli Olimpici di Vicenza (Mazzoni 2000).

Scriveva nel 1569 Scipione Bargagli, che un decennio prima era stato tra i fondatori della Accademia senese degli Accesi:

Né picciolo appresso è ’l piacere, et l’honore; che sentono, et acquistano quelle città, dove sieno aperte virtuose Academie. Conciosiacosa, che secondo le varie, et nuove cagioni, che per publiche feste ivi nascano, o pel passaggio, o venuta di gran maestri, et d’illustri persone; con sollecitudine da gli spiritosi Academici in quelle s’apprestino et preparino et con accurata diligenza in opera si mettano nuovi, superbi, et ammirabili spettacoli facendo essi rappresentare in ornate, et magnifiche scene belle, et dilettevoli Comedie: dotte, et gravi Tragedie di loro veramente degni, et propri frutti. Facendo anchora uscir fuori per le publiche strade, et pe teatri Canti, Carri trionfali, machine straniere, et ottimamente intese; et altre simili a queste non men nuove, che varie, et ingegnose inventioni (Bargagli 1569, 31-32).

Alla riuscita di queste invenzioni “ingegnose”, d’avanguardia in Europa, concorsero i pragmatici saperi artistico-artigianali degli artisti-apparatori e dei loro staff operativi: gli unici in grado di tragittare l’utopia spettacolare dal recinto intellettuale della mente, dei libri e delle carte al fascino di una sofisticata realtà, caratterizzata dalle forme dell’effimero, in cui celebrare riti spesso élitari e ‘divinizzanti’. Senza questo apporto le utopie sarebbero rimaste, come pure è accaduto, astrazione velleitaria, esercizio libresco e ‘virtuale’. Prassi e utopia, interazione di alto e di basso, compresenza di dilettantismo, semiprofessionismo e mestiere: questa la cifra del teatro e dello spettacolo accademico e cortigiano che si incardinò in quel secolo sui due filoni portanti e interagenti della cultura classicistico-vitruviana e di quella pragmaticamente ‘romanza’. Alludo al ‘codice’ ermeneutico binario zorziano “pratica scenica ‘romanza’” / “tradizione classicistica o pseudo-vitruviana”, ineludibile non evoluzionistica chiave di volta della ‘invenzione’ del teatro (Zorzi 1977, 170 n.-174 n.; Mazzoni 2014, 93). Non lo si sottolineerà mai abbastanza, a fronte di una storiografia talvolta disarmante spacciata per storia dello spettacolo.

3.

1 | Veduta aerea di Siena.

Tra le capitali dello spettacolo accademico vi fu Siena con la sua dantesca gente “vana” (Inferno XXIX, 122), i suoi grandi mercanti e banchieri, la sua “mezzana gente”, le sue fazioni. Con la ‘partitica’ sua organizzazione agganciata a una pluralità di funzioni urbane. Con il suo esteso dominio, la spopolata Toscana senese. Con la diversa sua altissima civiltà, coincidente con la città stessa, costellata di rimandi simbolici, di alchimia, di magica propensione, di senso del sacro e di evangelica iconografia, di monumenti dedicati alla gloria cittadina. Con le sue streghe (non per caso quando il buon conoscitore dell’Italia Cervantes offre al lettore del romanzo bizantino Persiles un ennesimo episodio di ammiratio, incardinato sulla figura di una strega, sceglie Siena come patria della donna e punto di partenza della storia intercalata). Con gli antichi suoi rituali del palio alla lunga palpitanti di vita. Con il suo labirintico spazio urbano cinetico [Fig. 1] in cui la piazza del Campo e quelle del Mercato e della Cattedrale sono rifuse dal vortice avvolgente delle strade e dei vicoli (Mazzoni 2018, 73-74, con bibliografia).

Siena nella prima metà del Cinquecento: un piccolo stato indipendente di tradizione repubblicana e antifiorentina. Alla ricerca di autorevoli protezioni politiche nel contesto internazionale per difendere la propria autonomia gestita rissosamente dall’aristocrazia e dalla ricca ‘borghesia’ cittadine incapaci di garantire una stabile pax interna. La vita spettacolare promossa dalla colta e nobile Accademia degli Intronati – sorta verso la metà degli anni Venti al tempo della disfatta di Francesco I nella battaglia di Pavia, dell’assassinio del novesco Alessandro Bichi e della vittoria dei popolari libertini a Porta Camollia – fu percorsa così per un periodo da una vocazione filoimperiale che, come si sa, vide nel divus Carlo V un emblema di speranza e di salvezza per la città. Una incarnazione del bene e della giustizia: “Astrea veggio per lui riposta in seggio, / anzi di morta ritornata viva” (Orlando furioso XV, 25); “Divino è il giudicio di Carlo, e la sua mente giusta”; “mai fu la giustitia di Cesare corrotta”. Così, rispettivamente, Pietro Aretino (Aretino [1537] 1997) e Anton Francesco Doni (Doni 1550) topicamente appesi al filo della mitopoiesi.

Né si scordi, in più ampie campiture cronologiche, l’imperatore executor iustitie dell’Alighieri (Monarchia II, X 1) ché, è stato molto bene osservato, “la concezione moderna del potere si modella nel rapporto con la tradizione: la sovranità non è stata una invenzione, ma una elaborazione” (Quaglioni 2014, 882-883). E l’Asburgo aveva avuto nel suo cancelliere Mercurino di Gattinara, conoscitore della dantesca Monarchia, il suo “primo maestro e consigliere” (Yates [1975,1978]1990, 29).

4.

Si pensi adesso ai festeggiamenti indetti a Siena dal 24 al 27 aprile 1536 per accogliere degnamente l’itinerante Dominus Mundi reduce dall’impresa di Tunisi e dalla solenne entrata imperiale nella Roma di Paolo III (Cruciani 1983, 568-565; Carrasco Ferrer 2000, 81-101). In quel periodo, è noto, il destino geopolitico della penisola dipendeva in larga misura dall’arbitrato del vittorioso erede dei Cesari. Tutto si saprà solo quando l’imperatore arriverà a Napoli “dove comincierà a negociar le cose d’Italia”, aveva scritto da Roma nel novembre 1535 il cardinale Ercole Gonzaga (Gonzaga [1535] 1913; Bonora 2014, 104-105) possessore di un ritratto dell’imperatore, opera del Parmigianino [Fig. 2].

Naturale che gli accademici Intronati venissero cooptati dalla Balìa per l’organizzazione dell’evento (Deliberazioni degli ufficiali sopra l’ornato, Archivio di Stato di Siena, d’ora in poi ASSi, Balìa 115, in Moscadelli-Zarrilli 1990, 694-696, doc. 170-191; Carlo V in Siena 1884; Mazzoni 2018, 82-93, con la precedente bibliografia). E non sorprende che costoro progettassero di rappresentare in presenza di sua Maestà L’amor costante nella emblematica sala grande del Consiglio cittadino. Una drammaturgia imperiale. Una commedia composta per la straordinaria circostanza dal filoasburgico Alessandro Piccolomini (Piccolomini [1541] 1990).

Solo nel terzo giorno i festeggiamenti per l’imperatore – culminanti simbolicamente nel monumento equestre impennato che, sin dal “fin della piazza dello spedale” (Carlo V in Siena 1884, 29), dislocava Carlo nel teatro della gloria [Fig. 3] – entrarono nel Campo [Fig. 4]: omphalos urbano, cuore della civitas, immagine del sacro manto di Maria disteso a protezione di Saena Vetus Civitas Virginis magistralmente dipinta da Francesco di Giorgio [Fig. 5].

2 | Parmigianino, Ritratto allegorico dell’imperatore Carlo V, 1529-1530, olio su tela, New York, Rosenberg & Stiebel Gallery.
3 | Peter de Jode (da Francesco Vanni), Sena Vetus Civitas Virginis, particolare: Duomo, Palazzo del Granduca, Ospedale di Santa Maria della Scala, 1595-1600, incisione, Firenze, collezione privata.
4 | Anonimo, Siena, piazza del Campo, 1578 circa, disegno, University Library Salzburg, Graphic collection, H 21.
5 | Francesco di Giorgio, La Vergine protegge Siena in tempo di terremoti, 1467, tempera su tavola, Siena, Archivio di Stato, tavoletta di Biccherna n. 34.

6 | Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma, Sant’Iacopo sconfigge gli infedeli, particolare, 1530, affresco, Siena, Chiesa di Santo Spirito.

7 | Anonimo, Ingresso di Cosimo I in Siena, 1560 (?), olio su tavola, Siena, Archivio di Stato, tavoletta di Biccherna n. 64.

Quello straordinario monumento effimero di matrice antica era stato realizzato da Domenico Beccafumi per il mancato ingresso di Carlo in Siena del 1530. Saggiamente conservato nei locali dell’Opera del Duomo, fu restaurato-completato dall’artista (ASSi, Balìa 115, cc. 17r-18v, in Moscadelli-Zarrilli 1990, 696, doc. 187) e venne riutilizzato, come altri apparati, al momento giusto:

la statua d’un cavallo di smisurata grandezza con tutte le sue parti ben proportionate, tutto bianco, con fornimenti dorati, fermo tutto ne’ piei dietro et li dinanzi in aria palleggianti con l’Imperadore armato in sella.

Così si legge in un documento del 14 aprile 1536 (ASSi, Balìa 244, c. 14r, in Moscadelli-Zarrilli 1990, 696, doc. 192; Carlo V in Siena 1884, 29-30). Ancora:

un cavallo di tondo rilievo di braccia otto, tutto di carta pesta e voto dentro; il peso del qual cavallo era retto da un’armadura di ferro, e sopra esso era la statua di esso imperador armato all’antica con lo stocco in mano; […] il cavallo in atto di saltare e con le gambe dinanzi alte in aria (Vasari [1568] 1906, 644; Leydi 1999, 134).

Così Vasari ‘storico dello spettacolo’ il quale, giovanissimo, aveva collaborato alla preparazione degli apparati per gli ingressi trionfali a Bologna di Carlo V e di Clemente VII. Una esperienza di formazione decisiva (Mamone 2013, 67). Né si dimentichi la vasariana implicazione negli apparati per la venuta di Carlo V a Firenze nel 1534 (Previtali 1986, XI). Si guardi inoltre, incrociando le fonti, il destriero impennato del Sacrificio di Codro dipinto da Beccafumi in Palazzo Pubblico nella volta della sala del Concistoro tra il 1529 e il 1535-1536 (Pinelli 2004, 90 ss.). E non sarà fuor di pertinenza ricordare, su un altro versante del gusto, il topico bianco destriero al galoppo di San Iacopo che sconfigge gli infedeli dipinto nel 1530 da Sodoma per la cappella della nazione spagnola nella senese Chiesa di Santo Spirito [Fig. 6]. Se ne intendeva di cavalli il Sodoma. Nell’agosto 1514 un suo “morello fregiato a la turchesca” aveva vinto il palio alla lunga (ASSi, Biccherna 974, c. 124).

A Firenze nel precedente giugno i ‘nuovi’ Medici per riavvicinarsi all’estranea città inquieta post soderiniana avevano impalcato un ben congegnato rituale propagandistico incardinato sulle strategiche feste patronali di San Giovanni, seme forte d’identità civica. In questo contesto il palio era stato ricondotto alla tradizionale data del 24 (disattesa nel 1513, con grande scandalo di una parte non secondaria della cittadinanza). Tra gli spettatori della festa, e delle forme spettacolari politicamente eloquenti a essa collegate, vi era il cardinale senese Alfonso Petrucci, elettore di Leone X (Ventrone 2016, 347-361).

Anni dopo, quando ormai Siena e le sue accademie erano state assoggettate a Firenze da una guerra crudele, un’altra visita illustre trasformò la sala del Consiglio nel più antico e insigne teatro di Siena: quello degli Intronati più volte ristrutturato e ricostruito nel corso dei secoli (Mazzoni 2018, 94 ss.). Si aggiunga che per l’ingresso trionfale di Cosimo de’ Medici ed Eleonora di Toledo in Siena (28 ottobre 1560) erano stati approntati canonici apparati viari (Seragnoli 1980, 147 ss.; Testaverde 1990, 166-173 e fig. 3, Pietrosanti 1991, 40-67). L’anonima tavoletta di Biccherna [Fig. 7] dedicata all’evento mostra, con dovizia di particolari, l’inizio della entrata da Porta Camollia. Si noti, con un ‘cronista’ cinquecentesco, l’arco “veramente trionfale et degno di così magnanimo et glorioso principe” (Martellini 1560).

Il programma iconografico complessivo dell’entrata, reso operativo da Bartolomeo Ammannati, era stato approntato dall’accademico Travagliato Francesco Tommasi, uno dei deputati sopra l’ornato. Il principe, a differenza di Carlo V, entrò immediatamente nell’alveo inclinato del Campo. Si infrangevano in tal guisa, con quel brusco fulmineo accesso nel cuore di Siena, i “consueti percorsi dei visitatori illustri” dando vita a “un hapax nella tradizione senese” (Pietrosanti 1991, 60). Superfluo insistere sia sulle valenze politiche dell’entrée sia sul differente, speranzoso orizzonte di attesa dei senesi al tempo dell’ingresso di Carlo.

Bibliografia
Fonti
Riferimenti bibliografici
English abstract

The history of parties and theatrical performances in the modern era is never the result of simple and linear analysis, but the union of multiple levels of information that bring together the places, people, interrelations between the classes, but also the technologies, to the point that the performance historian is necessarily a historian of urban cultures. With this in mind the analysis of an exceptional event is proposed, such as the arrival in Siena of Emperor Charles V. The celebrations orchestrated by the Accademia degli Intronati used the forms of the ancient celebration, following a path that, in the succession of days, moves from the Great Hall of the city Council to the Piazza di Campo, where an equestrian monument (ephemeral, papier-mache) of the emperor is placed. The guest, according to the program of events, discovers the city in successive stages.
In a different political climate, a few years later, the entry into the city of Cosimo de Medici, the new lord of the city conquered by Florence, takes place directly in the Piazza di Campo: a different approach to the city accompanies the different political perspectives.

Keywords | Renaissance Feasts; Siena; Charles V; Cosimo de Medici.

Per citare questo articolo: Stefano Mazzoni, Sull’ingresso a Siena di Carlo V (1536) e altre questioni, “La Rivista di Engramma” n. 160, novembre 2018, pp. 35-46 | PDF dell’articolo.

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2018.160.0005