To be or not to be, Alice
Compagnia della Fortezza, Hamlice – Saggio sulla fine di una civiltà
Simona Scattina
English abstract
Il corpo del povero si spezzerebbe
Se non fosse legato dal filo del sogno.
Tonino Guerra
Una breve premessa
Alice nel Paese delle meraviglie è una di quelle favole che mantiene un fascino senza tempo e che si trasforma in una specie di allucinazione collettiva ogni qualvolta viene portata in scena. Escludendo da questo discorso i tanti spettacoli destinati a un pubblico di giovanissimi, diversi sono stati i registi che in anni recenti si sono voluti confrontare con le ragioni del nonsense carrolliano. Pensiamo ad Alice Underground di Bruni e Frongia o al reading teatrale di Odifreddi e Riondino, Alice matematica, entrambi del 2014. Alle incursioni nel mondo della danza con Alice. La grammatica delle nuvole (2014), lavoro firmato da Stefano Mazzotta (parole e drammaturgia di Fabio Chiriatti), e con Alice in Wonderland (2017) di Gianluca Schiavoni per il San Carlo di Napoli. Anche la lirica si è avvicinata a questo mondo underground con Alice nel Paese delle meraviglie (2010), opera scritta su commissione del Teatro Massimo di Palermo da un’idea e su libretto di Francesco Micheli. Il fascino anarchico di Alice supera dunque i generi e gli spazi canonici del teatro fino a oltrepassare anche la soglia del Carcere di Volterra, in cui prende corpo la straordinaria esperienza della Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo.
Nel suo ultimo volume Ripensare il Novecento teatrale. Paesaggi e spaesamenti (Bulzoni 2018) Marco De Marinis dedica un capitolo al Teatro Carcere nel quale giunge a considerare Punzo come il più radicale assertore della qualità artistica del teatro in carcere, tanto da aver dimostrato attraverso il suo lavoro il primato dell’estetico sul sociologico. A fronte di una serie di pubblicazioni specialisticamente orientate verso l’analisi e la testimonianza di esperienze di drammatizzazione dietro le sbarre (ricordiamo i Quaderni di Teatro Carcere a cura di Paolo Billi e Cristina Valenti e la rivista “Teatri delle diversità” diretta da Vito Minoia), manca ancora forse una attenta storicizzazione del fenomeno e restano alcuni pregiudizi sulla effettiva qualità di tali esperienze. Un’eccezione è data da Claudio Meldolesi, il primo a intervenire su questa materia e più diffusamente sul teatro sociale; le sue riflessioni hanno fatto sì che le diverse forme di teatro recluso uscissero dal ghetto di una pratica concepita più per i suoi risultati riabilitativi o terapeutici che per la sua peculiarità artistica.
Il Teatro Carcere è in realtà erede di quella rivoluzione teatrale che Eugenio Barba ha definito come il big bang del teatro del Novecento; da questo versante giungono oggi le innovazioni più originali mentre l’attore sociale si “fa alfiere di provocatorie proposte di nuove forme di arte e di nuove forme di bellezza, costringendoci a vederle anche là dove la pigrizia, il conformismo e la paura ci impediscono troppo spesso di riconoscerle: nel diverso, nell’altro da noi, nell’altrove” (De Marinis 2018, 303). Non è facile attraversare questa complessità sperimentando linguaggi di comunicazione razionali ed empatici, in un mondo così underground. Fare teatro in carcere significa assumere la massima complessità di un microcosmo, di un laboratorio eterno del dominio sui corpi e sulle relazioni, di esercizio di quel biopotere di cui Foucault ci ha insegnato a riconoscere le dinamiche proprio sul terreno concreto dell’orrore del carcere.
Punzo trent’anni fa ha varcato il portone della Fortezza di Volterra per esplorare con il teatro gli uomini che vi erano reclusi, per cercare forse i limiti di quella istituzione carceraria e violarli in molti straordinari modi. Nascono spettacoli come La gatta Cenerentola (1989), Marat-Sade (1993), l’Orlando Furioso (1998), Macbeth (2000), Amleto (2001), I Pescecani ovvero quello che resta di Bertolt Brecht (2003), P.P. Pasolini ovvero Elogio al disimpegno (2004), Pinocchio. Lo spettacolo della Ragione (2007), e altri testi di culto come Santo Genet (2014) e Beatitudo (2018). Con il suo instancabile lavoro Punzo ha creato quelli che lui stesso definisce “buchi nella realtà” (Cortez 2014), ridando al teatro il potere di trasformare gli spazi e le persone, proprio là dove non era previsto. Ha lavorato sul filo dell’impossibile e dell’utopia, coniando slogan eloquenti come quello del carcere come metafora del mondo esterno e quello della galera ideale (da intendersi anche nell’accezione di nave antica). Guardando alle potenzialità degli esseri umani, il carcere diviene per lui il luogo in cui creare un’esperienza il più possibile distruttiva, “distruggere per modificare era il mio obiettivo principale” (Punzo 2013, 274-275), al fine di poter fare un teatro partendo da zero, senza pregiudizi e certezze.
La Compagnia si è caratterizzata fin dalla sua nascita per un mixaggio continuo di realtà ed elementi magici, un labirinto in cui la verità e la falsità si scambiano e si confondono e in cui il teatro diviene uno stato mentale, un moto dell’animo, capace di proiettarci dentro il corpo di un linguaggio dove le parole assumono nuove forme. La ricerca artistica di Punzo consiste principalmente nell’esplorare quelli che sono ritenuti i grandi temi umani attraverso un’indagine filosofico-letteraria che si nutre di volta in volta di un’ampia bibliografia e iconografia (testi teatrali, narrativi, poetici e saggistici, musica, pittura, scultura). Lo studio sui materiali procede a livello laboratoriale attraverso scarti, deviazioni, associazioni e scomposizioni di parole, suoni e immagini al fine di generare una drammaturgia originale, che si nutre, in maniera circolare e crescente, come detto, anche della scrittura musicale e visiva. Gli attori-detenuti del carcere di Volterra – coinvolti in ogni aspetto del processo creativo affinché l’opera sia sempre frutto di una ricerca profondamente condivisa – portano in scena storie e personaggi che invertono i tempi, rifondano l’ambiente e tentano di immaginare nuovi sorprendenti confini.
Attraverso le sbarre e quel che Alice vi trovò
L’idea di lavorare su Alice nasce nella mente di Punzo dopo aver visto un Amleto non particolarmente bello in Norvegia. Al suo ritorno in Italia si confronta con un gruppo di giovani e anziani per la realizzazione di Amleto – La tragedia della realtà. Ha così inizio un viaggio che dal testo shakespeariano, i cui personaggi paiono imprigionati in un destino che non lascia loro vie di fuga, giungerà con un effetto straniante, che forse sarebbe stato congeniale a Carroll, ad Alice e a quel Paese delle meraviglie che ben si presta alle oniriche e surreali atmosfere descritte anche nell’Amleto.
Questo contributo costituisce un’ipotesi di lettura sia dello studio del 2009 dal titolo Alice nel Paese delle meraviglie – Saggio sulla fine di una civiltà, sia dello spettacolo che dallo studio si è generato, ovvero Hamlice – Saggio sulla fine di una civiltà (2010).
A contraddistinguere lo studio del 2009 è un’idea insistita di trasformazione, la possibilità di sottrarsi a un ruolo ben codificato e forse di poterlo fare per sempre. Un passo oltre la soglia e si è in un altro mondo: “Siamo nell’antro della creazione/ Nel suo inferno/ nel suo purgatorio/ Dove si è tutto e niente/ Tutto è potenziale essere/ ma non è/ e quindi non è/ dice senza dire niente/ È, ma è fuori dal tempo” (brano tratto dallo spettacolo)”. Un varco spazio-temporale che fa precipitare in un vortice, in un’ideale tana del Bianconiglio. Così gli spettatori, condotti nel cortile della Fortezza Medicea – dove gli attori a torso nudo dipingono, su ampi fogli bianchi, frasi nere – sono invitati a prender parte a qualcosa che a breve accadrà davanti ai loro occhi. Le frasi scritte sono passi della tragedia shakespeariana Amleto mentre nell’aria risuonano le note del Dies Irae di Giuseppe Verdi e una sonata di Beethoven. La porticina che si affaccia sul cortile del Carcere di Volterra apre su un altrove di stanze, pavimenti, pareti, soffitti su cui sono affissi altri fogli bianchi sempre con grandi scritte nere, un labirinto di parole che veste anche gli abiti di carta di alcuni attori e che sin da subito rende gli spettatori prigionieri, consapevoli di un mondo nuovo che fa proprie le parole di Shakespeare piegandole a coordinate spaziali iperboliche come quelle del Paese delle meraviglie di Carroll. Improvvisamente un Bianconiglio su tacchi altissimi e vestito con pantaloni neri attillati grida “Venite, venite. È tardi, è tardi” e bussando su una porta rossa con sopra la scritta “Amleto” apre quel libro che sarà attraversato dagli spettatori che, accolti da una giovane Alice vestita d’azzurro (unica donna, costumista della compagnia), potranno girare liberamente dentro questo Paese delle meraviglie senza un percorso, ciascuno a scoprire incontri che non si ripeteranno, ciascuno insieme spettatore e regista della propria unica, originale visione. Alice rincorre il Bianconiglio e gli spettatori la seguono all’interno del sogno della Compagnia della Fortezza, che si fa sempre più affollato di immagini, parole, creature che sovrastano il pubblico che si ritrova – o troppo grande o troppo piccolo – nelle piccole stanze del carcere. “Come potete vedere il luogo/ Non è quello ideale/ Basta vedere questo luogo/ E pensare ai suoi ospiti/ Per capire che una trama/ Non poteva avere / Uno svolgimento usuale”, declama un attore. Uomini bianchi in volto si muovono lentamente, attaccati alle pareti, come oggettivazioni dello spirito di trasformazione che percorre tutto lo spettacolo. Strisciano, tendendo la mano alla ricerca di una fuga da quelle pagine di cui sono parte [Fig. 1].
Punzo per questo studio su Alice immagina un luogo in cui ciascuno dei personaggi si sottrae al proprio ruolo definito. Un luogo in cui i protagonisti, spiriti liberi e pensanti, attraversano libri di altri autori, allontanandoli da tutto quello che li teneva prigionieri in ruoli immutabili. Un luogo che sembra essere, o che potrebbe essere, il teatro. “Voglio incarnare il senso di impotenza che vivono quelli che vivono per un’idea diversa, che coltivano l’amore per un’altra possibilità, non prevista, strada impervia, piena di fascino e pericoli, necessaria, inevitabile, fatale”, recita uno degli attori, e prosegue:
E posso farlo solo nel mio striminzito teatrino/ Nel mio deserto dell’anima/ Specchio della volontà di altri/ Luogo di battaglia che non vuole più combattere/ Che si difende dalla sua funzione che lo rende innocuo/ Genet muore quando diventa scrittore/ Il mio teatro che non esiste è il più straordinario che esiste al mondo/ Hamlet o Alice? Hamlice! Per metà Alice/ e per metà Amleto/ Metà Amleto e metà Alice/ Né Amleto né Alice/ Lui emerge da queste figure/ che gli sono appiccicate addosso/ Lui è il principio/ vitale/ Il teatro è una galera/ Sono chiusi in gabbia come cani/ Sono detenuti attori/ Da cui liberiamo i personaggi/ Poveri Re Claudio, Orazio, Polonio, Amleto!/ Sei obbligato/ come Prospero/ A fare e rifare/ La tempesta?/ Poverino… Poverino (brano tratto dallo spettacolo).
Ecco così che le parole di Shakespeare si intrecciano a quelle di Müller, Lagarce, Marinetti, Ruccello, Genet, Laforgue, Čechov, Moscato e a quelle scritte dallo stesso Punzo, in un collage che moltiplica gli effetti di risonanza fra corpi e parole:
Io voglio vedere quello che non si vede/ Quello che non si fa/ Quello che fa paura/ Che crea confusione/ nei cuoricini/ dei miei piccoli amici/ [...] Come potete vedere il luogo/ Non è quello ideale/ Basta vedere questo luogo/ E pensare ai suoi ospiti/ Per capire che una trama/ Non poteva avere/ Uno svolgimento usuale/ Povera Alice pubblico/ Povero pubblico Alice/ Poverino (brano tratto dallo spettacolo).
Altri autori prima di Punzo hanno minato l’involucro dell’Amleto facendo emergere le domande che in esso Shakespeare aveva posto. Basti pensare ai già citati Laforgue (ampiamente utilizzato anche da Carmelo Bene nelle sue ri-composizioni amletiche), Müller e tutti gli altri che hanno in qualche modo vissuto e non rappresentato il dramma di Amleto. Il testo shakespeariano come punto di partenza “funge letteralmente da tappezzeria” (Quadri 2009) allo scopo di denunciare l’immobilità, nei secoli, della contestazione al potere, ma è un testo ormai privo di possibilità evolutive ed ecco che Punzo e i suoi attori si muovono con assoluta libertà – i testi tra di loro non hanno nessun andamento narrativo – guardando e smontando parte della letteratura novecentesca che si presta come materia grezza a formare un affresco corale, generando quella che Franco Quadri ha definito una vera “enciclopedia” fatta di scritti che ci aiutano a comprendere meglio anche il sottotitolo, inevitabilmente politico: Saggio sulla fine di una civiltà. Lo spettatore è così chiamato ad essere parte attiva di questa azione drammaturgica.
Per Punzo il coinvolgimento degli spettatori acquista un significato inedito e potente nella misura in cui è funzionale al tentativo, come accade qui, di far “incontrare nell’arte mondi drammaticamente separati dalla vita, come quello di ‘noi’ liberi e quello dei ‘reclusi’” (De Marinis 2018, 22). Alice corre divertita in mezzo alla folla degli spettatori, incarnando la possibilità di fuggire dall’ossessione di Amleto. Davanti ad una tavola imbandita per il tè, su cui spiccano porcellane bianche ornate di scritte nere e grandi tazze di polistirolo, si muove il Cappellaio Matto. Qui, tra chicchere, piattini e tazze contaminati dei vortici delle parole di Amleto, la storia di Alice che sprofonda nella tana del coniglio viene narrata in napoletano; mentre una Ofelia dalla pelle scura, en travesti su alti tacchi rossi, si trucca davanti alla specchiera. I personaggi evadono, tentano nuove direzioni, provocano visioni di una forza straordinaria, sorretti da costumi che moltiplicano la meraviglia e lo stupore. Punzo smonta lo stereotipo del detenuto palestrato, virile, lavorando sulla fragilità dei suoi attori-detenuti. Nel mondo della detenzione, ontologicamente maschile, fa irruzione un segno transgender. Emanuela Dall’Aglio, costumista della Compagnia, a partire dagli spunti visivi del regista (immagini, quadri, film), coinvolge nel suo percorso creativo persone che vivono una privazione della libertà personale, in un certo senso una privazione di libera azione del corpo. La chiave risolutiva diventa allora il gioco attraverso tentativi continui di travestimento, l’uso di costumi che aiutano gli attori a trasformarsi e a lavorare. E così a sentirsi anche più liberi di essere. C’è la Dama di bianco vestita e truccata, con ombrellino, strascico e vaporosa parrucca [Fig. 2], ci sono Claudio, Polonio, ma c’è anche Amleto-Punzo bianco in volto, come la sua gorgiera, che vestito di nero, anch’egli su tacchi altissimi, recita davanti ad una gabbia dove sono rinchiusi dei pappagalli gialli e verdi. Tutti si vestono e si truccano a vista. Terminata la loro performance escono dalle stanzette per riversarsi nel corridoio principale dove vengono inghiottiti da altri testi e da altre situazioni. I personaggi mettono in discussione loro stessi e lo spettatore che vive un’analoga trasformazione, liberandosi dalla prigione che delle volte può costruire intorno a sé.
Le vostre storielle andate a leggerle a casa vostra/ Noi qui non facciamo letteratura/ Non siamo letteratura/ La letteratura è un’aberrazione/ una distorsione umana/ che vuole dar senso al vuoto/ che sentiamo oltre le nostre (vostre) misere esistenze.../ Non siamo una possibilità di fuga/ Io sarei il caso umano/ Io vado bene per fare il delinquente negli sceneggiati/ Posso fare un poliziotto dei falchi/ Io posso servire per realizzare un film come Gomorra/ Posso servire per realizzare un’opera da tre soldi/ Posso essere un esempio genettiano/ A me il posto me l’avete già assegnato/ Questa è la vostra identità pensata per me/ Tenetevela (brano tratto dallo spettacolo).
Il carcere, come il Castello di Elsinore, è metafora di separazione e distanza così come della prigionia psicologica di Amleto. In questo studio l’Amleto shakespeariano è il luogo, la scena, una fortezza inespugnabile da cui però i personaggi, come detto, si liberano cercando la loro personale ispirazione in altre opere e soprattutto nel mondo anarchico di Alice: così il Castello si trasforma nella tana del Bianconiglio che risucchia tutti, attori e spettatori, verso un mondo all’incontrario [Fig. 3].
Il testo di Carroll rimane sotto traccia, quasi scompare. Frammenti sparsi nei monologhi farneticanti di Amleto e giusto il racconto dell’inizio del primo capitolo, Nella Tana del Coniglio, in uno strettissimo napoletano a tratti incomprensibile, che tuttavia ci restituisce l’unica legge che, per Civati, regge il mondo di Alice: quella della metamorfosi, che trasforma le persone e le cose, dissolvendole nella fantastica pantomima delle possibilità. Alice giunge in soccorso di Amleto, libera i personaggi, i testi, le persone dai loro ruoli, ma forse li inchioda, per aprire la ferita della necessità della liberazione.
Alice e Amleto, oltre lo specchio
Nel 2010 Punzo ritorna su questo studio ricavando Hamlice – Saggio sulla fine di una civiltà (premio Ubu alla regia), summa del percorso di lavoro dell’anno precedente e frutto di una co-produzione con il Teatro Metastasio di Prato. Lo spettacolo, realizzato nuovamente presso il Carcere di Volterra e in diversi teatri, può, per praticità, essere diviso in tre atti e un prologo dove ogni atto coincide con uno stadio del processo di liberazione espressiva dei personaggi in scena. A inizio spettacolo, durante il prologo, il pubblico si ritrova davanti a un portone-copertina del libro che mostra il sigillo di Amleto, mentre dall’interno provengono degli strani suoni. Si diffondono anche le note dell’Adagio di Albinoni e una litania. Quando le porte si aprono il pubblico viene invitato a percorrere un corridoio bianco, scortato dal Cappellaio Matto e dal Bianconiglio che invitano al silenzio, per entrare nel labirinto della Fortezza o in sala attraverso due corridoi separati nel caso di allestimenti in teatro con scena frontale. Qui faremo riferimento allo spettacolo andato in scena presso il Teatro Fabbricone di Prato, ma ricordiamo che lo spettacolo è stato messo in scena nel 2011 presso il Teatro Olimpico di Vicenza e presso l’Hangar Bicocca di Milano.
Se in carcere Punzo e i suoi attori possono lavorare sul carattere di simultaneità delle azioni sceniche, per cui il pubblico può vagare tra le celle e scegliere la sua personale visione, decidendo quale pista del racconto seguire, il Teatro Fabbricone ha imposto agli spettatori una visione frontale, parzialmente mitigata dagli attori che si muovono tra il pubblico rompendo la famosa quarta parete. Sempre la visione frontale ha condizionato la scansione temporale dello spettacolo presentando in maniera progressiva le singole performance che procedono per quadri visivi con i cammei degli attori e dei bellissimi tableaux vivants in cui la messinscena ha sempre qualcosa di infantile e richiama il clima fiabesco di Alice.
Punzo-Amleto è l’officiante di questo rito che, tenendo un libro in mano, pronuncia ad alta voce: “Questo è il teatro della corte, ci vuole coraggio ad entrare qui dentro”. In mezzo al pubblico si fa strada il Bianconiglio con indosso tacchi a spillo e due enormi orecchie sul capo, mentre sul palcoscenico, dietro un candido nylon come foglio non scritto, è schierata tutta la corte, una parte vestita di bianco (la Regina, i cortigiani, la Dama bianca) e una parte vestita di nero (Polonio, Orazio). Il telo si alza e Amleto si dirige verso quella ‘fotografia’ di personaggi, pronti a mettersi in moto. La prima parte dello spettacolo è interamente dedicata al sogno di Amleto: i ricordi del passato, i sogni veri e quelli ad occhi aperti si affastellano e finalmente Amleto è libero di gestire il proprio ‘io’. Compaiono così dinnanzi a lui i personaggi veri e fittizi della sua vita [Fig. 4]. Mentre un Cappellaio Matto-Shakespeare verga parole in aria i personaggi prendono vita e si muovono all’interno della scena. Ci sono Claudio, Gertrude, Rosencrantz e Guildenstern, Polonio, Orazio, Ofelia e le guardie della torre che si muovono come fossero soldatini di piombo. Alice, vestita di bianco e celeste, presenza costante per tutto lo spettacolo, inizialmente rimane sullo sfondo, appoggiata a un enorme orologio in polistirolo, come a voler osservare, incuriosita, questi strani personaggi che le sfilano dinnanzi [Fig. 5]. Gli attori si muovono su una gigantesca scacchiera bicolore (bianco e nero) con tre pedine (il cavallo, la regina e l’alfiere) e due cigni, mentre sul fondale campeggiano i frammenti del testo shakespeariano e un teatrino di color rosso dove poi si esibiranno alcuni personaggi. La scena è tutto un crollare di monoliti in polistirolo, di uomini che cantano dolcissime melodie come fossero dei soprani, con incursioni nel mondo di Alice nel Paese delle meraviglie e i personaggi che attraversano la scena inseguendo un Bianconiglio che si trascina un sacco nero. Lo spettatore è stimolato sia dalla percezione visiva che da quella uditiva (le musiche dal vivo sono eseguite da Andrea Salvadori). Punzo-Amleto recita: “La fantasia mia travolge la ragione. Questo è un teatro della corte, in questi sospiri c’è qualcosa”, ma quando aggiunge “la Danimarca è una prigione!” ha nominato ed evocato sia il teatro sia il carcere e a partire da questo binomio si mette in moto l’azione. Punzo-Amleto, tenuto per mano da Rosencrantz e Guildenstern, si distende con il capo a testa in giù sulla pedana centrale (di grotowskiana memoria, ma la posizione rievoca alla mente anche la Crocifissione di San Pietro di Caravaggio), mentre il dramma procede a frammenti: il colloquio con le guardie, il dialogo tra Amleto e Claudio e tra Amleto e Yorick, fino a culminare nell’apparizione dello spettro che, proiettata sul fondale scuro di fronte a una chiave illuminata, recita: “se mai amasti il tuo caro padre, vendica il suo turpe e mostruoso assassino”. Punzo allora veste i panni della Regina Cattiva e ricorda l’assassino Weidmann; Genet, che come un cortocircuito tornerà spesso in questo spettacolo, come nell’intera produzione di Punzo, è il testimone dell’umanità della cosiddetta disumanità, di quei muri alzati contro le diversità col risultato di produrre chiusure e tragedie.
A mettere in moto la seconda parte dello spettacolo è l’impossibilità da parte del protagonista di vendicarsi che attiva negli altri personaggi, fuoriusciti dal teatrino di corte, una follia quasi carnevalesca. Questi si esibiscono recitando chi un poemetto nonsense di Carroll, l’unico frammento di testo citato, pubblicato in Attraverso lo specchio e quel che Alice trovò – è raccontata per esteso da Tweedledee la storia de Il tricheco e il Carpentiere –, oppure interpretando in lingua napoletana Ferdinando di Annibale Ruccello o un brano di Enzo Moscato con la Regina Rossa che propone al pubblico Little Peach. Memorie di una spogliarellista, confessando di essere Ermelinda Farinucci, Little Peach e “mi raccomando Little Peach con la P di Palermo e non con la B che in americano vuol dire ben altra cosa, è una parolaccia, fate attenzione.../ [...] Pensate/ Essere Linda più che Ermelinda [...]/ È sempre stato il mio dilemma/ Tale e quale al dilemma di Amleto/ Dio come lo capisco/ Poverino...”. Storie di inarrestabile degrado, di sogni infranti che per l’appunto si concludono con la presenza in scena del cantante Maurizio Rippa che intona la struggente ballata di Marianne Faithfull, Who will take my dreams away, che recita “I can’t give you all my dreams. Nor the life I live”. Riemerge anche Shakespeare: “troverò la verità foss’anche nascosta al centro della terra” dichiara Punzo-Amleto confessando così la sua malattia mentale e il suo tormento a Ofelia, nera Drag Queen seduta davanti ad una specchiera. Ma le parole non sono più sufficienti ad esprimere il tormento di un uomo che sta per soccombere sotto il peso delle sue stesse frasi, e allora, per antitesi, la scena non può che divenire in un caleidoscopio carnevale con Punzo-Amleto che pronuncia una frase che è anche il leitmotiv dello spettacolo: “It’s so nice to have you here, with me!”. Risuonano nell’aria la parola “Cricket!” o l’espressione “Tagliatele la testa!”, il Paese delle meraviglie sta per esplodere e Alice giungerà per liberare Amleto dai suoi incubi.
Si arriva così alla terza e ultima parte dello spettacolo in cui la Dama bianca con una grande parrucca e un ombrellino, mentre sul suo corpo viene proiettato un video che mostra brani dell’Amleto scritti al contrario, affronta un monologo rivolto al pubblico tratto da Hamletmachine di Müller:
Io non sono Amleto/ non recito più alcuna parte/ le mie parole non dicono più niente/ i miei pensieri succhiano il sangue alle immagini/ il mio dramma non ha luogo/ Dietro di me verrà approntato l’ornamento/ Da gente cui il dramma non interessa/ per gente cui non ha più niente da dire/ Neanche a me interessa più/ Non sto più al gioco/ L’ornamento è una statua/ Rappresenta/ ingrandito cento volte/ un uomo che ha fatto la storia/ Pietrificazione di una speranza/ Il nome lo si può cambiare a piacere/ La speranza non si è realizzata (brano tratto dallo spettacolo).
La Dama abbandona la scena, le allucinazioni s’interrompono e parte una musica da carillon che introduce una nuova performance di Punzo-Amleto che si siede nel teatrino rosso. Amleto non sta più al gioco e Alice arriva in suo soccorso portando con sé uno specchio e nuovi vestiti. Punzo si ricompone struccandosi della maschera della follia, ricoprendo la faccia di bianco e indossando un’ampia gonna. “Amleto, malato di voglia di giustizia, ritorna bambino, seduto a terra con le gambe divaricate quasi fosse una marionetta, e si imbelletta in attesa di crescere” (Buttiglieri 2010). Alice divertita lo osserva da vicino mentre un grande coniglio di polistirolo viene posto sul palcoscenico. La trasformazione è completa: Amleto è Alice o meglio, è Hamlice [Fig. 6].
Bene, bene, bene/ Dopo un capitombolo come questo/ una caduta per le scale mi sembrerà proprio uno scherzo/ A casa troveranno che sono proprio coraggiosa/ Anzi, sono sicura che non avrei paura/ Nemmeno se dovessi cadere dal tetto di casa/ Chissà quanti chilometri di caduta ho fatto fino ad ora/ Ormai dovrei essere vicino al centro della terra.../ Vediamo/ Dovrebbero essere più di seimila chilometri di profondità/ Si! Deve essere proprio la distanza giusta/ Però io vorrei conoscere il grado/ di latitudine e di longitudine che ho raggiunto/ Chissà se attraverserò tutta la terra.../ Sarebbe divertente ritrovarsi tra la gente che cammina a testa in giù/ Mi pare proprio che si chiamino gli/… an...tipatici, sì!/ Gli an… tipatici (brano tratto dallo spettacolo).
Amleto è finalmente libero di gestire il suo ‘io’, così fa comparire davanti a sé tutti i personaggi veri e fittizi della sua vita. Uno degli attori nei panni di una Drag Queen, intonando con un forte accento napoletano la canzone di Sergio Cammariere L’amore non si spiega, a un certo punto recita citando Notre Dame des Fleurs di Jean Genet:
Non gridate all’inverosimiglianza/ Ciò che seguirà è falso/ e non siete tenuti a prenderlo per oro colato/ La verità non m’interessa/ Ma bisogna mentire per essere veritieri/ Anzi, andare anche oltre/ Di che verità parlo/ Se è vero che sono un condannato/ intento a recitare e a recitarsi/ scene della propria vita interiore/ non esigerete nient’altro che una recita/ Sulla mia propria pelle/ dentro di me/ voglio vivere il termine della scissione/ Per quelli che vivono un’idea diversa/ che coltivano l’amore per un’altra possibilità non prevista/ Il mio teatro/ che non esiste/ è il più straordinario che esiste al mondo/ sono i personaggi che incarnano lo spirito/ Siate dei personaggi fantastici/ pieni di fascino e pericolo/ Per poi risvegliarvi in un luogo buio e freddo/ e sentire che ad ogni risveglio un anno è passato/ Bisogna a ogni costo che ritorni a me/ che mi confidi in un modo più diretto/ Questo spettacolo che ho voluto fare/ con gli elementi trasposti/ sublimati/ della mia vita di condannato/ Temo che non dica niente delle mie ossessioni/ Sebbene cerchi di costringermi a uno stile spoglio/ scarno fino all’osso/ vorrei inviarvi/ dal fuoco della mia prigione/ uno spettacolo traboccante di fiori/ di gonne vaporose/ di nastrini azzurri.../ Credetemi/ non c’è passatempo migliore... Wow! (brano tratto dallo spettacolo).
Punzo e i suoi attori fanno i conti con la sofferenza che ricavano dalle parole Genet. Cercano di colmare con la loro corporeità, con i loro vissuti, il vuoto di una contemporaneità che ha perso ogni grammatica sentimentale, nel tentativo di ricreare l’ossatura di quella grammatica antica. Il personaggio di Divine Culafroy di Notre Dame de Fleurs è solo un pretesto per parlare di loro, di tutti noi. A poco a poco rientrano gli altri attori mentre Punzo, Nera Signora dei Fiori, in abito talare nero e con un ampio copricapo di piume di struzzo, chiede ossessivamente: “Qual è l’idea? Qual è l’idea? Qual è l’idea? Tutte le parole in rivolta, tutte le parole fuori da questo libro istituzione. Fuori, fuori, fuori, addio, IO sono una colpa verso la natura, NOI siamo una colpa verso la natura”. Siamo alla scena finale e mentre gli attori distribuiscono lettere di polistirolo tra il pubblico Punzo continua con frasi ad alta densità visionaria: “girano, girano, girano, girano le lettere nel teatro della corte, fuori, tutte le parole in rivolta, tutte le parole che perdono il loro luogo, girano, girano, volano, volano volano le parole nel libro leggere, leggere, leggere… la rivolta tocca tutti, tutti partecipano...”, provocando un’apoteosi di lettere dell’alfabeto lanciate in aria da tutti e caricando il pubblico della responsabilità di trovare una lingua capace di un senso altro e autentico: “cancella questo mondo, volano, volano, in questo libro, istituzioni, prigioni, addio, addio, non essere, addio, a Dio-Non-Essere, non essere, non essere, addio”. A ribellarsi stavolta non sono solo i personaggi della tragedia shakespeariana, ma anche le lettere stesse, che reclamano nuove combinazioni, nuovi contesti e nuovi valori. Lo spettatore, ancora una volta, è chiamato a partecipare a un sogno collettivo, a far parte della ritualità di un teatro che si pone al servizio della collettività e che tende ad una condivisione culturale. La posta in gioco è alta: è un chiamare l’attore e tutti noi alla ribellione come già fecero, tra gli altri, Artaud (ricordiamo anche un’Alice tutta artaudiana, Alice in manicomio. Lettere e traduzioni da Rodez), Grotowski e Camus nel secolo scorso.
Con questo spettacolo, come per lo studio del 2009, Punzo scava coraggiosamente nell’abissale profondità del corpus shakespeariano e carrolliano in cerca di vuoti, sottotesti, non detti, personaggi mancati, ombre. Il confronto con gli originali è libero e spregiudicato ma allo stesso tempo serio e rigoroso. Come ha dichiarato lo stesso regista sia Amleto sia Alice raccontano due modi, seppur diversi, di negarsi alla vita, di fuggire dalle responsabilità, ma soprattutto due modi di trasformarsi per fuggire da un ruolo prestabilito “Amleto non basta più, bisogna avere la possibilità di modificarsi. Gli attori leggono Shakespeare e trovano altre parole, come Alice vanno oltre lo specchio” (Danese 2010). Ed ecco che allora va in scena l’inconscio di Amleto e la sua trasformazione che coincide con la sua liberazione. Questo procedimento passa attraverso l’anarchia di Carroll ben sottolineata da Masolino d’Amico; Alice nel Paese delle meraviglie è il punto di massima distanza dagli intrighi di potere di un palazzo, la possibilità di un viaggio iniziatico, della scoperta, del non-senso rispetto al senso. Lo spirito è di attraversare anche Alice, in un gioco infinito per cui si può attraversare tutto (in mezzo ci sono anche gli altri autori evocati, e anche quelli sono tutti attraversamenti, possibilità temporanee di vedere, di provare, di indicare un viaggio per rimettere in discussione tutto, ripartire da zero), è questa l’invito. Ma per rendere tutto ciò comprensibile Punzo ha fatto delle scelte, da Amleto verso Alice, con questo movimento interno che tende ad attraversare Alice ma anche a abbandonarla, non sostituendo di fatto la tragedia con la favola. Con questo procedimento Punzo ha proiettato la differenza in una bellezza struggente, nella costruzione di un altrove che renda infuocata la necessità di metamorfosi.
Riferimenti bibliografici
- Attisani 2013
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S. Buttiglieri, Amleto nel Paese delle meraviglie, “Giudizio Universale”, 15 dicembre 2010. - Ciari 2011
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English abstract
Alice in Wonderland is a story that has nurtured the imagination of many theatre directors who in recent years have wanted to measure themselves against the ‘nonsense’ created by Carroll. Alice, a curious girl who oversteps barriers and prejudices, in 2009 crosses the threshold of the Medicean Fortress of Volterra to enter the prison. Born as a study entitled Alice nel Paese delle meraviglie – Saggio sulla fine di una civiltà, that would then give life to the play Hamlice - Saggio sulla fine di una civiltà (2010). The creator of both projects was Armando Punzo, who for thirty years has explored the limits of prison as an institution through theatre in order to disrupt them in many extraordinary ways. This essay is a reading of both productions of the Compagnia della Fortezza (the company of detainees/actors in Volterra prison), in which Punzo goes beyond the pages of the texts to show us that we can go deeper – into Shakespeare’s Hamlet, for example (but not only). Alice provides the Leitmotiv of the performance as Hamlet and Alice express in two ways, however different, how to reject life and retreat from responsibilities, but above all to transform themselves in order to escape from a pre-established role.
keywords | Alice in Wonderland, theatre, noonsense, Volterra, Armando Punzo, Compagnia della Fortezza.
Per citare questo articolo: Simona Scattina, To be or not to be, Alice. Compagnia della Fortezza, Hamlice – Saggio sulla fine di una civiltà, “La Rivista di Engramma” n. 161, dicembre 2018, pp. 97-114. | PDF dell’articolo