La Fortuna bimillenaria del mito di Ovidio
Introduzione al catalogo e ragioni di una mostra*
Francesca Ghedini
English abstract
In una data imprecisata, fra il 17 e il 18 d.C., moriva solo e dimenticato da tutti uno dei più illustri rappresentanti della latinità, Publio Ovidio Nasone, raffinato interprete del mito greco e romano. Il poeta, nato a Sulmona nel 43 a.C., era vissuto a Roma fra aristocratici e intellettuali, fino a che nell’8 d.C. per una colpa di cui ancora ignoriamo l’esatto contenuto un duro editto lo aveva condannato a una relegatio senza ritorno in una sperduta località della nebbiosa Scizia, ai confini del mondo conosciuto (Ov. Pont. II 7, 66: “ultima me tellus, ultimus orbis habet”). Tomi era il nome di questa località: un nome che doveva suonare come un sinistro presagio alle orecchie dell’elegante “cantore di teneri amori”, come egli amava definirsi (Ov. Trist. 4, 10, 1), poiché la sua radice, la medesima del verbo temno (in greco tagliare), evocava le drammatiche vicende della saga di Medea, che proprio in quel luogo avrebbe fatto a pezzi il fratello per sfuggire all’inseguimento del padre (Ov. Trist. 3, 9, 5-6; vedi anche Ov. Ib. 433-434). Sono passati duemila anni da allora e Ovidio è ancora fra noi: l’anno che si è appena concluso ha visto un fiorire di eventi (incontri, seminari, convegni, letture, mostre tematiche...) tesi a lumeggiare le diverse sfaccettature della sua personalità, della sua poetica, del mondo in cui visse e della sua fortuna in età moderna. E di ciò non ci possiamo meravigliare perché fra i grandi della latinità a Ovidio spetta un posto di particolare riguardo, per l’ampiezza della produzione, per la varietà degli argomenti trattati e per la capacità di fissare indelebilmente nella memoria collettiva le complesse vicende di dèi, eroi, giovinetti e ninfe che avevano popolato l’immaginario antico, facendosi anche interprete talvolta creatore di personaggi indelebili come l’Ermafrodito dalla doppia natura, l’ambiguo Narciso, l’arrogante Niobe, l’irruente Fetonte...
Ma Ovidio non è solo questo: la sua vasta produzione poetica offre al lettore la chiave per aprire tante porte, per entrare in mondi diversi, per comunicare emozioni, suggerire nuove prospettive. Ovidio, ad esempio, è fonte preziosa per conoscere la Roma del suo tempo: Roma come città (di cui il poeta cita luoghi e percorsi); Roma come società (la Roma gaudente degli spettacoli teatrali, dei banchetti, delle donne imbellettate, degli amanti focosi); Roma come luogo del potere, un potere impersonato da un princeps tanto astuto quanto spregiudicato (un vero politico, insomma), che era stato capace di mettere in atto un cambiamento epocale trasformando una costituzione di tipo repubblicano in un regime monocratico, un princeps che aveva una visione del futuro della sua città e del suo popolo, basata sul recupero del rigore morale e su un’organizzazione statale che doveva segnare, almeno all’apparenza, un ritorno alla grande tradizione repubblicana. Ovidio invece, frequentatore dei salotti ‘buoni’, dove gli intellettuali – allora come oggi – si esercitavano nell’antico gioco della contestazione, era acceso sostenitore delle gioie dell’amore e vagheggiava un impero di tipo orientale, allineandosi al progetto che era stato del rivale di Augusto, Marco Antonio.
Un’altra prospettiva che Ovidio apre è, ovviamente, quella della poesia del tempo, di cui fu sofisticato protagonista e abile innovatore, capace di inaugurare nuove forme letterarie, come quando scelse il genere epistolare per creare dolenti storie di eroine tradite (Ov. Ars 3, 346: “ignotum hoc aliis ille novavit opus”) o quando applicò i principi della didattica all’arte di amare, offrendo al suo pubblico un vero e proprio manuale in cui indica i luoghi propizi agli incontri, svela i trucchi e gli inganni del gioco più antico del mondo, suggerisce menzogne e stratagemmi per sedurre, conquistare, perfino per abbandonare senza conseguenze l’oggetto di un desiderio ormai appagato. Innovatore fu anche nei poemi della maturità in cui trattò temi epici, cosmogonici e religiosi, confluiti in quella storia del mondo dalla prospettiva del cambiamento che ha donato a contemporanei e posteri il più grande compendio della mitologia classica. Anche dal disperato esilio di Tomi seppe creare nuove formule narrative in cui si possono cogliere i primi spunti di quel romanzo autobiografico che di tanta fortuna godrà in età moderna. E tale era la forza della sua musa che egli fu in grado di poetare anche in lingua getica (Ov. Pont. 4, 13, 19-21).
Ma Ovidio ci aiuta anche a conoscere e comprendere la cultura figurativa del suo tempo, quella cultura di cui egli, esperto conoscitore di luoghi e monumenti, era profondamente compenetrato e che la sua prolifica Musa ha fissato in immagini vividissime, che sono arrivate fino a noi grazie anche al paziente lavoro degli amanuensi: nel chiuso dei cenobi, di cui l’indimenticabile Umberto Eco ci ha fornito un affascinante se pur romanzato spaccato, le sue opere furono pazientemente trascritte da monaci colti e raffinati che ci hanno preservato anche i suoi versi più audaci. Dal Medio Evo al Rinascimento la fama del poeta continuò a crescere grazie anche al fatto che aristocratici e nuovi ricchi scoprirono il valore emblematico della classicità e scelsero di ornare le proprie dimore con immagini ispirate a quel mondo fantastico e crudele che era sopravvissuto anche in virtù della forza dei versi del poeta di Sulmona.
Ovidio è tutto questo e molto di più e il bimillenario è stata l’occasione e non la ragione della mostra. La scelta di parlare di lui a duemila anni dalla sua scomparsa è stata dettata dal desiderio di comunicare frammenti di questo grande personaggio, nell’auspicio che ogni visitatore possa portare con sé un’informazione, un’immagine, uno scorcio della società del tempo a seconda della sua sensibilità e della sua cultura: qualcuno, mi auguro, avrà più chiari i motivi del conflitto con Augusto; altri comprenderanno meglio l’importanza che il paziente lavoro degli abili copisti e illustratori ha avuto per formare la cultura occidentale; qualcuno uscirà riesumando vecchie memorie scolastiche sulle eroine dell’epos e del mito, altri si chiederanno perché certi racconti, crudeli e sanguinari, ornavano i cassoni che contenevano il corredo che le giovani spose portavano in dote; alcuni, infine, saranno incuriositi, attirati, affascinati da uno o più degli straordinari oggetti esposti in mostra, dalla loro storia, dal loro significato e dal valore che essi rivestono per ricostruire un’epoca o un mito.
Il nostro auspicio è che ciascuno possa provare un’emozione, trovare uno spunto e portare con sé almeno un frammento del nostro progetto.
La mostra: temi e manufatti
I temi trattati nella mostra sono sostanzialmente tre con diverso peso nella sequenza delle sale: l’amore; il contrasto con Augusto; il mito. Per illustrarli sono esposti più di duecento manufatti, della più diversa specie e cronologia (le opere esposte, alcune delle quali mai viste in Italia, sono state prestate da una cinquantina di Musei italiani e stranieri): dagli oggetti di età augustea, che il poeta può aver visto con i suoi stessi occhi come la panoplia della bellezza femminile, le gemme che inanellavano le dita delle ricche matrone dell’epoca, le monete che illustravano le scelte ideologiche del princeps, gli affreschi che ornavano le case e le ville degli aristocratici che egli frequentava, le sculture esposte nei giardini, e anche le metope della Casa di Ottaviano sul Palatino [Fig. 1], a una selezione di opere della piena età imperiale, che mostrano come la parola di Ovidio si era fatta immagine e aveva saputo condizionare anche il repertorio a lui successivo. Non mancano alcuni straordinari vasi greci e magnogreci, utili per far comprendere che Ovidio nella maggior parte dei casi non è il creatore ma l’interprete di un mondo mitico formatosi prima di lui, a cui la forza immaginifica della sua parola seppe dare una forma che si fissò indelebilmente nell’immaginario collettivo. Un ruolo di primo piano nel percorso espositivo assumono i codici, mediatori e protagonisti a un tempo: mediatori in quanto nella versione latina riproducono integralmente i suoi versi, protagonisti perché a partire dal XIII-XIV secolo i suoi poemi, e soprattutto le Metamorfosi, iniziarono a diffondersi anche in traduzioni nelle nuove lingue ‘volgari’ e in rielaborazioni moralizzate che presentavano i testi ora depurati da certi eccessi, ora reinterpretati in chiave cristiana, ora anche romanzati attraverso l’attualizzazione dei personaggi. Non meno importanti sono le versioni a stampa, prima forma di democratizzazione della cultura, che contribuirono a diffondere anche fra la ricca borghesia la parola del poeta, fino ad allora appannaggio di chierici e monaci e di pochi intellettuali aristocratici che potevano permettersi di commissionare i costosi manoscritti miniati (Toniolo 2018).
I codici fungono da filo conduttore e da collegamento fra antico e moderno, un moderno che si è concentrato sulle grandi stagioni di Rinascimento e Barocco, quando non c’era personaggio di spicco che non desiderasse possedere opere ispirate alla classicità rivisitata attraverso lo specchio del mito: cicli di affreschi e opere di grande formato da esporre nelle sale da ricevimento, a cui affidare un messaggio di auto rappresentazione sociale e culturale, o deliziosi piccoli quadri per i boudoir o le camere da letto. Ma l’influenza di Ovidio non si è fermata al Rinascimento e al Barocco: le sue storie hanno continuato a fornire ispirazione a pittori, scultori, incisori, che spesso hanno messo in scena episodi e personaggi che in antico non avevano avuto fortuna iconografica: ne sono esempi straordinari Filemone e Bauci, la coppia di dolcissimi coniugi che chiedono e ottengono di cessare la loro vita umana nello stesso momento, Deucalione e Pirra, a cui si deve il ripopolamento del mondo dopo il diluvio, e l’ovidianissimo Pigmalione, che si innamora della sua creazione, una scultura in avorio che egli vezzeggia come una vera fanciulla e che vera fanciulla diviene per grazia di Venere (Schiesaro 2018 e Farinella 2018).
Raccontare un poeta attraverso le immagini
Nella prima sala il visitatore incontra il poeta: certo la sua complessa vicenda umana, la sua spregiudicatezza nella gioventù, la sua piaggeria cortigiana negli anni dell’esilio non possono essere illustrati, ma Ovidio è presente con le sue opere, tramandateci nei preziosi codici, spesso elegantemente miniati, e nelle prime edizioni a stampa, che hanno preservato quella poesia a cui aveva dedicato tutta la vita e a cui aveva affidato il suo riscatto. E immagini idealizzate del poeta stesso si trovano talvolta sui frontespizi, dove i miniatori lo hanno raffigurato intento alla scrittura dei suoi versi oppure nell’atto di mostrare con orgoglio la sua opera. Non mancano profili di uomini imberbi, coronati d’alloro, che cercano di cogliere l’ombra del suo volto perduto. E pensare che quel volto, che noi possiamo solo immaginare, ornava l’anello con cui egli sigillava le sue lettere (Ghedini, Salvo c.s.).
Ma per far comprendere quanto la complessa personalità di questo poeta abbia suscitato l’interesse dei posteri accanto ai manoscritti sarà presente in mostra un fantasioso e assorto ritratto cinquecentesco del poeta abbigliato in una sontuosa veste orientale, che, attraverso un improbabile turbante moresco, evoca l’esilio nella lontana Tomi.
Maestro d’amore
L’Eros con l’arco, di cui Ovidio ci fornisce una fulminea quanto efficace descrizione (“piegato il ginocchio, curvò il flessibile corno / e colse Dite nel cuore col missile alato”: Ov. Met. 5, 383-384), può essere considerato il simbolo della poesia giovanile del poeta illustrata nella prima parte della sala 2; una poesia che nella sua primissima produzione si allinea al gusto del tempo e, non diversamente da Tibullo o Properzio, canta l’amore verso una sconosciuta Corinna, che invano la critica si è sforzata di identificare. Suggestiva, ma indimostrabile, l’ipotesi di Lorenzo Braccesi (Braccesi 2012, 110) di riconoscere nella donna amata dal poeta Giulia, la figlia dell’imperatore (sul mistero di Corinna vedi Ov. Am. 2, 18, 29: “conosco una che dice di essere Corinna”; Ov. Ars 3, 538: “tutti vogliono sapere chi ella sia”). Nei tre libri degli Amores il poeta indaga i patimenti d’amore, i tradimenti, gli inganni, i sotterfugi, ma anche le gioie che gli amanti colgono nella penombra delle loro alcove. E i gesti che Ovidio descrive, i baci appassionati (Ov. Am. 2, 5, 22; III, 7, 9), le mille posizioni dell’amore (Ov. Am. 3, 15, 23-4) trovano riscontro nelle sculture, nei rilievi, negli affreschi, nelle gemme che parlano di una società libertina di cui il poeta si era fatto interprete e maestro.
E nello scrivere d’amore, in chiave sia personale che didattica (come fa nell’Ars amatoria), Ovidio sbircia da porte semiaperte interni domestici, dove indolenti matrone e indaffarate servette si muovono preparandosi a incontri clandestini; il poeta descrive le acconciature delle donne (Ov. Ars 2, 304-5: “se avrà i capelli con la riga in mezzo, loda la riga in mezzo; se si è fatta i ricci con il ferro, viva i capelli ricci”), la cura quotidiana con i belletti (Ov. Ars 3, 199 sgg.: “se qualcuna ha il colorito esangue, c’è il rosso artificiale... e non avete vergogna di segnare gli occhi con cenere sottile oppure con il croco”), le vesti sontuose, i gioielli…
A questo argomento, fondamentale per la seduzione, Ovidio dedica un manualetto: Medicamina faciei femineae. “C’è un mio libretto in cui esposi per voi le cure di bellezza” (Ov. Ars 3, 205). Oggetti d’uso quotidiano che ci sono pervenuti in gran numero, come le splendide retine d’oro entro cui le matrone imprigionavano le loro lunghe chiome, i pettini d’avorio e d’osso finemente decorati, gli specchi d’argento o di bronzo dorato, su cui dare un’ultima occhiata al proprio volto prima di incontrare il corteggiatore del momento, e poi le pissidi e i piccoli vasi di vetro che contenevano trucchi, unguenti e profumi, e i gioielli per ornare le dita, il collo, le caviglie e apparire ancora più belle. Bellezza, seduzione, erotismo, sono le cifre distintive del messaggio che il poeta trasmette con i suoi scritti, un erotismo gioioso, libero, ironico che informava di sé una società che invano il princeps tentava di moralizzare.
Il conflitto con Augusto
Ma questa visione dell’amore come libero piacere della carne che non conosce limiti o confini, che il poeta propugnava con forza, non poteva piacere al reggitore dell’Impero, quell’Ottaviano che divenuto Augusto si era premurato di promulgare a più riprese leggi per la moralizzazione dei costumi (Raditsa 1980); e non si può parlare di Ovidio senza parlare di Augusto e della sua famiglia perché è nella contrapposizione fra due visioni del mondo e del futuro di Roma che si consuma il destino del poeta ed è a questa contrapposizione che è dedicata la seconda parte della sala 2. La politica interna di Augusto poggiava sui due pilastri della moralità che il dissacrante poeta aveva così sbeffeggiato con la sua ‘didattica’ erotica (ha un bel ripetere il poeta che i suoi scritti non sono per le matrone: Ov. Ars 1, 31 “lontane di qui le bende sottili”; 2, 600 “nei nostri scherzi non c’è nessuna veste di matrona”): tutti i suoi ‘precetti’ sono un inno all’infedeltà coniugale, con la sua vita e le sue libere frequentazioni, e avversi alla religione tradizionale, di cui il princeps si era eretto garante e custode da quando, nel 12 a.C., aveva assunto anche la carica di pontifex maximus. E nelle vesti sacerdotali con il capo velato Augusto è ritratto nella bellissima statua da Aquileia. Il rigore morale e la pietas erga deorum erano stati fatti propri anche dalla moglie Livia, che soprattutto nelle statue postume è effigiata con il manto che sale a coprirle il capo. Ma se la prima signora dell’Impero, che discendeva da una delle più illustri casate dell’aristocrazia romana, aveva saputo diventare emblema e simbolo della politica augustea (che ella non solo aveva condiviso ma probabilmente anche incentivato), non fu così per altri membri della famiglia, che si trovarono spesso in celato o aperto contrasto con la coppia imperiale.
Fra questi spicca l’unica figlia dell’imperatore, quella Giulia nata dalla breve unione di Ottaviano con Scribonia, che era stata fin dall’adolescenza costretta a contrarre matrimoni politici con uomini che non amava: prima Marcello [Fig. 2], nipote di Augusto, poi Agrippa, il fedele compagno di tante battaglie, e infine Tiberio, figlio di Livia e futuro imperatore.
Fu forse questa la molla che spinse la donna a ribellarsi al padre, praticando liberi costumi in aperta violazione alle leggi del princeps facendosi interprete di una diversa concezione della società e dello Stato, che la rendeva pericolosa e invisa ai vertici dell’Impero; nel 2 a.C. ella incorse in una condanna di adulterio e fu relegata nell’isola di Pandatari, oggi Ventotene (cfr. Braccesi 2012).
Stessa sorte toccò a Giulia Minore [Fig. 3], figlia di Giulia Maggiore e di Agrippa, degna erede della madre per le scelte personali e politiche che nell’8 d.C. la portarono a subire la medesima condanna. Delle due scandalose Giulie (un nome, un destino), i cui ritratti sono esposti assieme a quelli dei numerosi mariti della figlia del princeps (Marcello, Agrippa, Tiberio), Ovidio era non solo amico ma anche assiduo frequentatore; e furono le due donne a introdurlo in quel circolo di dissidenti che avevano riunito attorno a loro. Anche questa fu una colpa che Augusto non poteva perdonare. A essa si aggiunsero i versi irridenti con cui il poeta tratteggiò un pantheon popolato di dèi meschini, bugiardi, vendicativi, portatori di tutti i difetti della debole umanità, senza i pregi di una grandezza di ideali e prospettive. Ovidio, forte della sua agile penna e delle sue influenti amicizie, arrivò a mettere alla berlina anche le divinità più care al princeps: non solo quella Venere, che era la capostipite della gens Iulia, a cui Augusto apparteneva per adozione, non solo quell’Apollo, sotto la cui protezione l’imperatore si era posto, ma anche il sommo Giove che dall’alto del Campidoglio vegliava sulla città. La scelta dei miti per illustrare lo scontro con Augusto e per le sale dedicate alle Metamorfosi è stata dettata anzitutto dalla coerenza fra repertorio figurativo e le parole di Ovidio e in secondo luogo dalla possibilità di illustrare, attraverso le immagini che ci sono pervenute, la lunga vita delle iconografie ovidiane; ma non sono stati ininfluenti ragioni esterne, come la disponibilità dei prestiti.
Gli dèi di Ovidio contro gli dèi di Augusto
Lo scontro è esplicitato a partire dalla sala 3, dominata dall’immagine di Venere, una Venere ben diversa dalla austera e matronale progenitrice della stirpe giulia, una Venere che nei poemi ovidiani è non solo responsabile della corruzione a Roma (Ov. Ars 1, 60: “la madre di Enea ha posto la sua sede nella città del figlio”), ma è anche protagonista di una illecita passione con Marte (sembra quasi che Ovidio suggerisca che fosse colpa della dea la mancanza di moralità della città), il padre di Romolo, il fondatore della città; una passione che il Sole denuncia al marito Vulcano che per vendicarsi li imprigiona nel talamo con catene quasi invisibili, esponendoli nudi allo scherno degli dèi: in tal modo i due capostipiti della città e della casata vengono sbeffeggiati e umiliati. La licenziosa storia degli amori adulterini fra il dio della guerra e la progenitrice dei Giulii, fu di ispirazione ai pittori rinascimentali per le ampie possibilità narrative offerte dalla presenza degli dèi irridenti e da quella rete sottile con cui Vulcano imprigiona gli amanti. Da questa sala in avanti la commistione antico/moderno diventa un Leit-Motiv che accompagnerà il visitatore per tutta la mostra. Un trattamento non migliore Ovidio riserva alla triade apollinea sotto la cui protezione si era posto l’imperatore (sala 4): dal tempio del Palatino i simulacri dei due divini fratelli, “splendidi ornamenti del cielo”, come li chiama Orazio nel più politico dei suoi carmi (Ov. Carm. saec. 2), vegliavano su Roma, garantendole un futuro sereno. Ma i miti di cui sono protagonisti i figli di Latona nel carmen perpetuum del poeta di Sulmona ne forniscono una ben diversa immagine, non solo perché essi sono gli artefici del feroce massacro dei 14 figli dell’arrogante Niobe, che aveva osato deridere Latona per aver partorito solo due gemelli (Ov. Met. 6, 204-312), ma anche perché vengono sempre presentati come crudeli, vendicativi e incapaci di perdono.
Così Diana, la signora delle selve che vive libera con il corteggio delle sue ninfe votate come lei alla castità, è pronta a compiere azioni inutilmente efferate e più spietate del giusto (Ov. Met. 3, 252), come quando trafigge con la sua freccia la lingua di Chione che si era vantata di essere più bella di lei (Ov. Met. 11, 320-329), oppure fa dilaniare dai suoi stessi cani il cacciatore Atteone che involontariamente l’aveva sorpresa durante il bagno (Ov. Met. 3, 173-191). L’episodio ebbe vasta eco nel repertorio rinascimentale grazie anche alla mediazione dei codici che a partire da questa sala costituiscono il filo conduttore che lega antico e moderno [Fig. 4].
Anche Apollo è crudele giustiziere che non perdona il sileno Marsia, reo di averlo sfidato in una gara musicale, e lo punisce con la sanguinaria pratica dello scuoiamento (Ov. Met. VI, 381-400). Il poeta, lungi dall’esaltare la luminosa figura del figlio di Latona e il suo ruolo di protettore dell’imperatore e della città, sembra invece compiacersi nell’illustrare i suoi fallimenti, soprattutto nelle cose d’amore. L’Apollo di Ovidio è amante sfortunato che invano insegue ninfe e fanciulle: ora è gabbato, come nell’episodio che lo vede possedere la incantevole Chione dopo che Mercurio ne aveva colto la verginità (Ov. Met. 11, 306-311), ora rifiutato, come accade con la bella Dafne che, piuttosto che darsi a lui, chiede e ottiene di essere trasformata in alloro (Ov. Met. 1, 540-552).
Non poteva sfuggire a questa demolizione delle immagini divine il padre degli dèi, l’onnipotente Giove, il signore del cielo, garante dell’ordine cosmico e protettore della città eterna, che nei poemi ovidiani è presentato come amante insaziabile, predatore sessuale, protagonista di abusi e stupri, capace di ogni sotterfugio, inganno, travestimento per possedere l’oggetto del suo momentaneo desiderio (sala 5). Nella mitologia classica le avventure del padre degli dèi si sprecano e Ovidio non si fa mancare l’occasione di raccontarle nel dettaglio con una sottile e dissacrante malizia. Nessuno sfugge alle sue voglie, non le ninfe di Diana, come Callisto, che egli violenta dopo aver proditoriamente assunto le sembianze della dea (Ov. Met. 2, 425-433), non la figlia di Acrisio, la bella Danae, che pur rinchiusa in un’alta torre viene raggiunta dal dio sotto forma di pioggia d’oro (Ov. Met. 6, 625; 6, 113), non l’irreprensibile Alcmena a cui si presenta nelle vesti del marito Anfitrione (Ov. Met. VI, 112), non il giovinetto Ganimede rapito dall’aquila, emblema e simbolo della sua maestà (Ov. Met. 10, 155-161). Fra le innumerevoli vittime della esasperata sessualità del padre degli dèi saranno protagoniste in mostra Leda, Europa, Io. Alla bella figlia di Nemesi e madre dei Dioscuri e della fatale Elena, Ovidio dedica pochi versi pervasi da intenso erotismo (Ov. Met. 6, 109: “fece Leda giacere sotto le ali del cigno”; vedi anche Ov. Am. 1, 10, 2-3); più ampio il passo in cui racconta di Europa strappata alla patria, al padre, alle compagne dal dio sotto forma di un bianco e mansueto toro. Ma sono soprattutto le avventure della ninfa Io, figlia del fiume Inaco, ad attirare l’attenzione del poeta (Ov. Met. 1, 568-746): la fanciulla, dopo aver invano cercato di sottrarsi alle insistenti profferte amorose dell’Onnipotente, viene da lui trasformata in una bianca e bellissima giovenca che però la gelosa Giunone reclama per sé. A questo punto inizia per la povera e incolpevole Io, vittima dell’abuso divino (il tema delle colpe involontarie, di cui il più noto protagonista è Atteone, ritorna spesso soprattutto nei carmi dell’esilio, quando il poeta stesso si dichiarerà vittima di un castigo immeritato, si vedano ad esempio, Ov. Tris. II, 103-105; Tris. III, 5, 49; 6, 27-28), un vero calvario, che termina solo con l’arrivo di Io in Egitto, dove, dopo aver ripreso la sua forma umana, dà alla luce Epafo, il fondatore della dinastia dei Tolomei, e viene assunta nel pantheon isiaco.
“A narrar il mutar delle forme in corpi nuovi mi spinge l’estro”
L’intero piano superiore è dedicato alle Metamorfosi, “il gran poema delle passioni e delle meraviglie” come lo definì con illuminante immagine Concetto Marchesi, il poema che ha sancito la fama imperitura di Ovidio e gli ha garantito quella sopravvivenza che egli stesso con smisurato orgoglio prefigurava per sé (Ov. Am. 1, 15 4142: “e anche quando l’ultimo rogo mi avrà consumato, vivrò”; Ov. Am. 3, 16, 20: “e dopo la mia morte la mia opera sopravvivrà”).
Ogni sala è dedicata o a un mito emblematico (Adone; Ganimede) o a più miti, che presentano tangenze per il soggetto trattato (amori impossibili; i cacciatori; imprudenza punita...) o per l’esito della vicenda (nozze divine). E ciascun mito viene presentato con una selezione di opere della più diversa specie e cronologia: ai rilievi, affreschi, sculture, manufatti toreutici, gemme di età classica scelti per la loro potenzialità di narrare la storia nella prospettiva ovidiana si accompagnano i manoscritti miniati o le edizioni a stampa del poema, che costituiscono la tangibile, straordinaria testimonianza della vitalità di quei miti che avevano ispirato gli amanuensi i quali, del tutto ignari del repertorio antico, raffigurarono le vicende narrate dando ai personaggi fisionomie e abbigliamenti contemporanei. Il fascino dei racconti ovidiani, che potevano essere giocati in chiave esornativa ma anche simbolica, ne decretarono la fortuna anche nel Rinascimento a partire dalla panoplia nuziale delle giovani aristocratiche, che fecero ornare non solo i cassoni contenenti i loro corredi con le drammatiche storie di eroi ed eroine, a cui la rilettura moralizzante aveva conferito nuove valenze semantiche, ma anche i piatti in maiolica ‘istoriata’ che si diffusero in maniera endemica grazie alla circolazione dei modelli usati per le edizioni a stampa del poema (sui cassoni: Hughes 1997 e Schubring 2007; sulle maioliche istoriate: Ravanelli Guidotti 1993). Ma è la grande pittura che sancisce la fortuna in età moderna del repertorio ovidiano: a partire dal Rinascimento i più illustri maestri dell’epoca, ispirati anche dai continui straordinari ritrovamenti di antichità, ricrearono innumerevoli composizioni ‘all’antica’, ispirate al poema ovidiano, per soddisfare le esigenze di una committenza che con la scelta di soggetti profani intendeva riallacciare i fili con il grande e luminoso passato classico (Zalabra 2018).
Protagonista della sala 6 è Adone, il più bello fra i mortali, che accese d’amore perfino Venere; la causa di questa passione che allontanò la dea dai suoi santuari e ne fece una frequentatrice delle selve fu l’involontaria ferita infertagli dal figlio Eros (Ov. Met. 10, 525526: “mentre baciava sua madre”). Ma non portò bene al giovane, nato con lo stigma del peccato in quanto figlio dell’incestuosa Mirra, l’amore della più bella fra le dee: il destino, sotto forma di un gigantesco cinghiale, non tardò a colpirlo ed egli “stramazzò moribondo sulla bionda rena” (Ov. Met. 10, 716); Venere accorse e, affranta dal dolore, si strappò i capelli e la veste, percotendosi il petto con le mani, come una qualsiasi mortale in lutto (sui gesti del dolore Ghedini 2015); poi versò sul sangue dell’amato un nettare odoroso che, fermentando, diede vita al delicato anemone, fiore bellissimo quanto effimero i cui petali il vento disperde (Ov. Met. 10, 731-39). Meno cruenti sono i miti narrati nella sala seguente dedicata a due donne ‘amate dagli dèi’ e dagli dèi fatte loro spose (sala 7). Arianna, la figlia di Minosse che aveva abbandonato patria e famiglia per seguire l’ingrato Teseo, è raffigurata affranta e in lacrime mentre osserva la nave del fedifrago che si allontana, lasciandola sola e disperata a Nasso; ma la sua rinascita ha il nome di Dioniso, il dio della gioia e dell’estasi, che si innamora di lei, la fa sua sposa e per festeggiare le nozze lancia in cielo la corona nuziale che si trasforma in una costellazione (Ov. Met. 8, 176-182). L’altra protagonista è Proserpina, la figlia di Giove e Cerere, che benché dea è vittima della passione del dio degli Inferi, Plutone, che la rapisce e la porta nel suo regno, facendone la regina dell’Aldilà. Il racconto termina con l’immagine della ninfa Ciane che, dopo aver invano tentato di fermarli, si scioglie nella fonte di cui era stata signora.
La scena della fanciulla che si dibatte fra le braccia del dio che, alla guida del suo carro, spinge al galoppo gli impetuosi cavalli si ripete quasi identica dall’antichità ad oggi. Amori contrastati, amori impossibili, amori diversi sono raccolti nella prima parte della sala 8; apre la rassegna Narciso, il bel figlio della ninfa Liriope e del fiume Cefiso, a cui una profezia aveva pronosticato una vita felice “se non conoscerà sé stesso” (Ov. Met. 3, 348). Ma il destino era in agguato: quando il giovane vide in una fonte il riflesso del suo volto si innamorò dell’immagine di sé stesso e lì trovò la morte per disperazione e inedia. Le ninfe accorsero per dargli onorata sepoltura, ma al posto del suo bellissimo corpo consunto dalla passione trovarono “un fiore color di croco al centro e in giro petali bianchi” (Ov. Met. 3, 509-510). Non meno originale è la metamorfosi che toccò in sorte ai protagonisti di una delle più commoventi storie d’amore che fornì ispirazione a poeti e drammaturghi di ogni tempo: come gli amanti di Verona i due giovani babilonesi, Piramo e Tisbe, erano osteggiati dalle famiglie e come loro finirono suicidi l’una sul corpo dell’altro per un tragico scherzo della sorte (Ov. Met. 4, 115-163). E le candide more del gelso, sotto i cui rami si compie il drammatico destino della coppia, assorbono il loro sangue innocente e si tingono improvvisamente e per sempre di un cupo colore vermiglio (Dante Purg. XXVII, 37-39). Uno strano destino toccò invece a colui che recava nel nome il segno degli illustri genitori: Ermafrodito, figlio dei due dèi omonimi, divenne oggetto dell’incontrollato amore della ninfa Salmacide, che appena lo vide immergersi in una fonte si avvinghiò a lui così strettamente da divenire tutt’uno con il suo corpo, fiaccandone la virilità (Ov. Met. 4, 380-83). Anche nella seconda parte della sala sono illustrate storie d’amore tragicamente finite per colpa di intrighi familiari; ne furono vittime Meleagro, l’uccisore del tremendo cinghiale che devastava le campagne dell’Etolia, e Ippolito, il figlio di Teseo, fedele seguace di Diana punito per la sua rettitudine. L’amore ricambiato per l’avvenente e coraggiosa Atalanta accese il cuore del cacciatore di Calidone che le donò le spoglie della terribile fiera; si adirarono gli zii che rivendicavano per sé l’ambito premio, e Meleagro li uccise. A questo punto il dramma si fa più fosco perché la madre Altea per vendicare i fratelli gettò nel fuoco il tizzone a cui era legata la vita del figlio e poi si tolse la vita. Le affrante sorelle del giovane vegliarono in pianto presso il sepolcro fino a che Diana, finalmente impietosita, le trasformò in uccelli. Non meno cupa e drammatica è la storia di Ippolito, che trovò un’atroce morte per le false accuse della matrigna e la maledizione del padre che provocò il ‘naufragio’ del suo carro. Lo smembramento dell’innocente figlio di Teseo funge da collegamento con la sala successiva in cui sono illustrati i miti di Icaro e Fetonte, i cui giovani corpi furono straziati dalla morte (sala 9).
Icaro, vittima della sua giovanile baldanza, con l’entusiasmo della sua verde età aveva affrontato l’avventura celeste, incurante delle ansiose raccomandazioni del padre Dedalo, il valente artigiano che aveva costruito possenti ali per la fuga da Creta (Ov. Met. 8, 183-209). Ma l’emozione del volo spinse il fanciullo in alto, sempre più in alto, fino a che la cera che teneva insieme il prodigioso strumento si sciolse ed egli precipitò in quel mare che da lui prese il nome di Icario. Il repertorio iconografico ci restituisce in sequenza l’intera vicenda: la costruzione dell’apparecchio fatale, la vestizione del giovane, il volo, la morte.
Non del tutto dissimile è il caso di Fetonte (Ov. Met. 1, 750-779; 2, 1-380): qui, è un alterco fra coetanei la miccia che scatena l’evento. Il dubbio sulla propria paternità divina instillato con giovanile malizia nell’animo del figlio del Sole da un altro frutto di amori divini, quell’Epafo generato dalla eroina/giovenca, lo spinge alla dimora del padre alla ricerca della verità. Da quel momento il suo destino è segnato; egli chiede e ottiene la guida dei focosi destrieri che lo trascinano per vie inesplorate del cielo, salendo verso l’alto e poi precipitando a infuocar la terra. Alla fine il fanciullo non ha scampo: il fulmine di Giove lo colpisce ed egli precipita con le chiome in fiamme nell’Eridano alla presenza delle desolate sorelle, che non trovano pace fino a che a lenire le loro pene non interviene la metamorfosi in pioppi che eternamente piangono lacrime d’ambra.
Alla tragica storia dei due giovani periti per la troppa confidenza in se stessi (che siano di monito ai nostri adolescenti...) si contrappone la felice avventura del pastore dell’Ida, Ganimede, rapito dal padre degli dèi e portato in cielo per svolgere l’ambito compito di coppiere degli dèi: dopo tanti amori infelici, dopo tante ingiuste morti di giovani eroi o eroine, dopo tante trasformazioni in fonti, alberi, fiori, ecco che al giovane troiano, ‘vittima’ dell’insaziabile desiderio del padre degli dèi, si aprono le porte del cielo e dell’immortalità. La divinità di Ganimede, attribuita da Teognide alla bellezza (“aveva il fiore seducente dell’adolescenza, e Giove lo trasportò sull’Olimpo dove ne fece un dio”, Ov. Elegia 2, 1345-1350), venne ricollegata da Socrate con un’ardita proposta etimologica alla sua saggezza (Xen. Simposio, 8, 29-30).
Nella sala 10 si compie dunque, attraverso lo specchio del mito, quell’apoteosi che il poeta si era prefissato di raggiungere grazie alla sua poesia, quell’apoteosi che aveva tante volte invocato nei carmi della giovinezza e dell’esilio, ma mai con la consapevolezza e la sfrontatezza espresse negli ultimi versi del suo carmen perpetuum: “e ovunque si estende la potenza di Roma sulle terre domate,/ sarò letto dalla gente, e per tutti i secoli, grazie alla fama,/ se c’è qualcosa di vero nelle profezie, vivrò” (Ov. Met. 15, 877-879).
E quell’ultima, incisiva parola (vivam) si invera nel quadro di Poussin, in cui Ovidio, coronato di alloro, è raffigurato accanto a quella Venere che gli aveva dettato alcuni dei suoi versi più belli e ai piccoli eroti che alludono alle gioie e ai patimenti dell’amore.
Si chiude così la mostra dedicata al poeta a cui una prolifica Musa ha veramente garantito una vita oltre la morte.
* Il testo qui edito è il saggio introduttivo, dal titolo Le ragioni di una mostra. bimillenario ma non solo, del catalogo dell’esposizione Ovidio. Amori, miti e altre storie (Roma, Scuderie del Quirinale, 17 ottobre 2018-20 gennaio 2019), a cura di F. Ghedini, catalogo Napoli 2018. Si ringrazia l’editore Arte'm.
Bibliografia
- Braccesi 2012
L. Braccesi, Giulia, la figlia di Augusto, Roma 2012. - Farinella 2018
V. Farinella, Ars adeo latet arte sua: momenti della fortuna di Ovidio nell’arte moderna e contemporanea, in Ovidio. Amori, miti e altre storie, a cura di F. Ghedini, catalogo mostra (Roma, Scuderie del Quirinale, 17 ottobre 2018 – 20 gennaio 2019), Napoli 2018, 137-143. - Ghedini 2015
F. Ghedini, Gesti del dolore nelle Metamorfosi di Ovidio, “Eidola. International Journal of Classical Art History” 12, 2015. - Ghedini, Salvo c.s.
F. Ghedini, G. Salvo, Ovidio e i miti romani, in Ovide 2017. Célébration du bimillénaire de la mort d’Ovide. Le transitoire et l’éphémère: un apax à l’ère augustéenne?, Atti di convegno (Parigi, 27-28 marzo 2017), in corso di pubblicazione. - Hughes 1997
G. Hughes, Renaissance Cassoni: masterpieces of early Italian art. Painted marriage chests 1400-1550, London 1997. - Raditsa 1980
F.L. Raditsa, Augustus’ legislation concerning marriage, procreation, love affairs and adultery, in H. Temporini (a cura di), Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II, 13, Berlin 1980, 278-339. - Ravanelli Guidotti 1993
C. Ravanelli Guidotti, Maioliche “istoriate” ispirate a modelli stilografici, in AA. VV., L’istoriato. Libri a stampa e maioliche italiane del Cinquecento, Faenza 1993. - Schiesaro 2018
A. Schiesaro, L’illusione della metamorfosi, in Ovidio. Amori, miti e altre storie, in Ovidio. Amori, miti e altre storie, a cura di F. Ghedini, catalogo mostra (Roma, Scuderie del Quirinale, 17 ottobre 2018 – 20 gennaio 2019), Napoli 2018, 145-148. - Schubring 2007
P. Schubring, Cassoni, Truhen und Truhenbilder der italienischen Frührenaissance: ein Beitrag zur Profanmalerei im Quattrocento, Vol. I-II, Leipzig 1915-1923, ed. cons Stuttgart 2007. - Toniolo 2018
F. Toniolo, Immagini in trasformazione. Le Metamorfosi illustrate dai manoscritti ai libri a stampa, in Ovidio. Amori, miti e altre storie, a cura di F. Ghedini, catalogo mostra (Roma, Scuderie del Quirinale, 17 ottobre 2018 – 20 gennaio 2019), Napoli 2018, 95-101. - Zalabra 2018
F. Zalabra, La metamorfosi dei versi di Ovidio nella pittura del Seicento, in Ovidio. Amori, miti e altre storie, a cura di F. Ghedini, catalogo mostra (Roma, Scuderie del Quirinale, 17 ottobre 2018 – 20 gennaio 2019), Napoli 2018, 113-117.
English abstract
The text is the curator’s introduction to the catalogue of the exhibition Ovid: Love, myths and other stories, held at the Scuderie del Quirinale, Rome (October 2018 – January 2019). The exhibition illustrates the central themes of Ovid's writings, life, aesthetics and cultural legacy: love, seduction and desire, classical mythology, political power, youth, including hundreds of artworks from several museums and collections all over the world, ranging from antiquity, through the Middle Ages, the Renaissance, up to contemporary works of art.
The introduction gives life to the events of the Latin poet's complex life and masterpieces (in primis Metamorphoses) using sources with accuracy combined with narrative ability, while considering the context in which the works were composed and their subsequent, and constant revivals. The fortune of Ovid’s influence of Greek and Roman myths on the western tradition can be seen through different approaches, and the exhibition path offers a view on characters such as Adon, Actaeon and Icarus. The strong connection between Ovid’s literature and the figurative arts through the centuries presents a rich panorama – his bimillenial anniversary is also the occasion to celebrate the life of the extraordinary poet.
keywords | Ovid, Scuderie del Quirinale, exibition, mythology, politicl power, figurative arts.
Per citare questo articolo: Francesca Ghedini, La Fortuna bimillenaria del mito di Ovidio. Introduzione al catalogo e ragioni di una mostra, “La Rivista di Engramma” n. 162, gennaio/febbraio 2019, pp. 157-173. | PDF dell’articolo