Giorgio de Chirico, Arianna 1912-1913
Una galleria ragionata
Matias Julian Nativo, Alessia Prati
English abstract
Centauri, Argonauti, Muse e divinità inquiete. Ma nel vario repertorio del mito a cui Giorgio de Chirico attinge, la figura di Arianna, proprio per la frequenza con cui compare, può risultare una via privilegiata per l’analisi di alcuni aspetti formali e contenutistici centrali nella poetica dell’artista. Tuttavia, prima di procedere con la lettura delle otto Arianne realizzate tra il 1912 e il 1913 conviene delineare l’atteggiamento con cui de Chirico si relaziona al mito in senso più ampio.
Se in una prima fase, circoscritta agli anni della formazione presso il Politecnico di Atene (1903-1906) e presso l’Accademia di Belle Arti di Monaco (1906-1909) dove la famiglia si trasferisce in seguito alla morte di Evaristo de Chirico – padre del pittore – a prevalere è un’attitudine simbolista tardo-romantica (si veda Lotta di Centauri e Centauro morente), dal 1909 il mito diviene ricettacolo di esperienze biografiche, di tracce mnemoniche dell’infanzia greca, di suggestioni e riflessioni che la letteratura, coeva e non, producono nell’immaginario e quindi nelle opere dell’artista. In La partenza degli Argonauti [Fig. 1] la vela in secondo piano – che diverrà una sorta di sigla iconografica – si pone al crocevia di elementi etereogenei: Argo salpa da Jolcos, la contemporanea Volos, città natale di Giorgio e Andrea (Alberto Savinio) de Chirico; la nave trasporta Orfeo, il padre della poesia, figura frequente nell’opera del pittore con cui lo stesso tende a identificarsi – si veda Le poète et le philosophe, il trovatore, Il piacere del poeta – e al contempo porta Castore e Polluce, i Dios Kouroi, figli di Zeus e Leda, ulteriori personificazioni dei due artisti; Le note ed appunti sulle Argonautiche di Apollonio Rodio è il testo a cui lavora il fratello a Milano tra il 1908 e il 1909; la nave, rimando alla partenza effettiva compiuta dalla Grecia nel 1906, è anche una metafora sia della riflessione filosofica sia della poetica dell’infinito, così come delineata da una delle letture che in quegli anni concorre maggiormente a definire l’opera dechirichiana, lo Zibaldone di Leopardi.
Passato e presente, riflessioni e dati biografici insistono su un segno che apre a una costellazione di significati. Nella produzione giovanile evidente è la tendenza a ibridare il mito con una eterogeneità di elementi che appartengono talvolta all’esperienza del pittore, talvolta alle riflessioni filosofiche o di natura più strettamente formale sviluppate attraverso le conversazioni con il fratello Alberto Savinio e i compagni di Accademia. Una rappresentazione didascalica sembra non aver mai fatto parte degli interessi del pittore se non in una preliminare fase di esercizio stilistico. Il caso preso in esame mostra, inoltre, non soltanto una propensione a rivedere il mito ma anche una conoscenza accurata e un utilizzo puntuale delle riflessioni e dell’archeologia interpretativa che ruotano intorno a quest’ultimo.
Possiamo circoscrivere al biennio 1912-1913 la definizione formale del tema di Arianna come soggetto pittorico attraverso le otto varianti che qui analizzeremo e la riflessione condotta intorno al mito, il cui recupero sembra avere come testo mediatore l’opera di Friedrich Nietzsche. Così lo stesso pittore:
È stata Torino ad ispirarmi tutta la serie di quadri che ho dipinto dal 1912 al 1915. Confesso, in verità, che essi devono molto a Federico Nietzsche, di cui ero allora un appassionato lettore. Il suo Ecce Homo scritto a Torino poco prima di precipitare nella follia, mi ha molto aiutato a capire la bellezza così particolare di questa città (citato in Baldacci 1997, 127).
La triangolazione tra de Chirico, Nietzsche e Arianna sembra inoltre suggellata dall’indebita appropriazione che il pittore rivendica sul pensiero del filosofo: “Sono l’unico uomo che ha capito Nietzsche – tutte le mie opere lo dimostrano” (citato in Schmied, Roos 1994, 117) e che il filosofo stesso, invece, rivendica su Arianna: “Chi all’infuori di me sa che cos’è Arianna!” (citato in Nietzsche [1888] 1991).
La lassitude de l’infini [Fig. 2] è il primo quadro in cui compare Arianna. A differenza di altre opere, in cui il soggetto è specificato dal titolo, l’identificazione con quest’ultima è mediata soltanto dalle caratteristiche che accomunano la figura principale agli altri esemplari della serie: la statua di una figura femminile con un ginocchio leggermente sollevato in posizione reclinata su un parallelepipedo/piedistallo/sarcofago. La rappresentazione, sebbene non rimandi a nessuna delle tipologie a cui avrebbe potuto attingere de Chirico grazie ai viaggi compiuti sia a Roma sia a Firenze, sembra riproporre pedissequamente le caratteristiche con cui lo stesso soggetto viene sviluppato nell’unica scultura conosciuta dell’artista almeno fino al biennio 1939-1940, Arianna [Fig. 3] (Forti 2019). Stesso braccio alzato reclinato dietro la nuca, tratti del volto e pieghe della veste lievemente accennati, posizione del corpo maggiormente distesa. Possiamo avanzare l’ipotesi che sia proprio La lassitude de l’infini l’opera di cui conserva memoria Dimitris Pikionis [Fig. 4] (Per una trattazione esaustiva dell’argomento si rimanda a Santoro 2010). Studente di ingegneria e architettura presso il Politecnico di Atene, poi compagno di studi di de Chirico anche a Monaco, Pikionis era stato coprotagonista di un importante incontro occasionale a Parigi, nel 1912, dove aveva consegnato proprio all’amico il primo indizio della sua “profonda intelligenza di metafisico” (de Chirico 1945, 58).
Si avvicinava il tempo del ritorno [inizio del 1912] e l’ultimo mese del mio soggiorno a Parigi capitò un fatto che ebbe per me una grande importanza. [...] Viaggiavo in autobus da Place de la Concorde al mio albergo, nel Quartiere Latino – era il mese precedente al mio ritorno in Grecia – quando una persona salì e si sedette proprio di fronte a me: era Giorgio de Chirico. Ci salutammo calorosamente e subito lui cominciò a parlarmi dell'importanza che dava a incontri di questo tipo: un'importanza di senso metafisico, identica a quella che gli antichi davano ai presagi. Mi parlò di Böcklin, dicendo che egli era – come aveva detto anche Nietzsche – il solo pittore metafisico. Gli replicai che le idee cosmo-teoretiche riferite all'arte hanno un’importanza primaria, ma che altrettanta importanza ha la valida espressione simbolica di tali ideali, nella lingua propriamente artistica. Nel prosieguo della discussione mi disse che un giorno d'autunno, sotto un cielo limpido – “limpido” (in italiano nel testo: n.d.t.) fu la parola che lui usò – mentre ascoltava il mormorio delle fontane, da un antiquario scoprì il libro di Nietzsche in cui c'era la teoria dell'Eterno Ritorno. Poi nelle opere di Eraclito trovò una conferma di quella enigmatica teoria cosmologica. Mi invitò a casa sua. Ero il primo artista a Parigi a cui egli mostrasse i prodotti di quella teoria metafisica, che aveva formulato dentro di sé e che ispirava i suoi lavori.
C’era un suo autoritratto, eseguito con una tecnica che universalmente e immediatamente si riconosce essere la sola adatta all’espressione di quegli ideali. Era di una tale semplicità, di una tale misura e la sua elevatezza era al di là di ogni elemento effimero, tesa verso l’eterno: stava di fronte a un’apertura che lasciava intravedere un cielo limpido, freddo, verdeazzurro, e l’artista era ritratto vestito di nero, con lo sguardo profondamente immerso nelle sue visioni. In basso c’erano scritte queste parole: QUID AMABO NISI QUOD AENIGMA EST?
Anche nelle altre opere, la linea sottile che separa la luce dall’ombra, “sul terreno inumidito dalla pioggia, costituiva il limite del mistero. Su un edificio un orologio indicava l'ora; sempre, comunque quel cielo limpido d’autunno. In un’altra opera la vela di una nave che si intravede indica il segreto della partenza e dell’esilio. Enigmi profondi delle partenze e dei ritorni, velati dalla pesante ombra del destino che su di essi incombe... Enigmi gli archi di quei portici... enigma la statua di Ariadne su cui cade la luce dell’autunno [...] Il latino è la lingua che può esprimere meglio tutti questi misteri” – mi diceva. “E così pure l’architettura romana. Roma è il luogo di questi misteri...”. Pochi giorni dopo ricevetti una sua lettera, in greco, che cominciava così: “Egregio amico, sento la necessità di vederti e di parlare con te, perché accade qualcosa di nuovo nella mia vita…”.
Non c’è spazio, qui, per riferire le mie reazioni alla sua lettera. Ci incontrammo molte volte e passammo insieme molte ore a discutere della luce metafisica che gettava sull’esistenza la teoria di de Chirico. Rimandai per un bel po’ la mia partenza. L’ultima sera cenai insieme all’artista e a sua madre. La mia realtà mi sembrava insignificante e volgare alla luce rivelatrice della sua somma teoria. Alla fine scoccò anche per noi l’ora enigmatica della separazione. Il giorno dopo partii per la Grecia (Dimitri Pikionis, in Centanni 2001).
La costellazione di significati aperta dal ricordo dell’architetto greco sembra tuttavia meglio coagularsi nel secondo quadro della serie qui trattata, Solitude (Melanconia) [Fig. 5]. Le ombre lunghe di un pomeriggio autunnale si stagliano contro una figura femminile non più quasi completamente supina, una figura che le pieghe della tunica così come i tratti del volto meno sfumati concorrono a definire in maniera più netta. Il braccio alzato dietro la nuca viene eliminato, mentre a essere conservata è la postura della mano che sorregge un volto grave, dal fare pensoso: la donna è in atto meditativo (Centanni 2019). Rispetto alla versione della Arianna che compare in Lassitude, de Chirico riconfigura il soggetto rinunciando al braccio ripiegato dietro alla testa e quindi alla suggestione dell’abbandono estatico (si rimanda a tale proposito a Seminario Mnemosyne 2017), che costituisce una sorta di polo energetico opposto rispetto a quello malinconico, che è più pesante e proiettato verso il basso. L’oscillazione tra dolore e meditazione che la Malinconia implica, risponde in maniera adeguata alla rappresentazione di una figura ambivalente, rappresentata isolata da un contesto che permetterebbe di definirla in dettaglio; Arianna è perciò in bilico, fluttuante tra il dolore per l’abbandono da parte di Teseo e la meditazione estatica indotta dall’incontro con Dioniso. Altri due elementi, che torneranno come Leitmotiv compositivo nelle successive opere, concorrono a evidenziare il carattere malinconico – senza soluzione di continuità tra stato accidioso, meditativo e doloroso – dichiariato esplicitamente nel titolo. L’edificio presente alle spalle della statua, completamente oscurato dalle finestre sbarrate, proietta un’imponente ombra obliqua sull’asfalto che si estende fin quasi a inghiottire Arianna. L'atmosfera di morte che la composizione sembra suggerire sul piano figurativo viene avvallata da un elemento biografico riportato dall'autore stesso nelle sue memorie (Baldacci 1997). La morte di Evaristo de Chirico (1905) venne infatti tristemente celebrata dalla comunità di Volos mediante la chiusura di tutte le finestre degli edifici e le case della città in segno di rispetto e lutto. Il dato biografico, e gli elementi della configurazione pittorica che ad esso rimandano, sembrano entrare però in cortocircuito se messi in dialogo con la piccola porzione di palazzo che si scorge sulla sinistra dell’opera. Frammento architettonico, sorta di fessura, di soglia attraverso cui guardare e scorgere i colli accennati all’orizzonte, esso diviene il precipitato pittorico di riflessioni e suggestioni filosofiche e biografiche. Il poeta di Recanati sembra nuovamente affiorare attraverso la combinazione di elementi compositivi – la prospettiva, il punto di fuga – e di elementi figurativi: sono i dati architettonici come le arcate, le cinta murarie, gli intramezzi che fungono da separazione senza tuttavia impedire completamente allo sguardo di procedere in lontananza. Ogni elemento della composizione risulta pertanto sovradeterminato configurandosi come una sorta di crocevia tra ispirazione letterario-filosofica, dato biografico, pensiero pittorico.
In Portrait de l’artiste par lui même [Fig. 6], ritroviamo il medesimo gesto eloquentemente malinconico che caratterizza la figura femminile di Solitude (Melanconia). Per ritrarre se stesso il pittore sceglie una postura generalmente associata a coloro che soffrono di un eccesso di umor nero, postura che poeti e pensatori hanno ereditato per ‘contagio’ dalla Musa, prima fra tutte Polimnia, la Musa malinconica, attraverso quelli che potrebbero essere visti come veri e propri protagonisti di una galleria della malinconia: il Santo Sapiente (San Girolamo) e l'Umanista (opere di Dürer e Giorgione; sul tema vedi Seminario Mnemosyne 2016). La medesima inclinazione umorale che induce a stati di disaffezione depressiva, a inerzia, a reazioni contrite per un lutto può essere sublimata divenendo il motore e lo strumento principale della ricerca di nuove vie e forme del sapere nel genio e nell’artista che non cede alla deriva patologica. Tuttavia, tendenza creativa autoreferenziale e pulsione al suicidio reale (Van Gogh) o simbolico (Nietzsche) rimangono sullo sfondo a minacciare coloro che della malinconia esaltano i tratti positivi. Ed è proprio con quest’ultimo che de Chirico attiva un’esplicita parentela intellettuale, una triangolazione che vede come terzo termine Arianna. De Chirico come Nietzsche, e de Chirico e Nietzsche come Arianna:
Non stavo troppo bene in salute; la scossa nervosa in seguito alla morte di mio padre, frequenti disturbi intestinali e il caldo afoso del luglio ateniese avevano fatto subentrare in me una stanchezza, una malinconia ed uno scoraggiamento che influirono notevolmente sul mio lavoro (citato in Baldacci 1997, 64).
“Et quid amabo nisi quod aenigma est?” Queste le parole con cui de Chirico nel 1911 suggella il proprio autoritratto nietzschiano-malinconico e sembra inaugurare quella ricerca di definizione dell’enigma che caratterizzerà la poetica di molte delle sue opere. Tuttavia è necessario sottolineare come il tipo iconografico della malinconia, che interesserà più volte la rappresentazione dechirichiana di Arianna, soltanto in Solitude (Melanconia) sia definito in maniera esplicita dall’iscrizione ‘Melanconia’, che più che il titolo dell’opera pare piuttosto una sorta di epigrafe tombale posta sul basamento della statua. Come per il precedente anche in questo caso l’identificazione della figura con Arianna è più sfumata (anche per la, fuorviante, epigrafe) e comunque variata rispetto al confronto con la stessa figura nelle altre opere: Arianna compare ora come una figura femminile reclinata su un giaciglio che si sviluppa prevalentemente in orizzontale con un ginocchio leggermente sollevato.
Solitude (Melanconia) può essere considerata come il precipitato, la sintesi di una costellazione di significati che il pittore recupera dal mito, letto attraverso la lente di Nietzsche: Arianna nel suo congiungersi con il dio dei misteri rimanda all’intuizione e alla rivelazione fuori dall’orizzonte della logica e della ragione. Non più l’Arianna il cui filo permette di uscire dal labirinto, ma colei che si unisce a Dioniso spesso in uno stato di semi coscienza o sogno: ed è questa la versione a cui il pittore lavorerà nel 1931 come scenografo in Bacchus et Ariane, balletto in due atti messo in scena al Théâtre national de l'Opéra di Parigi di Abel Hermant, coreografia di Serge Lifar, musica di Albert Roussel [Fig. 7]. Nei disegni per le scenografia del balletto troviamo una Arianna che esula completamente dalla serie che stiamo prendendo in considerazione, unita da un trait-d’union formale-contenutistico. Qui Arianna viene rappresentata in un ambiente completamente diverso rispetto alle ‘piazze’ italiane del biennio 1912-1913, in un ambiente più ‘filologico’ rispetto al mito; la coppia di personaggi, che nelle altre versioni compare appenna accennata a distanza quasi inconsapevole o ignara della presenza di Arianna, ora l’ha finalmente scoperta: il Centauro, con il gesto del dito alla bocca, suggerisce al compagno che lo segue – probabilmente Bacco-Dioniso – di fare silenzio. Non si tratta più dell’estrapolazione della figura che viene isolata, resa autonoma al centro della nuovissima ambientazione della ‘piazza italiana’, ma della rappresentazione di un episodio del mito. Arianna, pur mantenendo la sua posizione estatico-malinconica, è sdraiata e appoggiata a uno scoglio vicino al mare sopra un manto rosso: la sua veste quasi del tutto caduta le scopre gran parte del corpo. Al contrario l’Arianna di Solitude (Melanconia) è una Arianna che riconduce al labirinto, luogo dell’irrazionale, che diviene unico mezzo di comprensione di una realtà che non è più quella cartesiana. Si tratta dunque di una rilettura in chiave squisitamente nietzscheana del mito di Arianna, ma che si pone comunque all’interno del modello sancito dalla tradizione. Le caratteristiche iconografiche recuperate nella serie, per quanto non riproposte uniformemente, connettono la figura dipinta a quelle copie romane a noi giunte attraverso il recupero e l’interpretazione della bella dormiente come Cleopatra e/o come ninfa della fonte consegnataci attraverso il progetto del giardino del Belvedere di Giulio II.
L’ipotesi che Arianna possa essere interpretata in quanto figura limitare tra uno stato di vita e di morte può essere supportata dall’inquadramento della figura all’interno del porticato che le fa da sfondo. Secondo la tesi avanzata da Paolo Baldacci, gli elementi architettonici chiusi che impediscono la vista dell’orizzonte rimanderebbero al ricordo della morte del padre. Tema che si ripropone in più varianti nell’intera opera di de Chirico: la locomotiva (il padre aveva avuto un ruolo centrale nella realizzazione della rete ferroviaria in Grecia); la nave (metafora in sé funeraria, ma anche concreto ricordo del viaggio compiuto dalla famiglia dopo il decesso); la statua di Atena - monumento eretto a commemorazione di Evaristo de Chirico di fronte alla stazione di Atene. A conferma di questa costellazione di segni e simboli, il componimento poetico in cui lo stesso artista evoca “la morte […] piena di promesse” e “un quadro che non si può guardare senza piangere”:
Belle giornate tremendamente tristi, imposte chiuse;
Tutte le finestre erano chiuse, dappertutto era silenzio;
Chi mi ha mostrato la grande finestra nera
chi mi ha mostrato là in fondo la triste casa [...];
Nelle camere oscure e silenziose le orribili spade
pendono ai muri. La morte è là piena di promesse;
C’è una stanza le cui imposte sono sempre chiuse. In un
angolo un libro che nessuno ha letto. Al muro un quadro che non
si può guardare senza piangere.
Le persiane sono chiuse. Le porte sbarrate (citato in Baldacci 1997, 132).
In La Mélancolie d’une belle journée [Fig. 8] il pittore sembra guadagnare un passo di avvicinamento verso il modello, dato che la statua ricalca esattamente le caratteristiche specifiche dei due esemplari conservati a Roma e Firenze: gamba piegata, mano sinistra a sostegno del volto, braccio destro alzato posto dietro la nuca. Un altro elemento si inserisce nel gioco di significati sopra evocato articolando anziché dipanare la trama costruita dall’accostamento melanconia-Arianna. Pare esserci una stretta connessione tra lo zampillìo dell’acqua a cui presiede la figura femminile, qui vera e propria Nympha loci (Agnoletto 2019), e il riferimento allo scrosciare delle fontane nel paragrafo del capitolo dedicato a Zarathustra di Ecce Homo. L’acqua come metafora del tempo, dell’eterno ritorno. Ed è proprio de Chirico a dire a Pikionis nel 1912 di aver scoperto la teoria dell’eterno ritorno “in una limpida giornata d’autunno in mezzo al mormorio di zampillanti fontane” (Baldacci 1997, 80).
L’accostamento di Arianna a una sorgente, che sembra riproporre la medesima disposizione cinquecentesca testimoniata dall’incisione di Hollanda (Agnoletto 2019), ribadisce il richiamo alla morte e/o la rivelazione intuitiva dell’incontro col divino. Così Porfirio in L’antro delle ninfe: “Alle anime sembra diletto non morte il divenire umide: la caduta nel divenire è per loro diletto” (Simonini 1986, 29).
Il medesimo schema iconografico caratterizza l’Arianna di Les joies et les énigmes d’une heure étrange [Fig. 9]: gamba piegata, mano sinistra a sostegno del volto, braccio destro alzato posto dietro la nuca. A variare leggermente la figura un basamento meno monumentale del precedente che si pone come elemento di mediazione tra quello che caratterizza Solitude (Melanconia) e quello delle successive tre versioni. Una sorta di progressiva semplificazione delle forme che conduce all’estromissione dell’elemento in La statue silencieuse.
De Chirico sembra giocare con uno schema compositivo fisso alternando con sottili variazioni in maniera più o meno ossessiva gli stessi elementi: arcate, cinta murarie, elementi architettonici che conducono lo sguardo lontano o al contrario lo delimitano. Gli archi ‘leopardiani’ che aprono, seppur obliquamente, alla visione dell’infinito vengono in questo caso controbilanciati da un altro elemento che, impedendo allo sguardo di procedere liberamente, concorre a rafforzare più che limitare il rimando all’infinito. Il muro rosso, spesso rappresentato in lontananza quasi a segnare la linea dell’orizzonte, occupa una posizione ravvicinata celando un altro elemento biograficamente caro al pittore: la locomotiva. Oggetto mobile e segno di un tempo che scorre con velocità, il treno rappresenta anche il tempo passato, l’infanzia a Volos e infine il padre. Un elemento pittorico si trasforma in un dato di morte che emerge, come molte altre volte, seminascosto, riattivato dalla statua di Arianna.
In La récompense du dévin [Fig. 10] i medesimi elementi iconografici – l’arco, il muro, il treno e l’edificio – risultano configurati attraverso nuove relazioni e sottoposti a una semplificazione del tratto che esploderà nelle versioni successive. Il basamento torna ad assottigliarsi e tende a diventare un duro letto di pietra; gli elementi architettonici abbandonano l’andamento obliquo, che dotava la composizione di un maggior grado di dinamicità e di ‘squilibrio’, per assumere un profilo che procede secondo gli assi individuati dal supporto pittorico; lo sguardo non è più libero di muoversi verso l’orizzonte poiché limitato da elementi che costituiscono una sorta di quinta teatrale a circoscrivere uno spazio chiuso. Il medesimo trattamento insiste su Arianna che, pur rappresentata secondo la postura presente in Les joies et les énigmes d’une heure étrange, nei tratti del volto e nel panneggio è piuttosto accostabile alla versione di La lassitude de l’infini. La chiara identificazione della figura con Arianna è garantita dall’appartenenza a quella semiosfera venuta a crearsi grazie alla ripetizione di elementi iconografici e compositivi che permettono di interpretare le varie opere qui analizzate come facenti parte di una vera e propria serie.
Verso il 1913, la produzione artistica di de Chirico attorno a questo soggetto manifesta nuovi elementi di natura puramente formale adottati per trascrivere in forma pittorica le riflessioni sviluppate dall’artista nel clima culturale europeo che si delineava in seno alle avanguardie pittoriche. È ipotizzabile che il contatto con le esperienze artistiche della Parigi dei primi del Novecento abbia fornito a de Chirico nuove forme e intuizioni che appaiono più evidenti nelle opere del periodo successivo. La vertiginosa inclinazione prospettica di Piazza con Arianna [Fig. 11] sancisce infatti un netto avvicinamento alle sperimentazioni formali cubiste con cui il pittore entra in contatto grazie all’amicizia con Guillaume Apollinaire. Da sottolineare il riferimento esplicito ad Arianna presente nel titolo della sesta versione, in cui de Chirico sottopone il soggetto a una revisione dello schema al quale sin qui aveva fatto ricorso: la figura torna supina e la continuità è garantita soltanto dal braccio reclinato dietro la testa, dal ginocchio leggermente piegato e dalla posizione di una figura femminile su un basamento, in questo caso giaciglio. Il riferimento all’acqua diviene una costante degli ultimi tre quadri della serie, anche se nella versione più metaforica delle vele in lontananza, riattivando quella circuitazione di cui sopra tra Nietzsche – Arianna – Malinconia. In Piazza con Arianna a cambiare radicalmente è il punto di vista da cui si osserva il soggetto. De Chirico propone un ‘lato’ di Arianna sinora tenuto celato: una visione quasi frontale della figura femminile coadiuvata dalla composizione verticale, protesa verso l’osservatore, fanno di Arianna una figura sempre distesa eppure quasi eretta. La scelta della verticalità, a livello sia figurativo che plastico, si inserisce nelle scelte formali di de Chirico per esplodere nell’ultima versione di cui trattiamo qui di seguito.
In L’après-midi d’Ariane [Fig. 12], unica altra opera della serie a citare espressamente nel titolo Arianna, la verticalità diviene elemento compositivo predominante, a tal punto che la torre e il faro sembrano assumere il ruolo di soggetto principale. La visione quasi frontale della statua presente in Piazza con Arianna viene ulteriormente esasperata dal posizionamento centrale e dallo sviluppo verticale che la pone in correlazione diretta con gli elementi architettonici. Uno spazio maggiormente claustrofobico, rispetto a quello realizzato nelle versioni precedenti, la spinge fuori dai confini della composizione, tagliandone la figura quasi all’altezza del ginocchio in una sorta di progressiva espulsione dal piano della composizione. La torre posta sullo stesso asse, sproporzionata rispetto alla figura umana, sembra ormai in grado di attivare e raccontare autonomamente la corrente di significati e lo stesso enigma posto da Arianna, nonché il suo richiamo potente al senso della creazione artistica e alla morte. Come nella versione precedente, la figura risulta completamente sdraiata su un giaciglio, questa volta più massiccio, più simile a un sarcofago che a un letto; in questa variante entrambe le braccia – una a sostegno del volto, l’altra reclinata all’indietro – ripropongono la postura della versione dell’Arianna vaticana e fiorentina concorrendo ad attivare quell’oscillazione polare che sia la figura sia la posa esasperano. Appiattita sul parallelepipedo che le fa da basamento, la statua sembra assumerne per ‘contagio’ le caratteristiche geometriche: le curve e le rotondità della figura umana sono ora abbandonate a favore delle spigolosità dei solidi dell’architettua psichica di de Chirico.
Le variazioni di natura stilistica e/o compositiva permettono infatti di interpretare le opere come differenti modalità o varianti con cui de Chirico riconfigura il proprio personale ‘mito’ di cui Arianna costituisce uno degli episodi, a cui vanno accostati dati biografici, riflessioni di natura pittorica, letteraria, filosofica, l’incontro con il pensiero di Leopardi, Nietzsche, le suggestioni nate dalle conversazioni con i compagni di Accademia e, in particolare, con il fratello Savinio. E’ soltanto dalla compresenza di questi nuclei che è possibile leggere le opere e la posizione in esse assunta dal mito di Arianna; ogni variazione apportata al singolo elemento – o l’introduzione di uno nuovo – obbliga a una revisione che riassesti secondo le nuove coordinate la lettura precedentemente elaborata. Tuttavia, pur piegata a un trattamento non strettamente filologico, Arianna oppone un certo grado di resistenza.
In La statue silencieuse [Fig. 13] Arianna invade lo spazio divenendo un elemento quasi claustrofobico. L’alternarsi di luce e ombra che insiste sulla statua nelle precedenti formulazioni viene abbandonata; Arianna giace completamente in penombra, il sole del pomeriggio d’autunno grava soltanto sugli elementi architettonici. La pesantezza del volto e delle vesti che scendono sul suo corpo, così come la gravità dello sguardo sembrano enfatizzare quella propensione all’inerzia, all’accidia che insistono sul temperamento malinconico. Il braccio rivolto all’indietro, con le sue potenzialità estatiche, non può controbilanciare le membra stanche di un’Arianna completamente affondata nel grigio plumbleo del pensiero meditativo. La Parigi di Giorgio de Chirico chiude la parabola che la Torino di Friedrich Nietzsche aveva concorso ad aprire.
Arianna è una protagonista del repertorio iconografico a cui de Chirico attingerà per le sue opere durante tutto l’arco della sua carriera. Tuttavia, la serie delle prime otto versioni del soggetto pare esaurire tutte le variazioni sul mito utili al pittore per sfruttare le potenzialità connesse alla figura di Arianna, su cui diverse dimensioni del passato e del presente sembrano insistere anche in senso anacronistico. Per questo si è ritenuto opportuno adottare come criterio di selezione delle opere in esame l’arco temporale 1912-1913, nel corso del quale il soggetto fa la sua prima epifania e poi compare con una maggiore frequenza non solo nella sua formulazione pittorica ma anche all’interno delle riflessioni e delle conversazioni dell’artista con i vari interlocutori, primo fra tutti il fratello Alberto Savinio.
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M.R. Taylor, Giorgio de Chirico and the Myth of Ariadne, catalogo della mostra (Philadelphia, 3 novembre 2002-5 gennaio 2003), Philadelphia 2002.
English abstract
The figure of Ariadne is perhaps the main protagonist in the artistic production of one of the most representative personalities of Italian art of the beginning of the 20th century: Giorgio de Chirico. The article attempts to reactivate the constellation of elements and the imagery that gravitate around the painter's production through eleven 'Ariadne' galleries. The biographical component often seems to intersect with the themes of philosophy that de Chirico was exploring between 1912 and 1913. In this way, the thought of Nietzsche or the poetic sensibilities of Leopardi are intertwined with the memory of his father’s death and his childhood in Volos. Such interweaving ends up by giving us complex images capable of opening up different perspectives – the enigma of Ariadne, permanently poised between the pain for her abandonment by Theseus and the ecstatic meditation induced by her encounter with Dionysus.
Keywords | Giorgio de Chirico; Ariadne; Nietzsche.
Per citare questo articolo: Matias Julian Nativo, Alesia Prati, Giorgio de Chirico, Arianna 1912-1913. Una galleria ragionata, “La Rivista di Engramma” n. 163, marzo 2019, pp. 167-183 | pdf dell’articolo.