Roger Waters. The Wall in Berlin
Potsdamer Platz, 1990 (Progettisti Mark Fisher, Jonathan Park, Gerald Scarfe)*
Cesare Molinari
English abstract
Nel tardo 1989 il promotore di eventi rock Mick Worwood chiese a Roger Waters di inscenare The Wall in favore del Leonard Cheshire’s Memorial Fund for Disaster Relief. Waters pensava già da un po’ di riportare in scena lo show del 1980 e quando il muro fu demolito, decise di inscenare il revival proprio a Berlino, ipoteticamente a giugno del 1990.
Le negoziazioni per una notte di concerto nella Potsdamer Platz, nella cosiddetta ‘terra di nessuno’, iniziarono con i sindaci di Berlino Est e Ovest. In quel periodo storico Berlino Est si trovava in un totale scompiglio politico e burocratico e nessuno del governo aveva esperienza nell’allestimento di concerti rock. Per cinque mesi ci fu grande incertezza su chi dovesse o potesse dare i permessi necessari. Nonostante si trattasse di un’iniziativa di beneficienza, fu difficile trovare sponsor che finanziassero il progetto. Si trattava infatti di un progetto titanico, i cui costi si aggiravano intorno ai 10 milioni di sterline, e molti dei grandi nomi furono contattati a gennaio 1990, quando le aziende con maggiori disponibilità hanno generalmente già assegnato la loro quota sponsorizzazioni per l’anno.
Ma la progettazione non si fermò: [Mark] Fisher e [Jonathan] Park si diedero da fare e iniziarono a immaginare lo spettacolo, producendo immagini e disegni al computer per illustrarne il design e la progettazione meccanica. Finalmente in aprile furono sciolte le riserve sulle competenze burocratiche e da Berlino Est arrivò l’ok. Nonostante l’assenza di un budget vero e proprio, il team di produzione, coordinato da Keith Bradley, iniziò le sue riunioni, ma ormai non c’era più tempo a sufficienza per ‘andare in scena’ a giugno. Inoltre gran parte dei professionisti che avrebbero dovuto essere coinvolti nel progetto avevano altri impegni, da cui non si potevano svincolare. Si decise per un rinvio e lo spettacolo venne rimandato al 25 luglio, un tempo comunque ridotto, quasi ridicolo per allestire uno dei più grandi concerti mai messi in scena. Bisognava ottenere permessi, costruire il set, fare le prove, coinvolgere gli ospiti…
Anche per differenziare lo spettacolo rispetto a quanto portato in scena dieci anni prima con i Pink Floyd, Waters decise di modificare la scaletta dei concerti del 1980 e di riarrangiare gran parte dei brani. Furono coinvolti il coro e l’orchestra della radio nazionale di Berlino Est in alcune canzoni. I concetti alla base dell’opera rock originaria rimasero essenzialmente gli stessi, ma il messaggio fu ampliato. Non si trattava più solo della vita privata e pubblica della rockstar Pink, ma di un grande evento spettacolare a margine di un grandissimo evento storico. La ‘scala’ era completamente diversa: oltre duecentomila persone in piazza a Berlino. Inoltre era prevista una diretta televisiva per un potenziale di mezzo miliardo di telespettatori in oltre trenta paesi.
La compostezza poco ‘esibizionista’ delle esecuzioni cui Waters era abituato con i Pink Floyd era piuttosto distante dai clichè televisivi che incentrano le riprese su musicisti ‘scenici’. Bisognava dunque intervenire sia sulle dimensioni che nell’azione dello spettacolo, per renderlo televisivamente appetibile. Inoltre, l’allestimento in Potsdamer Platz comportava l’aumento delle dimensioni del set, quasi raddoppiate rispetto allo spettacolo di dieci anni prima. Si decise pertanto di rafforzare la dimensione narrativa dello show anche per conservare e amplificare il messaggio che l’aveva ispirata.
Ciò comportava la ridefinizione di alcune ambientazioni e di alcuni elementi scenografici. La stanza d’hotel di una delle scene fu ricostruita in tre dimensioni nella parte alta del muro, nascosta a inizio concerto da una finestra colorata ‘a mattoni’. Il gonfiabile originale della Madre fu rimpiazzato da una Madre-mattone, vale a dire sostituita da un cartone, disegnato su un foglio traslucido da [Gerald] Scarfe, che copriva una grande scatola illuminata, incassata in una tacca triangolare all’estremità superiore del muro. Furono coinvolti i principali realizzatori del precedente spettacolo, che ridisegnarono gli elementi nella nuova scala e introdussero nuove soluzioni.
Il gruppo di designer 4i diede una nuova veste alle violente immagini di Scarfe, molto frastagliate nel tratto, avvicinandole a immagini proiettate contro il muro durante la scena della stanza di hotel. Di loro ideazione le immagini di città in rovina, saccheggi, figure astratte e la tetra lista di nomi di vittime di guerra impressa contro il muro. Quei nomi poi scomparivano in dissolvenza, lasciando spazio a un gigantesco campo, fitto di croci. Poi, occupando uno spazio di 13 x 150 metri, compariva la frase pacifista “Bring the boys back home”, che invitava a un globale cessate il fuoco e a riportare a casa i soldati, i ragazzi.
Il forte legame con la storia dello spettacolo The Wall era richiamata anche dall’uso di alcuni dei passaggi animati realizzati da Scarfe per il film omonimo del 1982. Fu invece una trovata inedita a garantire una buona dose di quell’azione scenica così utile a fini televisivi, approfittando della presenza in città di truppe dell’esercito sovietico, di fatto ‘a riposo’, in attesa di disposizioni per il rimpatrio. Anche se non fu concesso l’uso di mezzi pesanti, quali carri armati – come avrebbe desiderato Waters – il contingente russo fu disposto a noleggiare i mezzi per il trasporto delle truppe e i soldati russi della banda e del coro militare sfilarono in parata, aggiungendo un’inconsueta e sontuosa coreografia allo spettacolo.
La famosa sequenza del processo fu rielaborata come una lunga vignetta e recitata da famosi musicisti e attori nei fantastici costumi di Scarfe: Thomas Dolby, nel ruolo del Maestro con addosso un abito grande il doppio della sua taglia, fu fatto penzolare dal muro attraverso una bardatura: il ruolo dell’Avvocato fu affidato a Tim Curry, il Dr. Frank N Furter del Rocky Horror Picture Show, Albert Finney interpretava Giudice, Ute Lemper la moglie e Marianne Faithfull la Madre.
Altri effetti scenici furono allineati lungo le ali del ponteggio e sulle quindici piattaforme per la costruzione del muro posizionate sul ponte. Alla fine dello show il ponte iniziava a scendere e i mattoni precedentemente deposti iniziavano a cadere uno dopo l’altro. Per non danneggiare i mattoni, relativamente fragili, durante le prove prima dello show furono effettuate solo due demolizioni parziali, mentre la costruzione del muro fu ripetuta molte volte.
Per la produzione originale di The Wall nel 1980 erano stati usati mattoni di cartone, ma per lo spettacolo della Potsdamer Platz ciò non fu possibile. Il nuovo muro era alto circa il doppio del precedente e le file più basse non avrebbero retto un carico così pesante. La possibilità di usare il polistirolo fu scartata perché antiecologica.
Si scelse infine il poliuretano e la realizzazione fu affidata a una ditta tedesca che fabbricò 2.500 mattoni (ognuno delle dimensioni di 75.5 x 60 x 150 cm), riciclati in seguito come isolante per costruzioni. Le autorità locali insistettero affinché la struttura del muro sopportasse un vento di 70 km/h. Il problema fondamentale era di fissare saldamente i mattoni nelle zone laterali del muro e permettere allo stesso tempo un crollo veloce e progressivo. Furono costruiti alberi verticali di supporto (sottili torri triangolari reticolari) verniciati in nero e vi vennero allacciate delle corde fissate a delle ‘caviglie’ in legno. I mattoni erano forniti di una scanalatura in cui poggiare le caviglie. L’operazione era ripetuta per ogni fila di mattoni. Ciò assicurava la richiesta resistenza al vento e la velocità di demolizione necessaria per le esigenze sceniche.
Il muro-sipario prevedeva un’apertura in cui venivano innalzati 600 mattoni che andavano a costruire la parte centrale del muro. Una squadra di comparse tedesche alzava le prime quattro file di mattoni e i musicisti restavano visibili dall’altezza delle spalle in su. A metà spettacolo questa ‘finestra’ nella visuale del pubblico, delimitata nella parte alta da un’architrave sospesa lunga dodici metri, anch’essa dipinta per simulare un muro di mattoni, veniva chiusa. La costruzione del muro era sincronizzata con la musica, gli effetti, i movimenti di scena e quelli dei tecnici dietro le quinte, la trasmissione televisiva. Il muro veniva innalzato in 47 minuti esatti. Dietro l’apertura centrale del muro correva un ponte, costruito per l’occasione, lungo 40 metri e pesante 20 tonnellate, azionato da torri di sollevamento equipaggiate con silenziosi ma potenti motori idraulici. Su di esso si muovevano gli addetti alla scenografia presenti sul palco incaricati di posizionare i mattoni.
Per la demolizione furono usate anche due gru a torre (che si integravano nella ‘coreografia meccanica’), alte 50 metri con bracci da 30, poste ai lati del palco, incassate nell’impalcatura per immagazzinare i mattoni. Furono usate come elemento flessibile nell’allestimento della scena, fornendo di volta in volta supporto per i gonfiabili, per il sollevamento dell’architrave delle luci di 40 metri e infine per far letteralmente volare intere sezioni del muro. In definitiva lo svolgimento del concerto ricalcava quello originale del 1979. Si cominciava con un apertura nel muro, che veniva gradatamente riempita dai mattoni, man mano che l’isolamento e l’alienazione del protagonista crescevano, per venire poi completata nella seconda parte dello spettacolo. Al termine del concerto avveniva la liberazione psicologica della rock star Pink, attraverso la demolizione del muro.
Tutti gli elementi degli impianti erano nascosti dal muro. Le torri di diffusione audio, alte 12 metri, erano camuffate da pannelli acustici velati, trasparenti al 70%, e dipinti per simulare file di mattoni: le piattaforme che contenevano i mattoni usati per costruire la porzione centrale della scena erano nascoste dalle casse rivolte verso la platea; i gonfiabili riposavano in attesa del loro utilizzo su piattaforme nascoste dalla parte superiore del muro; anche la torre per il cineproiettore da 70 mm che trasmetteva immagini al gigantesco schermo circolare da 15 metri era celata da una piattaforma/impalcatura in cui trovavano posto gli 80 componenti dell’orchestra e le 150 persone del coro. Il set dello spettacolo arrivò ad occupare un quarto della gigantesca Potsdamer Platz: visivamente, il palcoscenico appariva come un immenso muro di 25 metri d’altezza con due aperture rettangolari per gli schermi video ai lati. Per rendersi conto delle dimensioni del palcoscenico basti pensare che era sufficientemente ampio e resistente da ospitare limousine, motociclette, camion militari e le parate militari delle Forze Sovietiche.
The Wall è stato creato in soli due mesi e mezzo, con accesso alla Potsdamer Platz solo nelle ultime quattro settimane. Per uno spettacolo rock ordinario tutto questo era irrealizzabile: idee, meccanismi, coreografie, luci, effetti pirotecnici suoni e logistica richiedevano una perfetta coordinazione e sperimentazione. Sebbene Fisher e Park fossero vicini alle redini di controllo, l’esperienza di questo evento rinforzò la loro convinzione che il rock’n’roll è una questione di team, un’integrazione di attività creative provenienti da fonti molto diverse. La creazione dell’architettura rock dipende dall’immaginazione, da una tecnologia appropriata e, soprattutto, dallo staff di lavoro.
Forse, quando verrà fatta una valutazione finale sul lavoro di Fisher e di Park, essi verranno considerati come l’unità creativa che ha dato uno dei maggiori contributi pratici all’architettura effimera e mobile.
* Il testo, per gentile concessione dell’autore, è tratto da: Cesare Molinari, On the stage. I grandi palchi del rock (con fotografie di Bruno Marzi), Viterbo 2009, 70-73.
English abstract
This chapter from Cesare Molinari's book On the Stage: I grandi palchi del Rock, is about the design of the stage for The Wall in Berlin concert by Roger Waters held in Potzdamer Platz in 1990. The occasion was the demolition of the Berlin Wall and the reunion of the two German countries. The show was more spectacular than the original, and the stage much larger, designed by Fisher Park Partnership, the architects who had conceived the first and then most of the subsequent stage sets for Pink Floyd. “The creation of rock architecture depends on imagination, appropriate technology and, above all, a good working team”, especially when a stage comprising a 25m. long wall has to be set up in two and a half months.
keywords | The Wall; Roger Waters; 1990; Potzdamer Platz; Stage; Concert; Pink Floyd; Berlin; Rock; Architecture; Cesare Molinari.
Per citare questo articolo / To cite this article: C. Molinari, Rogers Waters. The Wall in Berlin. Potzdamer Platz, 1990 (Progettisti Mark Fisher, Jonathan Park, Gerald Scarfe), “La rivista di Engramma” n. 167, luglio-agosto 2019, pp. 71-77 | PDF