Il gabbiano (1977) di Bellocchio è un dialogo aperto. Prima ancora di essere un adattamento del celebre Čajka (1895) di Anton Čechov, il film si rivela come un ideale colloquio tra autore del film e drammaturgo. Čechov è del resto tra i riferimenti costanti di Bellocchio, un mentore attraverso il quale forgiare i tratti salienti del proprio lavoro, ma anche un nume tutelare in grado di dipanare i momenti più complessi nella vita dell’autore. Non uno sguardo retrospettivo dunque, bensì un sintomo di attualizzazione nella riscrittura operata da Bellocchio. Le tematiche stesse presenti ne Il gabbiano manifestano i termini di una interrogazione diretta rivolta al regista. L’istinto dell’arte e l’ambiguità del sogno, la razionalità imposta e la follia che deflagra, la gravità delle proprie origini e la necessità di una aspirazione, di un altrove da raggiungere, sono elementi inconfutabilmente connessi con l’intera filmografia bellocchiana, sin dal suo esordio.
Il testo mi ha riportato indietro, è avvenuto come un processo regressivo, come se per riappropriarmi dei temi, dei contenuti del Gabbiano, fossi dovuto ritornare adolescente per immedesimarmi in Costantino e poi divenire adulto per esprimere Trigorin […]. E tutto sotto il segno della follia, della rabbia invidiosa e impotente... i temi de I pugni in tasca, a più di dieci anni di distanza. Il gabbiano mi ha riportato dentro quella follia, dentro quella rabbia, che corrispondeva a una esigenza profonda di modificare la realtà (Bellocchio 1977).
Uno sguardo rivolto al passato, alla propria autobiografia, ma anche in costante relazione dialogica con l’opera di Čechov, da cui attingere senza tuttavia sentire il dovere di una aderenza radicale. “Simpatizzo istintivamente per Costantino, ma non condivido la sua decisione finale. Anche se la realtà in cui viviamo fa schifo, bisogna continuare a combattere per provare a gestirla” (Micciché 1980, 284). Una dichiarazione di principio attenta inoltre a rimarcare un ‘presente’ nelle questioni sollevate dal testo di Čechov, nonché il bisogno di riappropriarsi con il proprio linguaggio di un’opera quale Il gabbiano, tanto radicata al peso della terra quanto volta alla ricerca di una leggerezza inespressa.
Il lavoro di Bellocchio fa dunque leva su questi principi, rimanendo fedele all’originale, ma sublimandone i riferimenti spazio-temporali, così da rendere il testo di Čechov un racconto privo di una temporalità esplicita e ancor più di richiami a luoghi definiti. Ci si ritrova immersi in un presente universale, rimarcando l’idea che la vicenda di Čechov non sia legata esclusivamente alla Russia di fine Ottocento. Gli interrogativi sulla creazione artistica, divisa tra la necessità di ricercare “forme nuove” e il dovere del “mestiere” come più volte sottolineato dal giovane Kostantìn Gavrìlovic, costituiscono uno dei temi cardine del Novecento tanto quanto della nostra stessa contemporaneità [Figg. 1-2].
Non a caso la prima variazione evidente rispetto al testo originale arriva, nel Gabbiano di Bellocchio, sin dalle prime sequenze e riguarda il rapporto tra arte e immagine. Il testo di Čechov, nella traduzione di Ripellino, la stessa usata da Bellocchio e lo sceneggiatore Stefano Rulli, riporta la frase “Nina Zarècnaja e Konstantìn Gavrìlovic sono innamorati. Oggi le loro anime si fonderanno nell’ansia di creare un’unica immagine d’arte”. Bellocchio modifica questa battuta, la riscrive imprimendo una significativa variazione: Nina Zarècnaja e Konstantìn Gavrìlovic si uniranno “nell’ansia di creare un’opera immortale”. Una mutazione che sembra avvalorare l’idea di una riflessione costante sul rapporto tra immagine e arte. Spesso Bellocchio ha rimarcato come nella nostra contemporaneità l’idea di immagine sia stata sottoposta a un processo di svilimento, di erosione e di perdita di valore. Entro tale perdita va allora ricercata la scelta di questa modifica. Un tentativo di preservare le proprietà dell’immagine e riconfigurare gli sforzi di Nina e Konstantìn all’interno di un processo ancor più assoluto e privo dei confini dati dalle maglie dell’arte. L’opera o è immortale o non è.
Come anticipato, Bellocchio elimina molte delle indicazioni di luogo presenti nell’opera di Čechov, preferendo ripensare la narrazione tra un ‘qui’, rurale, statico, pigro, poco avvezzo al cambiamento, e un ‘altrove’, cittadino, urbano, più fecondo di possibilità, di speranze, di affermazione delle proprie aspirazioni. L’unica concessione ai luoghi d’origine Bellocchio la fa in merito all’addio di Nina, la giovane attrice di cui Konstantìn è innamorato, che se ne va a Mosca per inseguire il suo amato Borìs Trigorin, drammaturgo anche lui, di minor impegno sul piano formale, ma di grande successo: un uomo maturo, acclamato, amato e dedito con tutto se stesso al suo lavoro di scrittore. Mosca sembra allora divenire, a questo punto, solo un modo per chiamare la lontananza, solo un nome per indicare la distanza, enorme, immensa, tra Konstantìn e l’amata Nina.
Tra i più assidui e attenti studiosi dell’opera di Bellocchio, Lino Miccichè spiega il suo Gabbiano come una forma di “contraddizione” (Micciché 1980, 285), definendola un’opera di adattamento che oscilla tra una messa in scena testuale e una “distorsione legittima del testo, ma non portata sino in fondo” (ibidem). Miccichè sembra accogliere positivamente l’appropriazione del testo di Čechov da parte di Bellocchio, richiamando nondimeno l’autore a un’ulteriore prova di coraggio e alla necessità di piegare il racconto sino alla sua essenza ultima. La puntualità e l’affetto della critica in questione non possono tuttavia oscurare come sia da qui, da Il gabbiano, che si registra un ritorno da parte di Bellocchio ai suoi temi più consoni, nonché un ritorno ad alcuni elementi stilistici emersi sin dalla sua opera d’esordio, I pugni in tasca (1965). A differenza de La Cina è vicina (1967) e delle opere di inizio anni Settanta, è con Il gabbiano che Bellocchio torna a dar vita a un legame di natura personale con la sua opera filmica, rievocando in scena le medesime incertezze e difficoltà incontrate nel suo vissuto e interrogandosi in particolare sul suo ruolo di giovane artista.
Anche Natalia Ginzburg evidenzia come sia la stessa casa di campagna de Il gabbiano a presentarsi come una riproposizione della casa di famiglia scenario de I pugni in tasca: “una casa di provincia, vecchia, disordinata, infernale e ospitale insieme. Ospitale perché immersa nel silenzio, nel tepore e nella penombra, infernale perché ripostiglio di angosce espresse e nascoste” (Ginzburg 1977). La casa non è naturalmente la stessa, trattandosi ora, per Il gabbiano, di Villa Mantovani a Casale sul Sile, nel trevigiano, una villa scelta da Amedeo Fago, scenografo del film, dopo una perlustrazione in volo della campagna veneta. Eppure risulta comprensibile come le atmosfere dei due film tendano a fondersi. Il senso di isolamento che le due case condividono tende a separare i loro abitanti dal resto del mondo, a dividerli creando una sorta di confine, ideale oltre che naturale, attorno a loro. È lo stesso nome latino del gabbiano, larus ridibundus, a richiamare del resto un destino preciso riservato a questo volatile e soggiacente al testo stesso di Čechov.
Il volatile non ha che una duplice possibilità di fronte a sé. Esercitare la propria capacità di volare via dalla situazione ostile in cui è immerso oppure, inevitabilmente, soccombere a quel processo di imbalsamazione, di impagliatura e in definitiva di rinuncia a sé a cui viene sottoposto dalla società [Fig. 3]: un processo di eternizzazione all’interno della sua condizione originaria, quella stessa condizione da sempre avversata da Bellocchio e, in particolare, dal protagonista della sua opera d’esordio. “Il gabbiano-film diventa l’autoritratto di un artista scorticato vivo” (Kezich 1977), un’opera in cui Bellocchio rivela al contempo il dovere di rendere proprio il lavoro di Čechov, andando a rivisitarne i tratti spaziali, ma anche la necessità di ritrovare se stesso nelle gesta di Konstantìn.
Desideravo ‘rivisitare’ alcuni dei principali temi di tutti i miei film: la rabbia, l’impotenza, l’integrazione, l’invidia, l’omosessualità, il suicidio... e Il gabbiano li contiene tutti. Nella commedia (che ho sempre amato, fin dall’adolescenza) questi temi vengono espressi soprattutto da tre personaggi: Trigorin, lo scrittore di successo, Costantino, scrittore a sua volta ma che rifiuta i compromessi e perciò senza fama e senza soldi, suicidi entrambi, si potrebbe dire, anche se in modo diverso, entrambi succubi di Irina, la madre castratrice (Bellocchio 1978).
Ad aprire e chiudere il film, una medesima immagine che mostra l’essenza statica e al contempo finzionale di una marionetta [Fig. 4]. Un’aggiunta rispetto a Čechov, quasi a voler rimarcare la natura fittizia di un’opera accostabile tuttavia a molte parti del vissuto di Bellocchio. Un’opera che rappresenta, oggi ancor più di allora, un tentativo di riadattare un classico della letteratura russa instillandovi passi tratti direttamente dal proprio vissuto, oltre che un perfetto “punto di contatto tra le esigenze di una personalità insoddisfatta e la critica […] di ciò che è innegabilmente il luogo d’origine di questa insoddisfazione” (Cremonini 1977). Ma questa entità statica incarnata dalla marionetta non può che gettare una luce sinistra sulla medesima interpretazione de Il gabbiano data da Bellocchio. L’idea di cambiamento, così come gli sforzi per metterlo in atto, o vengono portati a compimento oppure non possono che risultare fatali al loro artefice. Il cambiamento non può rimanere a metà, o saranno gli altri a decidere, e in definitiva imbalsamare, il nostro destino. Angelo Maria Ripellino parla della “decadenza” di Konstantìn come di un “desiderio di nuovo. Un nuovo più fragile, più disarmato delle consuetudini” (Ripellino 1970, 7). Questo stesso desiderio di nuovo è ciò che porta Bellocchio, dieci anni dopo l’opera d’esordio, sulle orme di Čechov e di Konstantìn.
Nell’appropriarsi del testo di Čechov, significativo è inoltre il lavoro con gli attori. Il ruolo di Irina Arkadina, della madre di Konstantìn, qui interpretato da Laura Betti, non fa che avvalorare ulteriormente una relazione sottotraccia tra le due opere [Fig. 5]: rispetto alla figura materna descritta da Čechov, ammirata e leggiadra, quella creata da Bellocchio diviene ora una figura pressante, non solo distante dalle idee del figlio, ma addirittura opprimente, soffocante, in un modo non dissimile da ciò che Ale, il protagonista de I Pugni in tasca, avverte nella relazione all’interno della famiglia e in particolare con la madre. Bellocchio parla inoltre di un lavoro che mira a portare il testo “fuori dalla classicità” (Bellocchio 2011), scostandolo dal legame con Čechov per darne una visione più ancorata al suo pensiero e al suo vissuto. L’intervento operato dal regista sul modo di recitare e in particolare sull’uso dell’accento dialettale diviene allora determinante. La portata e il valore personale delle “inflessioni dialettali” (Ginzburg 1977) appare di specifico valore nella sequenza della rappresentazione teatrale scritta da Konstantìn e messa in scena al cospetto di sua madre, Irina Arkadina, e dello scrittore Borìs Trigorin.
Fanno la loro comparsa alcuni contadini, portati ad assistere alla rappresentazione considerata come un esempio del nuovo corso intrapreso dal linguaggio teatrale [Fig. 6]. La loro presenza, inedita rispetto al testo di Čechov, serve da una parte ad amplificare il disappunto e lo smarrimento nei confronti del testo di Konstantìn, sottolineandone la scarsa capacità comunicativa e in definitiva il fallimento, ma serve anche a caratterizzare l’opera di Bellocchio con i volti e i luoghi del suo tempo e con la presenza, sullo sfondo, di alcuni canti dialettali qui aventi la funzione di richiamare l’infanzia dell’autore.
Alla sensazione di fallimento si accompagna un sentimento di follia che attraversa l’intera trasposizione de Il gabbiano voluta da Bellocchio. Il tema della follia, come noto, è particolarmente caro a Bellocchio, un fattore presente in molti suoi film, come ad esempio in quella indagine di natura psicologica e sociologica rappresentata da Nessuno o tutti. Matti da slegare (1975/76) per poi continuare nella fase più acutamente psicanalitica del suo percorso. Per Il gabbiano si è parlato di una “frantumazione dell’io” (Pardi 2011, 89-93). Una frantumazione vista come concausa di quella esplorazione psicanalitica sviluppata da Bellocchio assieme all’analista Massimo Fagioli proprio a partire dal 1977, in un percorso non solo personale ma anche cinematografico. Il processo di frantumazione ora avviato diverrà in seguito un’apertura ancor più evidente e radicale alla rappresentazione più ampia e profonda dell’interiorità e dell’inconscio da parte del suo autore. Lavori quali La visione del sabba (1988) e Il sogno della farfalla (1994) costituiranno esempi di opere considerate alla stregua di una seduta di psicanalisi condivisa con lo spettatore.
Nel lavoro di adattamento di un testo letterario per il cinema, Bellocchio ha da sempre dimostrato una profonda attenzione per il processo di rielaborazione del racconto. Un’attitudine volta a rinnovare, sino a reinventare in certi casi, quelli che sono i tratti del romanzo d’origine. In quest’opera di traduzione, che costituisce inevitabilmente anche un confronto tra linguaggi, Bellocchio ha saputo confrontarsi con racconti, romanzi, testi teatrali, imprimendone in genere una connotazione fortemente personale, capace di fondere i dettami dei racconti o dei romanzi di partenza con istanze private, licenze autoriali, libertà espressive. Le licenze e le numerose forme di riscrittura attuate da Bellocchio si uniscono in modo indissolubile a una forma di necessità per l’autore. Una necessità di narrare e al contempo, tra le pagine dei romanzi, ritrovare qualche cosa del proprio io, del proprio vissuto. Aspetti, necessità, licenze che si rivelano come concause di un rapporto di profonda dialettica con i testi letterari. Un rapporto spesso basato sulla possibilità di un’aperta riscrittura, come accade ne Il diavolo in corpo (1986), opera divenuta, nelle mani di Bellocchio, un racconto nuovo, sconosciuto, addirittura basato su di un soggetto profondamente alterato, tanto da lasciare del romanzo di Raymond Radiguet (del 1923) solo l’ombra di un intreccio in cui la colpa è destinata, in modo ineluttabile, ad unirsi e ad amalgamarsi con le emanazioni della giustizia o, meglio, della pena.
Anche il caso de Il principe di Homburg (1997) si rivela sintomatico; prima di divenire un adattamento vero e proprio, il lavoro teatrale di Heinrich von Kleist costituisce il sottotesto di una precedente opera di Bellocchio, Il sogno della farfalla, che si apre con Massimo, il giovane protagonista, intento a recitare sul palcoscenico un lungo monologo tratto proprio dal testo di von Kleist. Ritornando alle ricorrenze autobiografiche, non è poi difficile rinvenire in tale adattamento alcuni tratti che hanno caratterizzato il percorso cinematografico di Bellocchio. Egli stesso ha dichiarato in più occasioni di sentirsi una sorta di novello ‘principe di Homburg’, vittima dell’irruenza, dell’incertezza, in attesa della possibilità di un riscatto, di un evento che possa finalmente redimerlo dai fallimenti passati.
Adattamenti liberi dunque, aperti a contaminazioni continue, a riscritture che tendono quasi a destituire i racconti di partenza di un vero e proprio legame con l’opera finale. E i casi sarebbero ancora molti, come l’Enrico IV (1984) e La balia (1999), entrambi tratti da Luigi Pirandello ma densi di incursioni nel vissuto di Bellocchio, sino a Bella addormentata (2012), che ‘adatta’ e riscrive non un racconto teatrale, bensì un noto fatto di cronaca, quello attinente al ‘caso’ di Eluana Englaro; un fatto che, al pari dei precedenti esempi, viene enunciato e poi lasciato sullo sfondo di un’opera capace di raccontare qualcosa di ancor più assoluto, come il complesso legame che intercorre tra la vita e la morte, senza cadere in una riproposizione didascalica degli eventi e cercando di far emergere la portata universale di quanto accaduto.
Il rapporto con Čechov merita però un’ultima menzione. Come detto in apertura, si tratta infatti di una constante per Bellocchio, un richiamo sempre vivo, un legame dialogico che interroga l’autore anche nelle sue opere prive di una ascendenza diretta. Il caso di Sorelle Mai (2011), realizzato a partire dai laboratori estivi di Fare Cinema tenuti da Bellocchio dal 1996 al 2008, risulta in tal senso emblematico. In più momenti la presenza di ampie tracce provenienti da Il gabbiano si fa percepibile, concreta. Ma anche quando ciò non accade, Čechov è comunque presente, sino ad aleggiare nei gesti e nelle piccole azioni dei protagonisti. Giorgio, il protagonista, all’inizio del film legge un passo tratto da Le tre sorelle di Čechov, assorbendone il medesimo senso di smarrimento e di vacuità, mentre l’inquadratura mostra l’immagine di copertina del libro in cui appare, come primo titolo, proprio quello de Il gabbiano, evidenziando un ulteriore riferimento non solo al vissuto del regista, ma anche alla sua opera pregressa, e avvalorando ulteriormente la presenza di un alone dato dall’esperienza dello stesso Konstantìn di Čechov, ora presente nelle gesta del protagonista di Sorelle Mai. Prima di questo, vi erano stati inoltre i cortometraggi Il gabbiano atto I, scena seconda (1997) e Nina (2000) in cui la consistenza dell’opera di Čechov veniva saggiata da Bellocchio direttamente sul set, durante le prove della rappresentazione. In Nina, in particolare, il breve lavoro si sviluppa a partire da un casting in cui si dovrà scegliere l’attrice che interpreterà il personaggio femminile. Ma la loro emozione nel recitare i dialoghi de Il gabbiano diviene a poco a poco un sentimento pervasivo, in grado di espandersi nell’intero spazio dinanzi, nel medesimo stato d’animo delle persone presenti. Nulla è più come prima, nulla può più continuare. Ancora una volta, per Bellocchio, Il gabbiano smette i panni di mera rappresentazione per diventare infine pura esistenza.
Riferimenti bibliografici
- Bellocchio 1977
M. Bellocchio, Ho ritrovato la mia rabbia, “Il Corriere della Sera”, 3 luglio 1977. - Bellocchio 1978
M. Bellocchio, Diverso, non infedele, “Radiocorriere TV”, 16-22 aprile 1978. - Bellocchio 1998
M. Bellocchio, Enigma Bellocchio, “L’Unità”, 3 agosto 1998. - Bellocchio 2007
M. Bellocchio, Il gabbiano, “Ripley's Home Video”, Roma 2007. - Brotto 2013
D. Brotto, Il nascondersi dell’io, in “Studi Novecenteschi”, n. 86, 2013, 353-366. - Brunetta 1982
G.P. Brunetta, Storia del cinema italiano, vol. IV, Roma 1982. - Cremonini 1977
G. Cremonini, Marco Bellocchio: tra il “personale” e il “politico”, “Filmquaderno Circolo Cinema di Imola”, Imola 1977. - Ginzburg 1977
N. Ginzburg, Con la poesia di Čechov, “La Stampa”, 29 novembre 1977. - Kezich 1977
T. Kezich, Costantino Gavrilovic con i pugni in tasca, “La Repubblica”, 3-4 luglio 1977. - Miccichè 1980
L. Miccichè, “Il gabbiano” di Marco Bellocchio, in L. Miccichè, Cinema italiano degli anni ’70, Venezia 1980, 284-286. - Pardi 2011
G. Pardi, Il dramma de “Il gabbiano”: frantumazione dell’io, in G. Pardi, L’esperienza “Sorelle”. Autobiografismo e presenze Cechoviane nei film di Marco Bellocchio, Roma 2011, 89-93. - Ripellino 1970
A.M. Ripellino, Nota introduttiva, in A. Čechov, Il gabbiano, Torino 1970. - Stone 1961
J. Stone, Una raffinata versione di Čechov, “Chronicle”, 23 aprile 1961.
Filmografia
- I pugni in tasca, di M. Bellocchio, 1965.
- La Cina è vicina, di M. Bellocchio, 1967.
- Il gabbiano, di M. Bellocchio, 1977.
- Enrico IV, di M. Bellocchio, 1984.
- Il diavolo in corpo, di M. Bellocchio, 1986.
- La visione del sabba,di M. Bellocchio, 1988.
- Il sogno della farfalla, di M. Bellocchio, 1994.
- Il principe di Homburg, di M. Bellocchio, 1997.
- Il gabbiano atto I, scena seconda, di M. Bellocchio, 1997.
- La balia, di M. Bellocchio, 1999.
- Nina, di M. Bellocchio, 2000.
- Sorelle Mai, di M. Bellocchio, 2010.
- Bella addormentata, di M. Bellocchio, 2012.
English abstract
Marco Bellocchio's The seagull (1977, Il gabbiano) is an adaptation of Anton Chekhov's famous Čajka (1895). Faithful to the original work, the film reveals itself as a dialogue between director and playwright. Chekhov is among the constant references of Bellocchio, a mentor through whom to forge the salient features of his work, but also a tutelary deity able to illuminate the most complex moments in the author's life. The themes dealt with in Il gabbiano are moreover of fundamental importance for Bellocchio. The instinct of art and the ambiguity of the dream, the imposed rationality and the madness that deflagrates, the gravity of origins and the need for an aspiration, for an elsewhere to be reached, are irrefutably connected elements with the entire filmography of the director since his remarkable debut with Fists in the Pocket (1965, I pugni in tasca).
keywords | Il gabbiano; Cechov; psychoanalysis; adaptation.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
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Per citare questo articolo / To cite this article: D. Brotto, Larus ridibundus. Marco Bellocchio e il Gabbiano di Čechov, “La Rivista di Engramma” n. 172, marzo/aprile 2020, pp. 131-143 | PDF di questo articolo