"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

176 | ottobre 2020

97888948401

Edgar Wind, Percy Schramm e il Warburg-Kreis

Sui concetti di Nachleben, Renovatio, Correctio

Maurizio Ghelardi

English abstract

In una lettera del 10 maggio 1955 a Erich M. Warburg, Erwin Panofsky scrive: “oggi il temine ‘warburghiano’ è accettato tra gli storici dell’arte così come tra i filosofi i termini ‘kantiano’ o ‘hegeliano’”. Il paradosso è che solo pochi studiosi hanno una idea chiara di che cosa abbia scritto e quali scopi si fosse prefisso Warburg nelle sue ricerche, cosicché alla fine egli è diventato “un simbolo nelle discussioni metodologiche”. Difatti, come ci si può definire kantiani, hegeliani senza aver letto Kant o Hegel, si può dire di essere warburghiani senza aver mai letto Warburg. E ciò dipende dal fatto che Warburg scriveva in un tedesco oggi difficilmente accessibile, ma soprattutto che la sua riflessione è “penetrata nella mente di altri studiosi attraverso intermediari che hanno finito per diffondere un vangelo” (Panofsky [1950-1956] 2006, 747-748). Per Panofsky – e, aggiungiamo noi, tuttora per molti interpreti – Warburg aleggia come un fantasma spesso evocato ma non conosciuto. Non come una personalità che è vissuta e che ha lavorato in una determinata cornice storica e spazio-temporale, bensì come un vago e labile referente metodologico. Detto altrimenti: la sua riflessione sembra pietrificata oppure variamente decostruita, ma di fatto non indagata attraverso i suoi scritti e il suo lascito.

Ciò che ci proponiamo in queste note è analizzare uno dei momenti del dibattito interno alla cerchia ristretta degli studiosi che erano stati vicini al fondatore della celebre Biblioteca amburghese, in particolare quello tra Percy Ernst Schramm e Edgar Wind, visto che alcuni anni fa Joist Grolle ha ricostruito le fasi che avevano portato alla rottura tra Schramm e Fritz Saxl (Grolle 1991,145-167).

Lo scopo di queste note è dimostrare sinteticamente come nel dibattito tra Schramm e Wind si possa cogliere in nuce in che misura l’eredità e la conseguente diffusione delle ricerche warburghiane avessero portato ad esiti diversi, se non addirittura opposti tra loro.

Nel 1931, sullo Jahresbericht über die Fortschritte der klassischen Altertumswissenschaft, compare una bibliografia sul Nachleben der Antike relativa agli anni 1920-1929 firmata da Richard Newald, il quale nella introduzione ringrazia la Bibliothek Warburg per l’aiuto fornitogli. La bibliografia è divisa in due parti. Nella prima sono considerati i temi fondamentali (religione, mitologia, filosofia, medicina…). Nella seconda il rapporto tra Medioevo e tradizione antica, l’Umanesimo e il Rinascimento; quindi le diverse letterature europee.

Tre anni prima, nell’agosto del 1928, mentre era intento a correggere le bozze di Kaiser, Rom und Renovatio, Percy Schramm aveva proposto a Aby Warburg di apporre in appendice al suo libro “poche pagine!” sul Nachleben der Antike im Mittelalter (SBr, lettera del 4.8.1928). E alla fine dello stesso mese aveva avanzato la stessa proposta a Saxl. Ma in entrambi i casi sembra non avesse avuto alcun riscontro.

Il saggio di Schramm sarà pubblicato nel 1929 come diciassettesimo volume delle “Studien der Bibliothek Warburg” con il titolo Kaiser, Rom und Renovatio. Studien zur Geschichte des Römischen Erneuerungsgedankens vom Ende des Karolingischen Reiches bis zum Investiturstreit. Al momento è importante rilevare che nel titolo compaiono due concetti simili: Renovatio e Erneuerung, ma non quello di Rinascimento.

A metà maggio del 1931, durante un viaggio verso Francoforte, Saxl si ferma a Gottinga per illustrare a Schramm i progetti che la Biblioteca sta perseguendo su questo tema, e che si realizzeranno nel 1934 con l’uscita della Bibliographie zum Nachleben der Antike curata da Hans Meier, Richard Newald e Edgar Wind (cfr. Thimme 2006, 327 e segg). Per questa pubblicazione Schramm redigerà 14 voci.

La polemica sollevata da Schramm immediatamente dopo la pubblicazione della Bibliographie rappresenta non solo il punto di non ritorno nei rapporti tra quest’ultimo, Saxl e Wind, ma soprattutto una testimonianza per comprendere come questi tre studiosi, che avevano fatto parte della cerchia ristretta di Warburg, interpretavano e si proponevano di declinare l’idea del Nachleben der Antike e i correlati concetti di simbolo e di immagine. Certo è che, ad appena cinque anni dalla morte del fondatore della celebre Biblioteca, il suo lascito intellettuale e ideale pareva irradiarsi lungo linee divergenti.

Prima però di analizzare le motivazioni che spingeranno Schramm a criticare l’impostazione della Kulturwissenschaftliche Bibliographie zum Nachleben der Antike, occorre soffermarci sulle pagine che Wind aveva premesso a questa pubblicazione.

Qui l’autore affronta anzitutto gli intenti che si era prefissa la Bibliographie e i suoi presupposti metodici: il compito non è solo quello di offrire agli studiosi una presentazione e un elenco del materiale sulla sopravvivenza dell’Antico; ma anche di “risvegliare” l’interesse per un tema a cui risulta intrinsecamente connesso un chiaro “orientamento metodologico” nel momento in cui “viene messa in discussione [...] l’esistenza di questo problema” (Meier, Newald, Wind 1934, V). L’intenzione è chiara: Wind rifiuta ogni rigida periodizzazione storica, nonché la relazione tra le diverse epoche e il presunto carattere autoctono dei popoli.

Schramm invece, fin dagli inizi degli anni Venti del XX secolo, fa proprio il principio rankiano della identità dei singoli popoli e delle stirpi, vale a dire l’ideologia dell’ethnos: “ogni epoca è individuale perché è manifestazione di una forza spirituale che racchiude la molteplicità delle altre epoche storiche” (Schramm, Rankes Geschichtsauffassung, 2.2.1921, 12 S., S.A.H., Mappe: Studium. Historische Seminararbeiten, L 32). Ma, come vedremo, anche quello di Wölfflin fondato su uno sviluppo autonomo dello stile. Per Schramm non è infatti l’eredità dell’Antico a imporsi nei diversi ambiti storico-culturali, quanto piuttosto le epoche e l’ambiente che selezionano di volta in volta tale eredità.

Già questa presa di posizione presuppone una diversità di orizzonti: per Wind l’ambito di studio è l’Umanesimo e il Rinascimento; per Schramm la transizione tra Tardoantico e Medioevo. Quest’ultimo non solo ha garantito la continuità della tradizione classica che rischiava altrimenti di estinguersi dopo la scomparsa della religione e della civiltà pagane, ma ha anche segnato la trasformazione attraverso la quale lo stile classico si è mutato in uno stile ‘trascendente’.

Questa difforme interpretazione della identità e continuità delle epoche storiche comporta anche una diversa concezione del rapporto tra ricerca storica e studio delle immagini e dei simboli all’interno di una storia della cultura, che sia Schramm sia Wind fanno risalire all’insegnamento di Warburg.

Schramm cerca infatti di determinare nell’ambito della simbologia la differenza tra segni, insegne, simboli, attributi e parla di “testimonianze figurative e scritte” piuttosto che di “fonti” (Quellen), di “afflusso” piuttosto che di “influenza” della tradizione (Schramm 1968, 20). Per questo, non si tratta tanto di sopravvivenza o persistenza (Fortleben) dell’Antico, bensì come esso sia stato ‘rinnovato’ e ‘corretto’ nel Medioevo. In sostanza: di Renovatio, cioè di come l’Antico sia stato codificato attraverso i simboli e le immagini del potere, che si richiamano alla fondazione dell’Impero germanico, nel momento in cui si è cercato di far rivivere l’immagine di Roma e dell’Impero come ideale politico; ma anche di Correctio in senso culturale quando, ad esempio, l’epoca carolingia aveva metabolizzato e, trasformandolo, aveva rinnovato il patrimonio culturale dell’Antichità. Questa precisazione terminologica è volta a evitare quello che l’autore chiama “pericolo semantico”, vale a dire una applicazione diluita e allo stesso tempo troppo estesa del concetto burckhardtiano di Rinascimento.

Wind parla invece di “rinascita dell’Antico”, cioè di un fenomeno che comporta una sopravvivenza e una rinascita dell’antico paganesimo. Non a caso egli tratta la questione del Rinascimento dell’Antichità nei Misteri pagani nel Rinascimento (Wind 1958).

Ciò premesso torniamo alla introduzione alla Bibliographie ove Wind si chiede se esiste una eredità dell’Antico. Non solo: attraverso quale percorso e con quali strumenti è possibile affrontare una questione che non culmina né si esaurisce con la riscoperta umanistica dei filosofi antichi, e che non è risolta neppure da coloro che hanno continuato a individuare unilateralmente nella tradizione greco-romana il carattere precipuo della identità europea. Ma anche come sia possibile comprendere il Nachleben der Antike in una più ampia storia della cultura (Meier, Newald, Wind 1934, V).

L’atteggiamento di Wind, segnato da suggestioni filosofiche che mai verranno meno anche nelle sue successive ricerche, appare complesso e gravido di conseguenze storiche e metodologiche.

Egli sostiene anzitutto che occorre far riferimento alla storia della civiltà di Jacob Burckhardt (ivi, VI e segg.), il quale aveva concepito la cultura come insieme di determinate espressioni della vita. E, parallelamente, trarre ispirazione dalle ricerche di Hermann Usener, che aveva strutturato antropologicamente la storia della civiltà come studio del culto di miti e dei rituali antichi e arcaici (ibid). Così, mentre per Burckhardt la cosiddetta alta cultura umanista e rinascimentale aveva coinciso con la riscoperta e l’assimilazione critica della Antichità, per Usener il patrimonio culturale che si celava nelle profondità del nostro passato si era intrecciato alla sua inconsapevole e duratura persistenza, al divenire involontario, inconscio.

Per Wind entrambi gli autori erano accumunati dall’idea di cultura “come totalità” (ibid). Il primo l’aveva indagata nelle manifestazioni artistiche, le feste, le forme di vita rinascimentali. Il secondo l’aveva ricercata nelle credenze mitico-religiose arcaiche, perfino nella funzione che il nome aveva avuto per la creazione e la designazione degli dèi.

Ricerca religioso-mitica e filologico-archeologica da un lato, riflessione sul Rinascimento dall’altro si erano intrecciate e avevano contribuito dunque a definire i contorni del Nachleben der Antike: “questa attenzione per la cultura nel suo insieme, articolata attraverso un interesse specialistico per gli elementi antichi sopravvissuti, è ciò che dà forma metodica alla presente Bibliographie” (ivi, VI).

Il richiamo all’universalità delle ricerche di Burckhardt e di Usener non appare però solo un indiretto riferimento di Wind alla polemica warburghiana contro “i guardiani dei confini”, ma anche un modo per prendere le distanze dalla logica causale delle singole discipline. Soprattutto dalla Geistesgeschichte di Dilthey, di cui Wind sottolinea la distanza dalla storia della cultura.

Dilthey aveva sostenuto che a determinare e introdurre una nuova epoca è sempre “una nuova posizione e concezione della vita” (ibid.; cfr. Yorck von Wartenburg [1877-1897] 2006, 447), dalla cui ulteriore trasformazione discendono i destini storici. In sostanza: una sorta di metafisica sembra condizionare tutte le singole azioni e i comportamenti individuali, poiché al fondo Dilthey presuppone sempre una identica concezione della vita che si annuncia e legittima ogni specifica espressione culturale. L’unità dello spirito finisce così per svilire non solo le indagini storicamente determinate, ma anche i tentativi di stabilire delle interrelazioni tra le varie forme espressive, perfino quelle tra le diverse culture. Nella Geistesgeschichte la legalità intrinseca al pensiero pone infatti la “totalità al di là delle parti” poiché per essa, e per i suoi riverberi sulla storia della cultura, è importante solo come un’epoca abbia concepito la sua collocazione e concezione rispetto alla vita. Per Wind si tratta non di una impostazione volta a indagare le modalità in cui l’espressione umana si è oggettivata, bensì di una disposizione d’animo, di una interiorizzazione che reca in sé connotazioni apertamente metafisiche.

A fronte di ciò, Wind ritiene fondamentale la funzione ordinatrice e regolatrice del simbolo che l’autore non mutua da Goethe, né dal famoso saggio di Friedrich Theodor Vischer, neppure dalla filosofia delle forme simboliche di Cassirer, bensì dalle rapsodiche osservazioni che su questo tema Warburg aveva disseminato negli scritti e soprattutto negli appunti. Del resto, Wind era stato l’unico a cui Warburg aveva permesso di leggere interamente i suoi Frammenti sull’espressione (cfr. Warburg [1888-1903] 2011).

Il simbolo, “ossia il carattere specifico di tutte le conquiste culturali”, opera nella oscillazione tra due poli (Meier, Newald, Wind 1934, VIII e segg). Da un lato è espressione di una forza interiore, che però non è riconducibile di per sé a questa stessa forza essendone la sua espressione oggettivata. Difatti la forza non è mai interamente riversata nella espressione oggettivata (entäußert). Dall’altro il simbolo permane nell’espressione oggettivata come un segnale di questa forza interiore a cui esso stesso rimanda “e grazie alla quale diventa vivo e significativo… cioè sempre di nuovo interiorizzato” (ibid). I diversi gradi del processo di interiorizzazione e di oggettivazione dipendono “dalla distanza da questo centro di forza interiore” poiché i simboli acquistano di volta in volta funzioni diverse in rapporto all’ambiente individuale o sociale. Perfino un segno astratto, che rappresenta il sommo grado di oggettivazione, non esaurisce né surroga questa forza. Allo stesso tempo l’espressione più intensa e più interiorizzata racchiude sempre un minimo di designazione, di oggettivazione simbolica. Il rimando all’insegnamento di Warburg appare anche qui chiaro, soprattutto riguardo al significato che quest’ultimo aveva attribuito ai cosiddetti geroglifici.

Per Wind la considerazione storico-problematica che separa concetto e intuizione sensibile (Anschauung), parola e immagine, conoscenza e credenza sottraendoli al loro legame con il comportamento sociale, poggia su una astrazione e spoglia l’oggetto del suo contenuto simbolico e del suo significato funzionale per l’intera cultura. Il ‘puro vedere’ e il ‘puro pensare’ non sono infatti né un vedere né un pensare poiché ciò che è visto e pensato è creato attraverso un confronto. Difatti, l’unità dello spirito non è mai identificabile nella sua compiutezza poiché tale unità è sempre oggettivata nei singoli oggetti, riti, eventi o immagini, e può essere analizzata grazie a un procedimento analogico e comparativo. Il contenuto e il carattere simbolico di un fenomeno “si rivelano solo a coloro che lo comprendono storicamente come risultato di un confronto, cioè solo quando esso è ricondotto alle energie e alle forze che si incontrano in tale processo” (ivi, IX-X). Ed è proprio sotto questa luce che Warburg aveva, ad esempio, indagato il senso dell’impresa della Fortuna dei Sassetti, concepito il cosiddetto diagramma delle forze come dinamismo interno di una cultura, nonché l’idea di ellissi come equilibrio culturale e tensione all’interno di una polarità tra epoche che non erano strutturalmente contrapposte (Medioevo e Rinascimento) ma tra loro interconnesse e interagenti.

Per Wind il simbolo deve essere relazionato al conflitto tra le forze che si esprimono nella formazione dell’immagine e nel comportamento religioso o sociale. Solo dalle tensioni tra le diverse funzioni della cultura e dal reciproco scambio delle culture e delle mentalità emerge la dinamica del processo storico. Una tale ricerca simbolica implica un effetto reciproco tra le diverse culture. Da qui si comprende il riferimento diretto a Burckhardt, alla sua Civiltà del Rinascimento, ma indirettamente anche alle sue tarde ricerche storico-artistiche, poi sviluppate da Warburg, sui rapporti tra arte italiana e arte nordica.

Per questo motivo risulta infondata non solo l’ingenua credenza in una immanenza dello sviluppo, ma perfino ogni periodizzazione storica. I comportamenti e le creazioni umane acquistano una forma simbolica perché emergono da tensioni fondamentali e si affacciano in modo discontinuo, ‘discreto’, eppur ciclico: “la storia non ‘si svolge’ semplicemente ma si rivela e si compie attraverso le crisi e i relativi risultati” (ivi, X). Essa non consiste neppure in un susseguirsi di Weltanschauungen.

Sebbene anche qui non sia diretto, chiaro è il rimando a Warburg e alla sua idea di “intervallo iconologico”. Nelle crisi la potenza del ricordo e del Nachleben funziona come animazione sollecitando quella che Warburg, riguardo al comportamento individuale e sociale, aveva definito come ciclica “inversione energetica” nella cultura delle epoche. Nella crisi il simbolo che è ricordato agisce come modello o “ammonimento” nell’intervallo della riflessione, cioè nella “sospensione”.

Per lo storico della cultura il ricordo si presenta dunque come una questione essenzialmente storico-filosofica, poiché non solo costituisce un organo della conoscenza storica ma anche perché i simboli racchiudono le tensioni delle forze che si manifestano e si scaricano storicamente nelle transizioni tra le epoche e nei rapporti tra culture. Indagare la funzione del ricordo significa quindi tener presente una duplice delimitazione: l’oggetto del ricordo deve essere stabilito, ma al contempo deve essere dato anche il soggetto della memoria congiuntamente a tutte le circostanze in cui si è compiuto l’atto del ricordare (ivi, X).

Per la nostra cultura, che è connessa storicamente e metodicamente al fenomeno della sopravvivenza dell’Antico, ciò significa che le forme che esso ha coniato continuano ad avere per noi un effetto simbolico. Secondo Wind il confronto tra i simboli ci permette di mostrare come il Nachleben der Antike sia entrato di volta in volta in nuovi stadi storici, cioè sia stato funzionale alle diverse epoche.

Il significato della Bibliographie der Antike non consiste dunque nell’assolutizzare o periodizzare le epoche (Medioevo, Umanesimo, Rinascimento…), ma mostrare come una eredità storico-culturale (Nachleben der Antike) non possa essere sovrapponibile come modello a una determinata epoca. Altrimenti si ricadrebbe nel Classicismo, cioè in un modello precostituito.

Wind conclude che il tema del Nachleben der Antike acquista l’importanza di un paradigma storico che non è “definibile morfologicamente”, né in senso normativo (ivi, X-XI). In tal modo egli sintetizza e traduce anche il senso della disposizione che Warburg aveva inteso dare alla sua Biblioteca.

Le pagine successive della introduzione sono dedicate a descrivere i criteri seguiti dalla Bibliographie che è distinta in: contributi che hanno trattato direttamente il Nachleben der Antike; testi che si sono occupati dell’argomento relativamente ad ambiti di ricerca specifici (religione, scienza, diritto, arte); pubblicazioni che si sono concentrate su una particolare epoca storica, su un ambito culturale o su una personalità e che hanno indagato gli effetti e le ripercussioni del Nachleben der Antike (ivi, XI segg).

È importante notare che nella seconda parte di questa disposizione sono incluse anche le ricerche della “Sach- und Typengeschichte” che ad esempio Panofsky e Saxl avevano condotto assieme (o autonomamente) sulla Melencolia I di Dürer, sulla Imago Pietatis, su Hercules am Scheidewege.

Scopo complessivo della Bibliographie è dunque fornire una visione di insieme ‘non vincolante’ seppur ordinata sistematicamente di ambiti, generi e manifestazioni apparentemente difformi: folklore, religione, miti, filosofia, arte, perfino delle feste e del teatro in quanto espressioni intensificate della tradizione visiva. All’interno dell’arte, capace di “produrre o evocare immagini”, rientra la tradizione iconologica.

Dal punto di vista più propriamente storico la Bibliographie è ordinata: in base alle epoche e agli ambiti culturali; in base a specifiche questioni e eventi all’interno di una stessa epoca. Ma non è strutturata secondo una rigida periodizzazione, sicché classificazioni come ad esempio Medioevo, Rinascimento sono concepite come concetti meramente euristici.

Questa impostazione rispecchia abbastanza fedelmente quello che era stato l’eccentrico percorso intellettuale di Warburg che, trattando le modalità della espressione umana, si era poi irradiato toccando discipline diverse e pur tra loro comunicanti: archeologia, filologia, filosofia, arte…

In sostanza: la Bibliographie presuppone l’idea di un Antico come traccia, impulso che è riemerso nella cultura del tardo Umanesimo e nel Rinascimento. Considerato sotto questa luce il Medioevo occidentale appare uno degli ambiti di ricerca, neppure il più significativo.

E ciò contrasta decisamente con quanto sostiene Schramm, il quale ritiene che questa impostazione sottintende una concezione meccanica della storia che rinuncia sostanzialmente a indagare “ciò che è peculiare” e “la connessione, il collegamento nel tutto”. Sotto questa luce l’Antico appare a Schramm solo una tra le testimonianze che sono state trasmesse e rielaborate nelle diverse epoche.

Questa divergenza tra Wind e Schramm assumerà con il trascorrere degli anni sempre più toni polemici fino a occultare anche le saltuarie convergenze. Certo è che fino al 1934 il contrasto appare ufficialmente sopito e tacitato, soprattutto grazie all’atteggiamento di Fritz Saxl.

Alla luce di quanto finora si è detto, si capisce dunque perché la pubblicazione della Bibliographie faccia esplodere improvvisamente i contrasti fino allora rimasti più o meno latenti. Il carattere dirompente di questo contrasto svela in quale misura le ricerche di Warburg avessero alla fine sollecitato linee e percorsi di ricerca che alla fine risulteranno radicalmente divergenti tra loro.

Tra poco affronteremo come la presa di distanza di Schramm dalla Bibliographie implichi almeno tre questioni fondamentali: cosa si debba intendere per epoca storica; come si debba interpretare l’idea di continuità e discontinuità nella storia della cultura e dunque l’idea di temporalità; perché bisogna intendere l’eredità dell’Antico come Renovatio e Correctio e non come Nachleben (sopravvivenza) o Rinascita. E al contempo come tutto ciò comporti: come debba essere inteso il concetto di Pathosformeln in relazione al Medioevo; quale funzione e significato abbia il simbolo; fino a che punto è possibile parlare di un Nachleben der Antike nel Medioevo e nell’età moderna (Schramm 1958, 176 e segg).

Una prima risposta a tali quesiti la si può individuare nella corrispondenza intercorsa tra Schramm e Saxl. Ma anche nel tipo di rapporto che Schramm aveva stabilito con Warburg fino al 1929, anno della pubblicazione di Kaiser, Rom und Renovatio e della scomparsa del fondatore della Biblioteca. Negli interstizi di questo dialogo si deve infatti ravvisare attraverso quali impervi percorsi “dallo stesso tronco” si fosse sviluppata una linea di ricerca che Schramm afferma risalga a un “errore semantico”, vale a dire nella dilazione del concetto di Rinascimento ben oltre i limiti che Burckhardt aveva fissato nella sua ricerca.

Dal 1921 al 1967 Schramm ha più volte riconosciuto il suo debito intellettuale verso Warburg. Già nel 1911 Schramm – che era nato ad Amburgo nel 1894 da una ricca famiglia di mercanti, la cui fortuna racconta nell’opera Neun Generationen: Dreihundert Jahre deutscher ‘Kulturgeschichte’ im Lichte der Schicksale einer Hamburger Bürgerfamilie (1648-1948) – era entrato in contatto con Warburg e due anni dopo aveva conosciuto Saxl.

Nel 1920 Schramm frequenta a Monaco le lezioni di Wölfflin che anticipano in parte Italien und das deutsche Formgefühl. Si può supporre che il rapporto tra opere d’arte e carattere delle singole nazioni su cui Wölfflin stava lavorando abbia avuto una forte influenza sul giovane studente, tanto più che questa impostazione si intreccia in questo periodo alla sua lettura di Ranke. Nonostante ciò, in una lettera a Warburg del 5 maggio 1920, Schramm solleva alcune perplessità: Wölfflin cerca “le relazioni immanenti”, lo “spirito” nei singoli elementi di un’opera d’arte ma non la sua relazione con il contesto storico (cfr. Thimme 2006, 96).

Nel 1921 abbozza alcune pagine su Warburg (in parte inedite) dal titolo Versuch einer Biographie dopo che il fondatore della Biblioteca si è trasferito da Jena alla clinica di Kreuzlingen (Schramm 1979, 36-41; cfr. S.A.H., Ms. FAS L, Jahrgang 94, Bd. I, foll. 24-33). Il tono è quello di un epitaffio sull’opera di ricerca e organizzativa (la Biblioteca) di un maestro che appare intellettualmente irrecuperabile. È abbastanza significativo ricordare che nel 1920 Warburg, mentre era ricoverato a Jena, aveva nominato Schramm nel testamento come uno tra coloro che dovevano garantire la continuità della Biblioteca (Unterkarte Aby Warburg, testamento redatto il 7.10.1920, S. A.H., FAS L 230, Bd. 11). A questo periodo risalgono anche due frammenti di Schramm su Warburg (S.A.H., FAS L 1920-1921, 16 gennaio 1921). D’altra parte, già nel 1906 i buoni rapporti con la famiglia Schramm avevano spinto Warburg a chiedere al padre di Percy Ernst di sostenere finanziariamente il Kunsthistorisches Institut di Firenze (cfr. Thimme 2006, 45).

Schramm frequenta assiduamente la Biblioteca amburghese e più volte negli appunti e nelle lettere di questo periodo descrive Warburg come suo “nume intellettuale” i cui “aneliti verso l’universalità” ritiene strettamente dipendenti da una precisa impostazione metodologica (S.A.H., FAS L 1920-1921). In questo periodo i buoni rapporti tra Schramm e Saxl sono confermati anche dal resoconto sulla situazione della Biblioteca che quest’ultimo invia il 5 gennaio 1921 a Max Warburg e in cui dichiara che alla stesura del testo aveva contribuito anche Schramm (Thimme 2006, 103).

Un anno prima, nell’autunno del 1920, sulla rivista “Hamburger Universitäts-Zeitung” era apparso il manifesto programmatico della Biblioteca Warburg. Scritto da Saxl e intitolato Das Nachleben der Antike: zur Einführung in die Bibliothek Warburg, l’intervento era incentrato sul tema della sopravvivenza come “rapporto delle culture post-antiche con l’Antichità classica” (Saxl 1920, 244-247). Umanesimo e Rinascimento erano definite “fasi” all’interno di questo “processo”, l’Antico un fenomeno “persistente” nella vita dei popoli che aveva forgiato il carattere della cultura europea. L’articolo, che poco dopo comparirà in forma ampliata come saggio di apertura nel primo volume “Vorträge der Bibliothek Warburg” (Saxl 1923, 1-10), aveva però sollevato alcuni dubbi in Schramm che riteneva questo progetto “immenso” e vago. Anche il concetto di “cultura” qui formulato gli era apparso “sovra-storico” poiché non considerava l’identità delle culture dei popoli romani e germanici e la funzione che avevano esercitato lo Stato e la Religione (Schramm, Tagebuch 1920-1921, S. A.H., FAS L, 27-28 [16.1.1921]). L’atteggiamento di Schramm indica probabilmente la sua prima vera presa di distanza da Saxl.

Queste obiezioni rivelano in controluce come in questi anni Schramm inclinasse per una lettura di Burckhardt tesa a privilegiare le celebri (e cosiddette) Weltgeschichtliche Betrachtungen rispetto alla Civiltà del Rinascimento. In queste lezioni Burckhardt aveva sostenuto che nello studio della storia la cultura doveva essere indagata non solo come “potenza” autonoma ma anche nei suoi condizionamenti con le altre due “potenze storiche”, cioè lo Stato e la Religione (cfr. Burckhardt 1998, 45 e segg).

Come abbiamo anticipato, al febbraio del 1921 risale la relazione – tuttora inedita – dal titolo Rankes Geschichtsauffassung: “grande impressione: trasformazione della concezione della storia soprattutto grazie all’influenza di Ranke”. Schramm riprende l’idea di Ranke secondo cui gli eventi e il carattere dei popoli sono oggettivazioni di una “legge imperscrutabile” dello spirito. La storia ha lo scopo di indagare le forme di tali oggettivazioni nello Stato, nella Religione e nella Cultura. Ogni individualità è infatti una forma oggettivata storicamente di ciò che Ranke definisce “spirito”, e che Schramm interpreta come cultura storica immanente dei popoli. In tal modo egli pare riconfermare la lezione di Burckhardt e delle sue Weltgeschichtliche Betrachtungen, ma anche dipanare il sottile e persistente filo che lo lega a Warburg, alla sua concezione della cultura e di spazio del pensiero (Denkraum).

In questo periodo Schramm è impegnato nella sua tesi di dottorato. A Saxl ne invia un capitolo che tratta il “Nachleben dell’antico ideale del sovrano” e che dichiara di aver scritto ispirandosi a Warburg: “attendo con ansia il Suo parere. Questo capitolo non è propriamente legato al tema principale che è la sopravvivenza dell’antico ideale di dominio, ma spero di averlo scritto del tutto nel senso di Warburg” (SBr, lettera del 3.4.1922).

L’immagine del sovrano rispecchia le condizioni mutevoli del dominio e la stretta relazione tra il concetto e l’idea di impero giacché nel contenuto delle immagini si possono cogliere gli aspetti fondamentali della vita umana del tempo. Nel primo Medioevo l’immagine del potere divino e di quello mondano si intrecciano, così come era avvenuto nell’arte ellenistica: “la cultura ecclesiastica medievale fa rivivere la rappresentazione della violenza pagana”. Oltre la cultura bizantina è l’Antico Testamento la fonte che ispira l’immagine “interamente nuova” del sovrano nella successiva epoca degli Ottoni. Essa si manifesta non solo nel comportamento e nei gesti ma anche nelle insegne, sulle monete e sui sigilli.

In una lettera Saxl obietta che questa impostazione appare “limitata” rispetto a ciò che si può “illimitatamente trarre dai monumenti” (SBr, lettera del 1.4.1922, cfr. anche la replica di Schramm del 3.4.1922). Probabilmente questa osservazione va ricondotta all’idea propugnata da Saxl di una storia seriale e tipologica delle immagini.

Tra l’aprile e il maggio del 1922 Schramm fa visita a Warburg a Kreuzlingen e cerca inutilmente di ottenere un posto fisso presso la Biblioteca ma la scelta cade su Gertrud Bing (Thimme 2006, 131 e segg). Subito dopo Schramm si trasferisce da Monaco a Heidelberg per continuare a studiare il Medioevo anche se in una lettera del 5 ottobre 1922 scrive a Warburg: “Adesso godo veramente della Sua Biblioteca dove ho tutto davanti a me”.

A dicembre dello stesso anno tiene una conferenza pubblica presso la Biblioteca dal titolo L’immagine del sovrano nell’arte del primo Medioevo (Herrscherbild in der Kunst des frühen Mittealters). Il punto di partenza è una miniatura dell’imperatore Ottone III conservata nella Staatsbibliothek di Monaco di Baviera ove il sovrano è raffigurato come simbolo della relazione tra regnum e sacerdotium.

In una lettera a Warburg, Saxl giudica questa esposizione “retorica” e piuttosto “debole”: “Schramm – scrive Saxl a Warburg il 4 gennaio 1923 – si è certamente formato nelle stanze della Biblioteca, ma sotto sotto si nasconde uno spirito del tutto difforme dal Suo e dal mio” (WIA, GC, lettera del 4.1.1923). Poche settimane dopo Schramm si trasferisce a Heidelberg. Da questo momento in poi Schramm non sarà più coinvolto direttamente nelle decisioni riguardanti la Biblioteca. Nonostante ciò, il testo della conferenza è pubblicato nel 1924 nella serie “Vorträge der Bibliothek Warburg” (Schramm 1924, 145-224).

Due mesi prima Schramm aveva comunicato a Warburg che la sua intenzione era trattare come alcune “immagini profane” erano state assorbite nella sfera teocratica e la raffigurazione del sovrano racchiudesse elementi iconografici che rimandavano ad uno specifico contesto culturale: “non si tratta di una ricerca storico-artistica bensì di una trattazione storica che utilizza delle immagini” (SBr, lettera del 5.10.1922). L’iconografia del potere politico era insomma connessa alla sua capacità di rappresentare gli individui anche in assenza di una loro precisa fisionomia. Così, sebbene Warburg e alcuni suoi seguaci abbiano gettato luce sulla dipendenza iconografica del Medioevo e del Rinascimento dalla Antichità, non bisogna mai dimenticare né sottovalutare il fatto che là, dove si delinea una concatenazione di topoi o l’utilizzo di modelli iconografici di singoli motivi, atteggiamenti o posture, si dà vita, attraverso delle reinterpretazioni, a varianti, o perfino attraverso degli incastri, a prodotti nuovi. L’uso dei topoi può infatti condurre o degenerare in un alessandrinismo erudito che smarrisce il problema storico fondamentale, vale a dire il rapporto culturale tra le diverse epoche della storia. Chiara appare qui la polemica non solo verso E. R. Curtius ma anche nei confronti di Saxl (Schramm 1958, 183 e segg).

Questa impostazione rimanda, come vedremo, alla concezione che Schramm aveva del simbolo e del ‘segno’: “ogni immagine del sovrano – scrive Schramm in Das Herrscherbild in der Kunst des frühen Mittelalters – è un documento storico che ha un suo peculiare valore in quanto essa è più o meno una testimonianza individuale di una figura del passato che integra (ergänzt) la rappresentazione fornita dalle fonti scritte” (ivi, 145 e segg).

Al contempo aveva riconosciuto in una lettera del 4 gennaio 1923 che la conferenza era “nata effettivamente negli spazi della Biblioteca Warburg” e che, sebbene egli avesse una “visione completamente diversa” dalla politica culturale e editoriale della Biblioteca, doveva tuttavia riconoscere la funzione delle immagini in rapporto alla storia della cultura; nel caso specifico, come l’immagine del sovrano racchiudesse aspetti iconografici e iconologici che concernevano non solo le condizioni mutevoli del dominio, ma anche la sfera culturale. Schramm riconosceva dunque una stretta relazione tra il tipo di immagine del sovrano e le mutevoli condizioni attraverso le quali si esprime il potere. L’arte era concepita come articolazione della ricerca storica. Ma non più di questo.

Due anni dopo aver conseguito l’abilitazione (1924) Schramm incontra Warburg, che era stato appena dimesso da Kreuzlingen, a Baden-Baden, e in una lettera a Saxl manifesta il suo dispiacere per come le esperienze di Jena e di Kreuzlingen abbiano fiaccato il carattere del fondatore della Biblioteca. Nonostante dichiari di essere stato favorevolmente impressionato dalle condizioni generali, confessa di essersi trovato di fronte a una «doppia personalità» da cui erano emersi “tristi e singolari resti” (SBr, lettera dell’11.9.1926).

Tra il 1926 e il settembre del 1929 il Tagebuch der Kulturwissenschaftlichen Bibliothek Warburg riferisce con frequenza i contatti tra Schramm e Warburg. Importante notare che alla data del 29 maggio 1928 Warburg annota: “Schramm mi ha mostrato una copia del suo saggio” su Roma e l’idea di “Renovatio […] l’ho rassicurato che il testo sarà accettato, anche se lui mi è parso avere dei dubbi” (Warburg [1926-1929] 2001, 262). Dunque, il primo a non essere pienamente convinto che il libro rientrasse nelle linee editoriali della Biblioteca era l’autore stesso.

Dagli appunti conservati e dalle opere di questi anni si ricava l’impressione di un lento e inesorabile distacco molecolare non tanto da Warburg ma dalle ricerche della Biblioteca incapaci, a detta di Schramm, di comprendere la funzione del Medioevo. Così, sebbene continui a manifestare un interesse per la sopravvivenza dell’Antico, ritiene che questa questione sia una ‘sovra-determinazione’. Lo scopo principale dovrebbe essere infatti quello di analizzare, attraverso le fonti che sono collocate nello spazio e nel tempo all’interno di uno stesso contesto, come la “sopravvivenza dell’Antico” si fosse presentata nel corso dei secoli e nei diversi popoli come Renovatio e Correctio.

Nel 1928 appare Die deutschen Kaiser und Könige in Bildern ihrer Zeit che affronta le interrelazioni tra le immagini e i simboli antichi e medievali e il concetto di sovranità imperiale. Il testo rispecchia il modo in cui Schramm interpreta la lezione di Warburg, un uomo che riconosce gli ha aperto gli occhi sul significato delle immagini come documenti storici. Non solo. In questa ricerca Schramm sembra far propria l’idea warburghiana che i mutamenti stilistici, così come quelli nella concezione dello Stato, si annidano nei dettagli, intesi non come insieme di residui antiquari, bensì come “accessori” che irrompono, modificandolo, lo stile. Il filo conduttore del saggio, che rappresenta il primo tentativo organico di costruire un corpus regalitatis Medii Aevi, risulta dalla combinazione tra questo corpus e la sua interpretazione. La disanima critica di sigilli, monete, manoscritti e oggetti d’arte permette a Schramm di discutere fino a che punto è possibile e a quali condizioni si possa parlare di continuità e cambiamento del significato delle immagini. Tanto più che quelle del sovrano non indicano spesso una fisionomia particolare ma sono solo simboli della sovranità. Con ciò egli sembra anticipare le ricerche di Ernst Kantorowicz sulle Laudes regiae e sulle procedure della incoronazione.

Per Schramm nell’epoca degli Ottoni il ruolo dell’Antico, che pur era stato centrale nella cultura carolingia, era mutato, ed era prevalsa una concezione trascendente della realtà, uno stile rigido e monumentale, una accresciuta capacità di astrazione che si prefiggeva di dare “una dimensione di profondità spirituale all’immagine del sovrano”. Questo atteggiamento più indipendente verso i propri modelli aveva generato uno stile ieratico e monumentale parallelamente alla crescita dell’influenza della Chiesa dopo il suo declino in epoca tardo-carolingia, nonché l’affermarsi di una verità trascendentale che aveva pesato sulla tradizione classica ma anche sull’idea della Renovatio. L’eredità dell’Antico appare insomma anche qui segnata e indagata attraverso le sue continuità, le sue fratture e discontinuità. Questo fenomeno costituisce per Schramm non solo un capitolo fondamentale per comprendere i rapporti tra Medioevo e Antichità, ma anche una questione cruciale per l’intera storia europea (Schramm 1928, 16). In effetti, si può parlare di persistenza dell’Antico nella vita dei popoli solo a patto di determinare quali siano la peculiarità, e l’individualità di una determinata epoca: il Medioevo non ha mai rigettato l’Antico ma lo ha sempre ritenuto un “residuo” da rinnovare (Thimme 2006, 177 e segg).

Per Schramm si tratta dunque non tanto di sopravvivenza dell’Antico ma di Renovatio e di Correctio. Nel Medioevo Renovatio e Correctio hanno assunto modi e forme diversi anche dal punto di vista temporale. Permanenza e continuità devono essere considerate simultaneamente all’idea di mutamento e di trasformazione. L’uomo medievale non è una cinghia di trasmissione di una eredità politica e culturale, ma un soggetto che ha creato una nuova simbologia ottenuta reinterpretando di volta in volta l’Antico riempiendolo di nuovi contenuti. Sotto questa luce si capisce perché lo studio delle immagini sia per Schramm, che si definiva un “Augenmensch, uno degli strumenti fondamentali per comprendere il Medioevo e anche perché affermerà in seguito che Warburg gli aveva instillato la sensibilità di poter comprender grazie alle immagini la cultura di una data civiltà: “a tale proposito Warburg mi ha aperto gli occhi” (Schramm 1968, 8).

Di lì a poco anche Saxl e Panofsky affronteranno la questione della mitologia classica nell’arte medievale come esempio di una dissociazione tra forma e contenuto cercando così di riannodare i fili di quella che Seznec chiamerà alcuni anni dopo La sopravvivenza degli antichi dèi.

Da queste premesse si comprende perché in Kaiser, Rom und Renovatio Schramm collochi l’analisi delle “molteplici attese di rinnovamento” che nel Medioevo riaffiorano nei più diversi ambiti della vita spirituale. Soprattutto l’idea di una Renovatio dell’antico mito di Roma e di Impero. Questo tentativo di “estetica di Renovatio” si è espresso soprattutto con modalità diverse attraverso i programmi e le rappresentazioni di una Renovatio politica e di una Correctio culturale: il tema dell’Antico come magister per il Medioevo si identifica sostanzialmente con la storia della cultura medievale poiché non c’è praticamente ambito su cui l’Antico non abbia esercitato in qualche modo la sua influenza. Si tratta di un processo straordinariamente vario e disomogeneo che nei singoli periodi sembra assumere una direzione e una mentalità comuni a tal punto che si è pensato, in modo alquanto discutibile, di definire queste fasi ‘Rinascimenti’ o ‘Protorinascimenti’ (Schramm 1958, 3 e segg). Anche l’evoluzione interna a ogni singola epoca non corrisponde né si esaurisce mai in un’unica prospettiva giacché coesistono contraddizioni e fasi diverse. L’Antico si esprime e si presenta in ogni ambito della vita spirituale e artistica attraverso modalità ben precise sicché “i rapporti mediati sono talvolta di nuovo sostituiti da relazioni dirette”. Ciò che rinnova e corregge l’Antico “una volta è il contenuto, un’altra la forma, un’altra ancora è il sapere o il sentire, infine è l’ordinamento giuridico o la forma della vita. Tutto è possibile allo stesso tempo, sia la libera emulazione sia la semplice imitazione”. Oppure talvolta ci si accontenta di richiamarsi semplicemente (e superficialmente) ad esso. Soprattutto “non bisogna mai trascurare un aspetto: il Medioevo si rapporta all’Antico in modo fin troppo specifico – in ragione della fede e del fatto che uomini di tutt’altro lignaggio sono i portatori della cultura – cosicché esso non si atteggia mai nei suo confronti come farebbe un semplice discepolo” (Schramm 1929, 3). L’uomo medievale non recepisce l’Antico nella sua complessità ma lo filtra, lo seleziona “in forme e in ambiti diversi e comunque rapportandolo sempre alla propria identità”. È dunque complesso stabilire in quale misura l’intera cultura medievale sia vissuta e abbia rinnovato e corretto l’eredità antica. Anche nel primo Medioevo la percezione di Roma antica e dell’Impero è rimasta sempre vincolata a una immagine del passato di cui erano riemerse di volta in volta solo talune linee. Il Paganesimo aveva continuato ad allungare le sue ombre, ma “fin quando queste oscurità non saranno state cacciate dalla luce” sarà “impossibile che l’Antico […] possa dischiudersi al Medioevo”. Renovatio, Correctio e Renaissance: si tratta di ripercorre una strada che si colloca ben al di là della condanna cristiana del paganesimo, di comprendere come l’Antico abbia vivificato il Medioevo (ivi, 216, 269 e segg).

Alcuni anni prima Schramm aveva confessato a Saxl che il suo progetto avrebbe permesso “di liberare realmente alla radice” l’immagine del Medioevo e di analizzare attraverso quali percorsi e manifestazioni l’eredità dell’Antico era stata sottoposta a una Renovatio e a una Correctio (SBr, lettera del 7.3.1923). Lo scopo non consisteva dunque nel tracciare un arco che si soprapponesse alla rugosità e alle stratificazioni interne tra le varie epoche, bensì di ripristinare e in parte ricostruire le strade attraverso le quali il patrimonio dell’Antico era stato assimilato, rinnovato e corretto culturalmente (Schramm 1971, 666 e segg).

Rispetto a ciò la ‘scuola’ warburghiana non aveva mai avuto un atteggiamento empatico verso il Medioevo. Lo aveva sempre considerato una fase di passaggio tra l’Antichità e il Rinascimento. Per questo motivo Schramm si era proposto di indagare come il Medioevo si fosse contrapposto e allo stesso tempo fosse coesistito con l’Antico. Anche l’idea di iconologia come concatenazioni di modelli iconografici di singoli motivi, atteggiamenti o formule, sviluppata da Saxl e in parte da Panofsky, era sempre apparsa a Schramm niente più che il frutto di re-interpretazioni attraverso varianti o incastri in altre cornici.

Si trattava sempre di recuperare il senso vitale del movimento e della espressione realistica. Le forme classiche erano pre-coniazioni che nel tempo erano state sottoposte a una rifinitura e ad una trasformazione. Così era stata possibile una espressività fino allora ignota, anche se parallelamente permaneva e coesisteva l’opposizione tra arte ellenistica e arte tardo-antica, tra una rappresentazione attraverso l’immedesimazione con il mondo esterno e un disegno puramente concettuale, tra l’espressione esuberante dell’emozione umana e la forma ornamentale puramente impersonale.

In queste prese di posizioni variamente disseminate nelle opere di Schramm si possono cogliere alcune caratteristiche tipiche del linguaggio e della ricerca di Warburg, anche se l’orizzonte appare segnato da diversità tematiche e metodologiche rispetto a cosa si debba intendere per epoca storica, a come si debba interpretare l’idea di continuità e discontinuità nella storia della cultura e dunque l’idea di temporalità, perché bisogna sempre concepire l’eredità dell’Antico come Renovatio e Correctio e non come Nachleben o Rinascita; infine fino a che punto si possa parlare di un Nachleben der Antike nel Medioevo e nell’età moderna (Schramm 1958, 176 e segg).

Prima però di analizzare la lettera che Schramm invia nel gennaio 1935 al Warburg Institute e in cui muove profonde critiche alla Bibliographie, occorre soffermarci brevemente su due ulteriori questioni: come Schramm concepisca la funzione e il significato del simbolo; come intenda il concetto warburgiano di Pathosformeln.

In una lettera di Schramm a Saxl del 9 luglio 1934 si legge: “contrariamente a come è stato finora […] cerco di seguire la storia del pensiero simbolico attraverso la storia dei simboli nei singoli paesi e secoli, storia che deve essere poi confrontata con l’allegoresi, e quindi con l’inserimento della storia del diritto e della filosofia”. Schramm recepisce la definizione di simbolo di Goethe (“il simbolo è la cosa senza essere la cosa stessa, e comunque la cosa è una immagine concentrata nello specchio mentale e comunque identica all’oggetto” Goethe [1816-1832] 1887-1919, 49), anche se sottolinea che questo termine è troppo vago. E preferisce usare “Sinnzeichen” o “Zeichen”, termini che possono essere declinati in modi diversi, ad esempio “Herrschaftszeichen”. In ogni caso il simbolo resta in generale per Schramm una personificazione, una funzione che racchiude in una immagine un rapporto e un senso, mentre “Sinnzeichen” rimanda a contesti diversi e più determinati di tempo e di luogo. L’allegoresi indica invece il significato che si cela nei testi. Per Schramm simboli e segni devono essere ri-contestualizzati all’interno della mentalità e delle cerimonie di cui sono espressione. Il simbolismo e il segno sono insomma radicati in una sorta di semiologia religiosa, sono vita symbolica activa, connessi ai ‘residui’ e soprattutto alle testimonianze dell’idea antica di sovranità (Schramm 1971, 693 e segg).

Warburg concepisce diversamente il simbolo. Anzitutto esso non ha una funzione attiva, regolatrice di situazioni, condizioni e rapporti, ma è “una comparazione attraverso una identificazione con una gestualità semplice, mirata, condizionata dal desiderio di autoconservazione” (Warburg, 211, fr. 128b). Il simbolo è un segno distintivo che ha acquisito il suo senso grazie a ricordi noti (storie). Perciò la momentanea volontà vivente non vi si rispecchia. Si tratta di una forma “della attività dell’intelletto volta al passato combinata con ‘l’ingenua’ identificazione del portatore e del segno distintivo” (fr. 141), di un segno “inteso arbitrariamente come nome univoco” (fr. 153). È un distacco, una disconnessione dal contesto reale che sostituisce l’oggetto.

Schramm afferma ripetutamente che Warburg e la sua scuola non hanno mai mostrato alcuna empatia con il Medioevo, ritenendolo sempre una fase di transizione tra l’Antichità e il Rinascimento (Schramm 1971, 702-705). Il mio principale problema, afferma Schramm, è stato invece quello di comprendere che cosa dell’Antichità sia stato effettivamente accessibile nel Medioevo, quale sia stato l’impatto del Cristianesimo e come il suo simbolismo sia stata re-interpretato. Anche il cosiddetto Nachleben der Antike è una metafora che presuppone una visione “meccanica e di dormiente bellezza dell’Antico” che guarda al Medioevo come ad “un brutto sogno” (ivi, 706 e segg). In un certo senso a Warburg è mancata la concezione del tempo storico, e l’Antichità era concepita da lui come una sorta di araba fenice. In Warburg resta così insoluta una questione di fondo: “in quale modo l’immaginazione medievale ha adattato e trasformato nella simbologia religiosa e del potere l’Antichità?” (ivi, 706-717). Perciò, afferma Schramm, “sebbene avessi iniziato a studiare con Warburg, le nostre strade hanno finito per divergere”. Nonostante ciò, Warburg ha avuto il merito di dimostrare la dipendenza iconografica del Rinascimento dall’Antichità, fatto questo che ha permesso di svelare come molte opere all’apparenza nuove avessero in realtà una radice nel passato.

Significativa appare anche la divergenza riguardo alle Pathosformeln. Warburg aveva concepito il corpo umano come un generatore di forze, una voluta di energie, l’uomo un essere cinetico. Si era interessato alle manifestazioni della volontà espresse nelle immagini, a come in esse scorresse un flusso e una sofferta esperienza del mondo. Le Pathosformeln erano intese come una sorta di litania visiva. L’impulso (Trieb), la percezione e l’appropriazione umana della realtà era oggettivata nei gesti, che spesso erano stati codificati in repertori di immagini: il gesto del vincitore, la Ninfa, il Pathos barocco del Ratto, il Trionfo e così via. Ad ogni buon conto le Pathosformeln rimandano ad un sottofondo costitutivo antropologico e anche la questione del Rinascimento si presenta in Warburg come metamorfosi energetica dell’autostima individuale che è suscitata da una polarizzazione che viene provocata dalla ricostruzione delle immagini mnemoniche. Detto altrimenti: si tratta di una polarizzazione dinamica che opera attraverso la ricostituzione di un ricordo antropomorfo.

Schramm non condivide se non limitatamente questa concezione delle Pathosformeln che non rappresentano delle pre-coniazioni dell’Antico. Schramm parla invece di “Majestätsformel”, di “Devotionsformel”, di formule e dunque non di formulazioni. E più in generale di “schemata”, giacché “come la letteratura ha i suoi topoi, così l’arte figurativa tramanda i suoi schemata […] poiché ritenuti convincenti” (Schramm 1956, 17). Ciò significa che gli schemata visivi consistono in immagini concepite come testimonianze.

Da queste premesse si comprende il senso della lettera che il 20 gennaio 1935 Schramm invia ufficialmente alla Biblioteca Warburg di Londra dopo aver ricevuto, nei giorni precedenti il Natale, una copia della Bibliographie (cfr.  Grolle 1991, 102-104). Anzitutto premette che risulta “estraneo” al violento attacco di stampo antisemita che la pubblicazione aveva subito da parte del “Völkischer Beobachter”. Al contempo non esita però a manifestare apertamente le sue perplessità sulla impostazione e sulle intenzioni della Bibliographie.

La prima obiezione ha un sapore di stampo fortemente nazionalista, caratteristica questa che resterà sempre uno dei tratti tipici della sua concezione storica e politica. Schramm intende probabilmente non solo cautelarsi verso il regime nazista, ma anche esprimere il suo forte disappunto per il trasferimento della Biblioteca a Londra che interpreta come un vero e proprio tradimento verso la Germania.

La seconda obiezione è sostanziale e concerne l’esistenza stessa del Nachleben der Antike: “credo che la questione essenziale del Nachleben der Antike sia la trasformazione della sua eredità culturale all’interno dei singoli popoli e delle epoche” (cfr. Grolle 1991, 103). Ciò che ho cercato di fare “è trovare una costante nella trasformazione all’interno dei singoli popoli europei”, svelare la strada che ha preparato il sorgere dello spirito tedesco, francese e così via. Wind nella sua introduzione ha invece liquidato frettolosamente e in modo superficiale questa mia posizione (ivi, 103).

Quindi in una lettera a Saxl datata 31 gennaio ribadisce ulteriormente le sue convinzioni auspicando che “nonostante le difficoltà, l’eredità di Warburg possa essere preservata e resa feconda al di là del tempo” (ivi, 104). La lettera ha il tono di un congedo che negli anni successivi diventerà aperta polemica politica e culturale.

Schramm e Saxl si incontreranno un paio d’ore a Londra nel giugno del 1935, quindi nel 1937. Niente più. Ma non è questa la prospettiva su cui qui intendiamo soffermarci nella parte finale di queste brevi annotazioni. Importante è osservare ancora una volta che Schramm ribadisce nel 1935 non solo il senso complessivo che aveva avuto per lui l’opera di Ranke sui popoli romani e germanici, l’idea di Burckhardt sul carattere peculiare della civiltà italiana, ma anche fino a che punto il magistero di Warburg fosse stata una delle componenti essenziali che avevano ispirato la sua ricerca.

Nel tardo autunno del 1934, Gertrud Bing chiede a Schramm una recensione degli scritti di Warburg appena pubblicati con il titolo Die Erneuerung der heidnischen Antike (WIA, GC, lettera del 27.11.1934). Schramm dichiara la sua disponibilità, anche per “onorare” un debito verso il suo maestro, e propone come sede la rivista “Historische Zeitschrift” (Thimme 2006, 386 e segg). La recensione non sarà però mai scritta, così come in precedenza non era stato realizzato il progetto di pubblicare alcuni saggi inediti di Warburg a cui Schramm doveva lavorare assieme a Franz Boll.

Dovevano passare alcuni anni perché Schramm ritornasse a stabilire un contatto ufficiale con il Warburg Institute e accennare all’opera di Warburg. La prima occasione è una lettera del 25 aprile 1948 che, dopo la morte di Saxl, Schramm invia a Gertrud Bing. Qui sostiene tra l’altro che la biografia intellettuale di Warburg è stata segnata dalla sua “malattia” che lo ha ulteriormente mosso ad affrontare “ampie panoramiche”: Warburg, “mi ha dischiuso qualcosa di nuovo, una strada” più feconda di quella che mi avrebbe aperto se fosse stato “sano”. In tal modo egli ha potuto sviluppare le sue capacità di raffinato sismografo.

La seconda ci è fornita da una breve commemorazione fino ad alcuni anni fa rimasta inedita dal titolo Il mio maestro Aby Warburg (Mein Lehrer Aby Warburg) (Schramm 1979, 36-41). In questo breve testo, scritto tre anni prima della morte, l’autore condensa il senso ultimo del suo debito verso Warburg.

Dopo aver ricordato le ragioni che avevano indotto il fondatore della Biblioteca a rimanere ad Amburgo rinunciando alla carriera accademica, Schramm scrive: “come storico dell’arte Warburg ha rappresentato una direzione di studi che non è stata ancora riconosciuta, seppur sia tuttora rispettata. Egli si è fatto carico dell’intera tradizione figurativa che dal XIX secolo è giunta fino alla modernità” (ivi, 37). Egli possedeva “un sensorio per il simbolo, il mito e tutto ciò che la profezia incarnava”, e guardava al primo Rinascimento italiano con occhi che altri non avevano: “venerava Jacob Burckhardt e la sua Civiltà del Rinascimento italiano ma al contempo riteneva che la concezione burckhardtiana della ‘rinascita’ dovesse essere ulteriormente integrata”. Perciò aveva accolto la concezione nietzschiana del dionisiaco, che aveva poi riversato nei suoi studi sulla astrologia, sul carattere geniale e al contempo melancolico e maniaco-depressivo. Rispetto alla sua epoca Warburg era un “moderno” che aveva saputo far tesoro degli stimoli di Wundt, Lamprecht e della psicologia pre-freudiana.

Ma Warburg era anche colui che aveva concepito la Biblioteca come una “impresa” che necessitava di un gruppo di collaboratori. Nonostante ciò era rimasto sempre un individualista, “un collezionista”, un uomo dalle grandi capacità di direzione che precedentemente il suo ricovero a Jena aveva confessato: “Intendevo costruire una macchina per la scienza. Ma questa macchina alla fine mi ha schiacciato. Questo è stato il mio destino”. Di corporatura media e piuttosto tarchiata, dal torace ampio, “i suoi movimenti avevano qualcosa di esatto, ed erano modalità di una mente” che governava perfino i suoi gesti. “Quando gli presentai mia moglie, che proveniva da una famiglia di Junker della Pomerania, disse: ‘tra la nobiltà prussiana e noi, una antica famiglia ebrea, vi sono sotterranee affinità: noi non viviamo come vogliamo bensì come dobbiamo’”. Se dunque “dovessi riannodare l’esperienza con Warburg al filo rosso di questo mio ricordo”, egli ha avuto per me la stessa funzione che per mio padre avevano avuto Goethe e Ranke. Solo che si trattava di un mondo allettante, ma “irreale”. Simile ad un antico stratega, Warburg aveva sempre confidato nella ratio, anche se aveva compreso molto bene quale funzione avessero avuto e continuassero ad avere nella storia la forza barbarica e le pulsioni emotive. La catastrofe nazionale tedesca, vale a dire la sconfitta nella Prima Guerra Mondiale, lo aveva colpito profondamente come tedesco, precipitandolo in una sorta di pazzia che si era poi rivelata una sorta di “dono della grazia degli dèi”. La psicologia moderna aveva svelato una condizione complessa e inquietante: “Eliot aveva ragione quando mise in bocca a Thomas Becket le parole: difficilmente il genere umano è in grado di sopportare la realtà […] questo è per me un esempio di che cosa sia stato il suo insegnamento” (Schramm 1979, 42).

Da storico Schramm riconosce che nel suo rapporto con Warburg avevano convissuto, sempre mosse sul filo del rasoio, contraddizioni e divergenze, debiti e legami. E che perfino i contrasti all’apparenza più irriducibili si erano mescolati e alternati a momenti di complicità. Ma anche che rispetto all’ambiente warburghiano Schramm aveva sempre avvertito la sua eccentricità.

Alcuni anni fa Joist Grolle ha ricostruito la vicenda della rottura tra Saxl e Schramm, vicenda questa che non possiamo riprendere qui e che necessiterebbe di ulteriori approfondimenti per i suoi risvolti culturali e non solo biografici.

In conclusione possiamo però almeno affermare che in fondo la cosiddetta ‘scuola warburghiana’ non è stata che un richiamo ideale ad una esperienza di vita scaturita da un ceppo comune da cui si erano poi sviluppate personalità diverse, tutte protese verso strade che talvolta parevano intersecarsi per poi di nuovo divergere.

Schramm, Wind, Saxl (lo stesso Panofsky) avevano potuto infatti richiamarsi all’insegnamento di Warburg come al loro “Schützpatron”. Certo è che ogniqualvolta cerchiamo di analizzare le opere di queste personalità ci troviamo sempre di fronte ai fili di una complessa matassa che non sono riconducibili a un’unica trama. E perfino le divergenze sembrano mutare nel corso del tempo.

La ‘scuola warburghiana’, di cui il dibattitto tra Wind e Schramm rappresenta un caso emblematico, non è dunque che una nebulosa attraverso cui si intravedono talvolta le distanze e le differenze che precipitano o si affiancano in tempi diversi, con ritmi e forme non omologabili.

Neppure Wind, che pur sembra essere idealmente vicino al pensiero di Warburg, soprattutto per ciò che concerne l’idea di tradizione culturale e relativa funzione del simbolo, e che proprio Warburg stesso aveva indicato come il più promettente continuatore delle sue ricerche, non sembra alla fine abbia risolto la forbice tra storia e filosofia che Warburg con le sue ricerche aveva comunque affrontato, seppur a corrente alternata, e talvolta era riuscito anche a incanalare. Né Wind ci risulta abbia affrontato, forse perché appartenente ad una cultura non riconducibile alla seconda metà del XIX secolo, il versante psico-antropologico della riflessione di Warburg.

Warburg si era collocato storicamente e culturalmente in mezzo a un incrocio, su uno spartiacque, aveva vissuto una crisi epocale ma non i suoi drammatici esiti, benché avesse individuato nella crisi del linguaggio e della espressione umana la questione che segnava il suo tempo e segnerà la cultura del XX secolo. Perciò aveva cercato di mostrare come le immagini fossero i conduttori visivi di una modalità della cognizione umana.

Dunque, è proprio nella densità inquieta di questi rapporti, in questa reiterata dissonanza, in queste tacite zone, nei silenzi, nonché in una comune affinità rispetto al tempo che risiede il significato storico tuttora inesplorato del ‘sodalizio’ tra Warburg e Schramm, Schramm e Saxl, Schramm e Wind. Siamo di fronte a punti di vista unilaterali: l’Antico persiste, ma che dire quando è irriconoscibile sia a chi ne è protagonista, sia (per lungo tempo) a chi lo osserva? Certo è che almeno su un punto si può concordare con Schramm: le istituzioni del poteredevono essere considerate come strutture fondamentali.

In queste rapsodiche annotazioni abbiamo solo sfiorato un tema che dovrebbe essere studiato e articolato ben oltre questi brevi cenni. Ci basti al momento aver almeno posto come un caso concreto – la divergenza tra Wind e Schramm – racchiuda e dischiuda questioni più ampie che toccano il senso stesso della riflessione di Warburg.

Sigle
  • WIA, GC
    Warburg Institute Archive, General Correspondence.
  • SBr
    P. E. Schramm, Allgemeine Korrespondenz betreffend sein Wirken als Historiker und akademischer Lehrer, Bd. 11, Schramm Archiv, Hamburg, FAS L 230.
  • S.A.H.
    Schramm Archiv Hamburg
Bibliografia
  • Burckhardt 1998
    J. Burckhardt, Sullo studio della storia, a cura di M. Ghelardi, Torino 1998.
  • Goethe [1816-1832] 1887-1919
    J. W. von Goethe, Schriften zur Kunst, Bd. 49,1, in Weimarer Ausgabe: Goethes Werke, herausgegeben im Auftrage der Großherzogin Sophie von Sachsen, abtlg. I-IV. 133 Bände in 143 Teilen, Weimar 1887-1919.
  • Grolle 1991
    J. Grolle, Percy Ernst Schramm – Fritz Saxl. Die Geschichte einer zerbrochenen Freundschaft, in: Aby Warburg. Akten des internationalen Symposions, hrsg. v. H. Bredekamp, M. Diers, C. Schoell-Glass, Hamburg 1991, 145-167.
  • Meier, Newald, Wind 1934
    H. Meier, R. Newald, E. Wind (Hrsg.), Kulturwissenschaftliche Bibliographie zum Nachleben der Antike, Bd. I. Die Erscheinungen des Jahres [1931], Leipzig-Berlin 1934.
  • Newald 1931
    R. Newald, Nachleben der Antike (1920-1929), “Jahresbericht über die Fortschritte der klassischen Altertumswissenschaft” LVII (1931), Leipzig 1931.
  • Panofsky [1950-1956] 2006
    E. Panofsky, Panofsky Korrespondenz, Bd. III (1950-1956), hrsg. v. D. Wuttke, Wiesbaden 2006. 
  • Saxl 1920
    F. Saxl, Das Nachleben der Antike. Zur Einführung in die Bibliothek Warburg, “Hamburger Universitäts-Zeitung” XI (1920), n. 4, 244-247.
  • Saxl 1923
    F. Saxl, Die Bibliothek Warburg und ihr Ziel, “Vorträge der Bibliothek Warburg”, I (1921-1922), Leipzig-Berlin 1923, 1-10.
  • Schramm 1924
    P. E. Schramm, Das Herrscherbild in der Kunst des frühen Mittelalters, “Vorträge Bibliothek Warburg” II (1922-1923), I Teil, Leipzig-Berlin 1924, 145-224.
  • Schramm 1928
    P. E. Schramm, Die deutschen Kaiser und Könige in Bildern ihrer Zeit, I Teil: Bis zur Mitte des 12. Jahrhunderts, 2 Bde., Leipzig-Berlin 1928.
  • Schramm 1929
    P. E. Schramm, Kaiser, Rom und Renovatio. Studien zur Geschichte des Römischen Erneuerungsgedankens vom Ende des Karolingischen Reiches bis zum Investiturstreit, “Studien der Bibliothek Warburg”, 17, 2 Bde., Leipzig-Berlin 1929.
  • Schramm 1956
    P. E. Schramm, Herrschaftszeichen und Staatssymbolik: Beiträge zu ihrer Geschichte vom dritten bis zum sechzehnten Jahrhundert: Nachträge aus dem Nachlaß, Bd. 3, Stuttgart 1956.
  • Schramm 1958
    P. E. Schramm, Sphaira-Globus-Reichsapfel. Wanderung und Wandlung eines Herrschaftszeichens von Caesar bis zu Elisabeth II, Stuttgart 1958.
  • Schramm 1963-1964
    P. E. Schramm, Neun Generationen: Dreihundert Jahre deutscher ‘Kulturgeschichte’ im Lichte der Schicksale einer Hamburger Bürgerfamilie (1648-1948), 2 Bde., Göttingen 1963-1964.
  • Schramm 1968
    P. E. Schramm, Kaiser, Könige und Päpste. Gesammelte Ausätze zur Geschichte des Mittelalters, Bd. 1, Stuttgart 1968.
  • Schramm 1971
    P. E. Schramm, Kaiser, Könige und Päpste, Bd. 4, Stuttgart 1971. 
  • Schramm 1979
    P. E. Schramm, Versuch einer Biographie Aby Warburgs, pubbl. in parte in Mnemosyne, hrsg. v, S. Füssel, Göttingen 1979, 24-45.
  • Schramm
    P. E. Schramm, Autobiographische Aufzeichnungen. Materialen zu den Lebenserinnerungem, Schramm Archiv, Hamburg, FAS 305.
  • Schramm
    P. E. Schramm, Gedanken über die einigen beruflichen Aussichten und Pläne, Schramm Archiv, Hamburg, FAS 297.
  • Schramm
    P. E. Schramm, Jahrgang 94. Lebnserinnerungen der ersten drei Jahrzehnte 1894-1924, Bd. 1, Schramm Archiv, Hamburg, L 303.
  • Thimme 2006
    D. Thimme, Percy Ernst Schramm und das Mittelalter. Wandlungen eines Geschichtsbildes, Göttingen 2006.
  • Warburg [1926-1929] 2001
    A. Warburg, Tagebuch der Kulturwissenschaftlichen Bibliothek Warburg, mit eintr. v. Gertrud Bing u. Fritz Saxl, hrsg. v. Karen Michels u. Charlotte Schoell-Glass, Berlin 2001.
  • Warburg [1888-1903] 2011
    A. Warburg, Frammenti sull’espressione, a cura di Susanne Müller, Pisa 2011.
  • Wind 1958
    E. Wind, Pagan Mysteries in the Renaissance, New York 1958.
  • Yorck von Wartenburg [1877-1897] 2006.
    Paul Yorck von Wartenburg, Carteggio Wilhelm Dilthey – Paul Yorck von Wartenburg (1877-1897), in Paul Yorck von Wartenburg, Tutti gli scritti, con testo tedesco a fronte, a cura di F. Donadio, Milano 2006.
Studi su Percy Ernst Schramm
  • Fondamentale: David Thimme, Percy Ernst Schramm und das Mittelalter. Wandlungen eines Geschichtsbildes, Göttingen 2006 [con bibliografia], da cui sono tratte le citazioni della corrispondenza tra Saxl, Schramm e Warburg. Si vedano inoltre anche per l’ulteriore bibliografia:
  • Joist Grolle, Der Hamburger Percy Ernst Schramm- ein Historiker auf der Suche nach der Wirklichkeit, Hamburg 1989.
  • Joist Grolle, Percy-Ernst Schramm – ein Sonderfall in der Geschichtsschreibung Hamburgs, “Zeitschrift des Vereins für Hamburgische Geschichte” LXXXI (1995), 23–60.
  • János Bak, Medieval Symbology of the State: Percy E. Schramm’s Contributions, “Viator” 4 (1973), 33-63.
  • Eliza Garrison, Ottonian Art and Its Afterlife: Revisiting Percy Ernst Schramm’s Portaiture Idea, “Oxford Art Journal” XXXII (2009), n. 2, 205-222.
  • Antti Matikkala, Percy Schramm und Herrschaftszeichen, “Mirator” XIII (2012), 37-69 [con bibliografia].
English abstract

Maurizio Ghelardi’s essay examines the debate between Edgar Wind and Percy Ernst Schramm on the idea of the Nachleben der Antike. The concepts proposed by Schramm of Renovatio and Correctio referring to images of power during the Middle Ages are in fact a departure from the idea of the persistence of Antiquity understood by Wind as the rebirth of paganism in the Renaissance, a departure that, when analysed, proves crucial for the outcomes of the dissemination of Warburgian studies.

keywords | Percy Ernst Schramm; Edgar Wind; Nachleben der Antike. 

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo/ To cite this article: M. Ghelardi, Edgar Wind, Percy Schramm e il Warburg-Kreis. Sui concetti di Nachleben, Renovatio, Correctio, “La Rivista di Engramma” n. 176, ottobre 2020, pp. 13-42 | PDF of the article 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2020.176.0003